IL DRAMMA DELL'IRAQ, TRA GUERRA E DEBITO
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IL DRAMMA DELL'IRAQ, TRA GUERRA E DEBITO

”Quando Saddam giustiziava qualcuno aveva l’abitudine di farsi ripagare dai familiari della vittima il costo dei proiettili usati. E’ esattamente quello che stanno chiedendo oggi all’Iraq i paesi creditori che hanno finanziato Saddam”.


Mohammed Kamil, giovane iracheno interpellato da Jubilee Iraq


Il Tavolo Campagne si è sempre espresso contro le guerre e le minacce di interventi armati ed ha espresso con chiarezza la sua opposizione totale alle guerre contro l’Afghanistan e l’Iraq. All’interno della Rete Lilliput tutte le organizzazioni presenti nel Tavolo hanno aderito a campagne e iniziative contro le guerre e soprattutto hanno partecipato alla mobilitazione mondiale del 15 febbraio 2003.
Oggi che le peggiori previsioni espresse dal movimento internazionale si stanno rivelando molto più accurate e mature delle analisi delle potenze militari presenti in Iraq, nonché completamente errate anche nell’identificare la presenza di armi di distruzione di massa in Iraq, rinnoviamo il nostro impegno a chiedere il ritiro delle forze occupanti e l’accelerazione del passaggio dei poteri ad un governo nazionale democraticamente eletto dal popolo iracheno senza indebite inteferenze internazionali.

Ma non possiamo esimerci dal richiamare l’attenzione delle organizzazioni internazionali, dei governi coinvolti e interessati e di tutte le organizzazioni del movimento contro la guerra su un ulteriore flagello che si sta preparando in questi mesi e che infliggerà un colpo terribile alle speranze di democrazia, libertà e giustizia della popolazione irachena: la trasformazione in debito estero del futuro governo iracheno dei vecchi debiti accumulati tramite l’acquisto di armi, il pagamento dei danni di guerra, nonché il finanziamento della ricostruzione post-bellica.


Iraq: il paese più indebitato al mondo

L’Iraq soffre un debito finanziario “odioso” enorme accumulato da Saddam a danno del popolo iracheno ed a vantaggio dei produttori di armi e delle grandi imprese occidentali, che sarà utilizzato dalle potenze occidentali per condizionare il nuovo Iraq. Allo stesso tempo nessuno parla del parimenti enorme credito ecologico e sociale del popolo iracheno dovuto ai governi e alle popolazioni dei paesi occidentali verso cui per decenni il petrolio iracheno è stato esportato a danno delle condizioni sociali e ambientali in cui sono vissuti gli iracheni, spesso privi anche dell’accesso a risorse energetiche essenziali.

Subito dopo la capitolazione del regime di Saddam, si è aperto un ampio dibattito internazionale sulle stime del debito estero iracheno prodotto da quasi 25 anni di dittatura, dal momento che questo paese non ha riportato al Club di Parigi dei principali creditori occidentali ed al Fondo monetario internazionale regolarmente le cifre del proprio debito consolidato, come sono tenuti a fare tutti i paesi in via di sviluppo. Inoltre, non sono stati ancora nemmeno trovati i documenti dei crediti arrivati in Iraq archiviati nel Ministero delle Finanze a Baghdad, che potrebbero anche essere andati perduti nel caos del dopoguerra.

Jubilee Iraq è giunta ad una valutazione dei debiti complessivi dell’Iraq tra i 95 e i 153 miliardi di dollari. Queste cifre escludono gli indennizzi per danni prodotti dalla prima guerra del Golfo, che dovrebbero raggiungere la cifra di circa 50 miliardi di dollari. Il Fondo Monetario Internazionale dichiara che i debiti dell’Iraq ad oggi ammontano a 120-130 miliardi di dollari, ai quali dovrebbero aggiungersi circa 55 miliardi di dollari di compensazioni dei danni di guerra. La stima più precisa sembra essere quella del Center for Strategic and International Studies che nell’aprile 2003 stimava il debito iracheno in 127 miliardi di dollari, di cui 47 di soli interessi. L’esposizione verso i paesi del Golfo ammonterebbe a 55 miliardi di dollari (con i quali l’Iraq aveva rinegoziato debiti per circa 30 miliardi nel 2002), la Francia vanta crediti tra i 4 e gli 8 miliardi, gli altri paesi del Club di Parigi esclusa la Russia, crediti per circa 15 miliardi. Altri 4,8 miliardi sono richiesti da banche commerciali e 26,1 miliardi da una galassia di creditori minori, tra cui paesi dell’Europa centro-orientale, di cui circa 10 miliardi di competenza del governo russo. Altre pendenze, che potrebbero riguardare alcune decine di miliardi di dollari, sarebbero collegate a contratti non rispettati con imprese internazionali, molte delle quali russe, soprattutto nel campo dell’energia e delle telecomunicazioni.

Per quanto riguarda l’Italia, l’esposizione verso l’Iraq è pari come minimo a 1,346 miliardi di Euro, controllati dalla SACE, l’assicuratore pubblico che ha indennizzato con i soldi degli ignari contribuenti italiani operazioni di imprese e banche italiane che hanno operato in Iraq dopo aver stipulato una polizza assicurativa contro i rischi politici e commerciali con il governo italiano. Il quale governo, ad indennizzo effettuato come prevedibile a causa del mancato pagamento dei contratti da parte della controparte irachena, ha prelevato il credito privato delle imprese verso il governo iracheno, trasformandolo in un credito pubblico di tutti i cittadini italiani verso Saddam. Allo stesso tempo, imprese e governo italiano hanno presentato richieste di indennizzo per danni di guerra nel 1991 pari a 3,44 miliardi di Euro. Tra le principali imprese e banche che hanno operato in Iraq negli anni ’80 e ’90 spiccano la Banca Nazionale del Lavoro, invischiata nello scandalo Atlanta e del super-cannone per Saddam, la cui produzione era iniziata nei cantieri di Genova, la Fincantieri, l’ENI e l’Ansaldo.

Per la Exotix, società di brokeraggio esperta di debiti, il 60% del debito in essere è probabilmente dovuto a finanziamenti connessi con l’acquisto di armamenti e comprendono prestiti, spesso a tasso quasi di mercati, concessi dai governi occidentali membri del Club di Parigi, tra cui l’Italia. Il resto comprende in gran parte prestiti per l’acquisto di prodotti commerciali.

Se si sommano tutte le stime dei debiti in essere (incluse le riparazioni per i danni di guerra) secondo Jubilee si perviene a una cifra intorno ai 200 miliardi di dollari. Il reddito nazionale dell’Iraq nel 2000 (quindi prima dell’ultima guerra) era di circa 32 miliardi di dollari ed il valore delle sue esportazioni pari a 15 miliardi di dollari nel 2002, di cui 10 da risorse petrolifere. Secondo la Banca mondiale il reddito nazionale dell’Iraq nel 2003 è stato invece soltanto di circa 12-16 miliardi di dollari, a fronte di un’entrata petrolifera di soli 2 miliardi di dollari. E’ evidente che l’Iraq è di gran lunga il paese più indebitato del mondo con un debito pari a circa 13-17 volte il suo prodotto interno lordo! Inoltre, è sempre un paese che ha urgente necessità di aiuti di emergenza e di interventi di ricostruzione, per i quali le stime variano tra i 100 ed i 600 miliardi di dollari.


La storia del debito iracheno: i danni inflitti dall’embargo e dalle compensazioni di guerra

Quando Saddam Hussein finì di consolidare il suo controllo sull’Iraq nel luglio del 1979, il paese disponeva di riserve per 36 milioni di dollari e non aveva debiti esteri a lungo termine. Nel settembre del 1980 iniziò la guerra contro l’Iran, durata 8 anni e costata un milione di morti.
A causa della rivoluzione islamica sviluppatasi in Iran, sia i paesi occidentali che quelli socialisti, come pure alcuni paesi arabi, sostennero l’Iraq perché non potevano accettare l’emergere di uno stato non allineato con i loro interessi nell’area. L’acquisizione di prestiti dall’estero rese possibile una rilevante spesa militare, mai prima verificatasi, producendo un permanente squilibrio nella bilancia commerciale del paese, acuito dall’importazione diretta di numerose merci ed in particolare di sistemi di arma direttamente dall’occidente. Tra il 1981 ed il 1985, ad esempio, i redditi derivanti dalle vendite di petrolio ammontavano a 48,4 miliardi di dollari, mentre la spesa militare era due volte e mezza più grande, in quanto superava i 120 miliardi di dollari. Alla fine della guerra nel 1988, quindi, la Export-Import Bank degli Stati Uniti calcolò che l’Iraq era debitore di circa 27 miliardi di dollari verso i paesi occidentali e di 50 miliardi verso i paesi del Golfo.

Quando l’Iraq riemerse dalla guerra con l’Iran e cercò di ricostruire la sua economia, dovette fronteggiare una grave crisi finanziaria, dovuta al basso prezzo internazionale del petrolio e agli oneri complessivi di restituzione dei crediti che ammontavano a 3 miliardi di dollari l’anno. Ciò portò alla richiesta di nuovi prestiti e ad un ulteriore aumento del debito nei confronti dei paesi occidentali oltre i 50 miliardi di dollari. Il ruolo oscuro giocato dal Kuwait in sostegno alla politica americana di controllo al ribasso del prezzo del petrolio ed il rifiuto del piccolo paese confinante di ridurre il debito iracheno concedendo nuove risorse fresche, portò Saddam alla scelta sciagurata di invadere il paese nell’agosto del 1990. L’embargo commerciale e finanziario imposto dall’ONU sull’Iraq fintantoché non avrebbe lasciato il Kuwait e poi la prima guerra del golfo nel 1991 che ne seguì non soltanto devastarono l’Iraq ambientalmente e socialmente mettendo a rischio la capacità di sopravvivenza del popolo iracheno, ma aumentarono ulteriormente il peso del debito estero.

Liberato il Kuwait, il Consiglio di Sicurezza avrebbe dovuto revocare o trasformare le sanzioni, ma al contrario le rinnovò ponendo altre due condizioni, assai più politiche e più difficili da verificare: il pagamento dei danni di guerra ed il disarmo non convenzionale del paese (nucleare, chimico, balistico e biologico). Inoltre, furono istituite tre Commissioni: la ben nota UNSCOM per l’attuazione e la verifica del disarmo non convenzionale; quella sulle sanzioni, incaricata dell’attuazione di queste e di eventuali eccezioni all’embargo, quali ad esempio il programma “Oil for Food” istituito nel 1996 per l’importazione di merci essenziali per la popolazione pagate con una parte delle limitate vendite di petrolio iracheno autorizzate; e la UNCC, la Commissione delle Nazioni Unite per le compensazioni, cioè i risarcimenti per i danni di guerra, che non ha precedenti dai tempi del Trattato di Versailles. In sostanza l’Iraq è stato considerato responsabile per tutte le perdite e i danni economici derivanti dalla sua invasione del Kuwait dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Ovviamente durante i 13 anni di embargo l’intero servizio sul debito estero (quote di capitale da restituire, interessi e spese finanziarie) non venne onorato e quindi gli interessi arretrati si accumularono iniziando a costituire una parte significativa dell’intero debito.
Inoltre, vanno ricordati gli ampi margini di discrezionalità nella definizione di merci “essenziali” per la popolazione irachena all’interno del programma “Oil for Food”: in sostanza medicine e alimenti per la popolazione ridotta alla fame erano in concorrenza con l’uso dei fondi destinati invece al pagamento dei danni di guerra (in un primo momento il 30%, poi ridotto al 25% nel 2000, del totale delle entrate dalle vendite petrolifere permesse), all’affitto dell’oleodotto che collega Kirkuk nel nord dell’Iraq con il terminale turco di Ceyhan sul Mar Mediterraneo per le esportazioni del greggio (di cui ha benificiato anche l’ENI e l’Italia), nonché al funzionamento dello stesso ONU in Iraq.

A partire dal 1996 l’Iraq ha venduto petrolio per 64 miliardi di dollari, ma la popolazione ha ricevuto prodotti essenziali per la sopravvivenza solo per 27 miliardi di dollari. In effetti, a partire dall’8 aprile del 2003, cioè da quando Kofi Annan ha ricevuto l’incarico di utilizzare parte dei fondi delle vendite del petrolio per interventi di emergenza, con la creazione del Fondo di Sviluppo per l’Iraq che ha sostituito il programma “Oil for Food”, e come ONU ha lanciato appelli per contribuzioni speciali per gli aiuti umanitari, ben 870 milioni di dollari sono stati pagati al Kuwait, all’Inghilterra e ad altri paesi per le compensazioni dei danni di guerra. Successivamente, il 23 giugno 2003, l’ONU ha richiesto 259 milioni di dollari per sopperire alle esigenze umanitarie mentre negli stessi giorni la UNCC annunciava la sua intenzione di prelevare altri 600 milioni di dollari dal programma “Oil for Food” per pagare le compensazioni di guerra. La contraddizione appare evidente, si toglie con una mano ciò che si da con l’altra, in palese violazione della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n.687 dell’aprile del 1991 che affermava che il livello dei pagamenti dell’Iraq doveva “prendere in considerazione le esigenze della popolazione irachena, la capacità di pagamento del paese e i fabbisogni dell’economia dell’Iraq”.

Proprio negli ultimi mesi sta prendendo forma l’immenso conto per le compensazioni per i danni associati alla prima guerra del Golfo presentato da tutti coloro che sono stati danneggiati dalle iniziative militari di Saddam Hussein, imprese private, governi ed individui, eccetto gli iracheni che non hanno alcun diritto a richiedere compensazioni per i danni subiti! L’ammontare complessivo non è stato ancora determinato perché la Commissione UNCC ha ricevuto ad oggi ben 2,6 milioni di richieste di indennizzi per i danni della prima guerra del 1991 per ben 349 miliardi di dollari, di cui 180 miliardi solo dal Kuwait (80 per danni ambientali), ed ha completato la verifica soltanto delle richieste presentate da singoli individui, ma non quelle di governi ed imprese private. Circa il 70 per cento dei risarcimenti richiesti sono stati ridotti a 46,25 miliardi di dollari di indennizzi autorizzati, e di questi 18,5 sono già stati pagati dal programma “Oil for Food”, mentre ancora 27,5 miliardi devono essere sborsati (pari a ben il 250 per cento dell’intero PIL attuale del paese!). Se si applica lo stesso tasso medio di risarcimento applicato fino ad oggi ulteriori 23 miliardi di dollari di indennizzi potrebbero essere accordati, portando quindi i rimborsi ancora da effettuare a circa 50 miliardi di dollari (pari a circa il 400 per cento del PIL attuale iracheno!).

Inoltre, se la Commissione continua a procedere con le stesse controversie e lentezze che la hanno caratterizzato fino ad oggi, si stima che l’Iraq continuerà a pagare compensazioni per la prima guerra del Golfo per almeno altri venti anni. Comunque, l’UNCC parla di un prelievo di circa 600 milioni di dollari per i pagamenti del 2003, circa il doppio del pagamento medio effettuato fino ad oggi, e pari a circa il 5 per cento del PIL iracheno odierno ed al doppio della cifra richiesta dall’ONU nell’ultimo appello umanitario a favore delle popolazioni irachene.
Tutto ciò senza considerare le nuove possibili riparazioni di guerra da calcolare per la guerra del 2003, su cui i paesi occupanti ancora non si pronunciano. Concordiamo con Khaldun al Naqeeb, professore di scienze politiche all’Università del Kuwait, secondo cui gli accordi attualmente in vigore garantiscono che “il futuro economico dell’Iraq è stato ipotecato per gran parte di questo secolo a causa delle centinaia di miliardi di dollari richiesti per danni di guerra”.

La Risoluzione n.1483 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, approvata il 22 maggio 2003, si è espressa in favore della continuazione dei pagamenti, utilizzando il 5% delle entrate per il petrolio iracheno destinate ad alimentare il Fondo per lo Sviluppo dell’Iraq, dal momento che è stata decretata la fine del programma “Oil for Food” a decorrere dal novembre 2003.
Bisogna notare che l’Iraq non ha avuto alcun diritto di appellarsi contro le decisioni dell’UNCC (il cui consiglio direttivo ha la stessa composizione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU!), ed a maggior ragione non lo ha oggi che non ha un governo ed istituzioni democratiche. Soltanto se il Consiglio di Sicurezza dell’ONU con una sua risoluzione eliminasse l’obbligo delle riparazioni , l’Iraq sarebbe liberato dalla necessità di pagare questa cifra enorme, pari a circa un quarto del suo debito estero. Ironia della sorte, oggi l’Iraq deve anche pagare le stesse attività svolte dall’UNCC, calcolate in 278 milioni di dollari alla fine del 2002; decisamente un onorario parecchio salato per i legali della Commissione.


L’ipocrisia dei creditori e del Club di Parigi

Nell’incertezza delle stime esatte del debito estero dell’Iraq, i paesi creditori, pur richiedendo almeno parzialmente i relativi pagamenti, si sono presi del tempo per documentare le loro richieste. Ciò può in parte dipendere dalla segretezza che copre alcuni dei prestiti concessi a Saddam, ma anche dal fatto che dopo 13 anni di mancato servizio sul debito, possono in molti casi aver di fatto cancellato l’aspettativa di un pagamento di questo.

Il Club di Parigi, che comprende i 19 più grandi paesi creditori al mondo, inclusi tutti quelli del G8, ha finalmente reso note le sue richieste il 10 luglio 2003, tre mesi dopo la caduta di Baghdad. Tuttavia non è stato in grado di precisare l’ammontare degli interessi e degli arretrati, ma soltanto le richieste relative al valore del capitale prestato all’inizio, cioè 21 miliardi di dollari. Si riteneva che il Fondo Monetario Internazionale avrebbe fornito un rapporto sulle richieste dei paesi creditori non appartenenti al Club, ma ciò non si è ancora verificato. Il Presidente del Club di Parigi, Jean Pierre Jouyet, ha dichiarato che “Il Club di Parigi definirà un accordo con l’Iraq non appena nel paese saranno in funzione delle autorità locali, quando queste saranno riconosciute a livello internazionale e quando il Fondo monetario avrà valutato a quale livello sarà necessario alleggerire il debito. Più presto le autorità locali saranno in attività, più presto noi potremo fare tutto ciò” ed ha aggiunto che spera che ciò avvenga entro il 2004. Un compito alquanto arduo per lo stesso Fondo monetario, dal momento che l’Iraq risulta essere il paese più indebitato al mondo.

In realtà gli Stati Uniti erano riusciti già a fine maggio al vertice del G8 di Evian a definire a sorpresa una nuova politica per il Club di Parigi, al fine di preparare la strada ad una cancellazione del debito ad hoc nel caso dell’Iraq per permettere subito alle imprese ed agli investitori americani di operare nella ricostruzione del paese sulla base di nuovi prestiti e potenzialmente nuovi debiti. In sostanza il pragmatismo Usa ha portato alla definizione di nuove regole per il Club di Parigi, i cosiddetti Evian Terms, dopo venti anni di rigidissima applicazione neoliberista dei precetti di semplice ristrutturazione del debito estero dei paesi in via di sviluppo.
Con il caso Iraq il Club di Parigi si vede la possibilità di effettuare cancellazioni dei crediti bilaterali dei paesi più ricchi, di operare queste per qualsiasi tipo di credito e non solo quelli che risalgono a prima dell’inizio dei processi di ristrutturazione del debito di un paese presso il Club, ma soprattutto prevedono un trattamento ad hoc caso per caso, senza regole precise su come effettuare le cancellazioni del debito. Sarebbe da chiedersi se un tale trattamento sarà riservato anche ad altri paesi a basso reddito pesantemente indebitati, oppure soltanto ai governi amici degli Stati Uniti o sconfitti con guerre preventive unilaterali.

Secondo una fonte molto vicina al Club di Parigi, il gruppo di paesi membri non ha ancora deciso la misura della cancellazione del debito dell’Iraq, anche se è improbabile che raggiunga il livello del 90% di cancellazione concesso sulla carta ai paesi più poveri del pianeta, come quelli dell’Africa sub-sahariana. Lo scenario più probabile contemplerebbe una cancellazione pari al 70% del valore dei debiti in essere.
La società finanziaria Exotix prevede una riduzione compresa tra 51,5 e 57,3 miliardi di dollari, quindi pari ad un quarto del debito complessivo incluse le riparazioni di guerra, con il risultato finale che invece di non pagare nulla, l’Iraq dovrà pagare fino a 5 miliardi di dollari di servizio sul debito ogni anno. L’Iraq, infatti, potrebbe probabilmente pagare solo gli interessi dei primi 4 o 5 anni, quindi con pagamenti dell’ordine di 2,25 miliardi di dollari all’anno, ma dopo cinque anni, potrebbero essere aggiunti alle restituzioni dei capitali, altri pagamenti per interessi per circa 2,75 miliardi di dollari all’anno, portando i versamenti annui complessivi dell’Iraq a poco più di 5 miliardi in totale. Una cifra che gli analisti finanziari, e potenzialmente anche il Fondo monetario internazionale, troverebbe sostenibile: praticamente poco meno della metà del PIL iracheno di oggi!

Allo stesso tempo, una riduzione del debito verso i governi porterebbe paradossalmente con sé un aumento del “prezzo” del debito dell’Iraq: secondo l’agenzia Reuters “la cattura di Saddam ha costituito una nuova spinta per i paesi creditori verso la cancellazioni di alcuni dei miliardi di dollari che l’Iraq deve restituire e questo processo potrebbe aumentare il valore di alcuni crediti di privati anche in misura superiore al 50%.” Può sembrare una stranezza che il valore del debito possa aumentare quando viene annunciata una cancellazione, ma la ragione è che i creditori finora avevano poche speranze di ottenere dei pagamenti, mentre ora sembra che il Club di Parigi abbia raggiunto una posizione comune che obbligherà l’Iraq a pagare, anche se in misura ridotta, il suo debito probabilmente per alcuni decenni.

Nel suo tour europeo lo scorso dicembre, l’inviato americano James Baker è riuscito a strappare l’impegno di Blair, Schroeder e Chirac ad una sostanziale riduzione del debito dell’Iraq nell’ambito del Club di Parigi, con un accordo sul fatto che avere il nuovo governo in funzione non rappresenta una condizione preliminare per muoversi verso una ristrutturazione del debito. Dopo la visita di Baker il 17 dicembre 2003, anche l’Italia si è dichiarata d’accordo con gli Stati Uniti sulla necessità di una sostanziale riduzione del debito dell’Iraq attraverso il Club di Parigi ed il comunicato emesso dall’ufficio della Presidenza del Consiglio per l’occasione ha sottolineato che “Berlusconi e Baker sono d’accordo sull’esigenza di approvare un accordo insieme agli altri Stati creditori per ridurre i debiti causati da un regime dittatoriale che ha ridotto l’Iraq alla povertà”.
Successivamente anche Putin ha dato la sua disponibilità a Baker a pervenire ad una qualche riduzione del debito russo verso l’Iraq, nonostante questo possa ammontare ad una cifra importante per le casse della Russia. Ed infine anche il Giappone, ha confermato il suo impegno ad una sostanziale cancellazione, nonché lo stesso Kuwait lo scorso gennaio si è impegnato ad una riduzione di ben 16 miliardi di dollari.

Ma dietro il presunto altruismo dei paesi creditori nel loro impegno ad una significativa cancellazione del debito iracheno, concordiamo con Jubilee Iraq nel credere che la verità sia ben diversa: i paesi creditori rastrelleranno in ogni caso pagamenti non dovuti dalla popolazione irachena per dei prestiti che la hanno pesantemente danneggiata in passato. Molti degli iracheni credono che sono i creditori che dovrebbero cercare di far dimenticare al popolo iracheno il sostegno finanziario che essi hanno dato a Saddam. Sarebbe, invece, necessario avere un giusto processo di tipo arbitrale che esamini le causali dei prestiti che hanno beneficiato Saddam e non la popolazione dell’Iraq, visto che i creditori oggi possono perseguire lo stesso Saddam per questi debiti.


Il business della ricostruzione: privatizzazioni e nuovo debito imposti agli iracheni

In molti hanno tentato di fare i conti sui costi reali e complessivi della seconda guerra contro l’Iraq, ma le stime variano moltissimo, andando dai 100 miliardi di dollari per un conflitto di breve durata agli oltre 1400 per una guerra prolungata. Gli Stati Uniti hanno finanziato la guerra in Iraq prima con 75 miliardi di dollari (addizionali rispetto al bilancio normale per la difesa) e poi con 87 miliardi, di cui 20 per la ricostruzione in forma di donazioni. Il Regno Unito ha investito nella guerra già due miliardi di sterline con possibili ulteriori quattro miliardi da stanziare a breve.

Allo stesso tempo già dalla fine del 2003, con una guerra di fatto ancora in corso in Iraq, si è iniziato a discutere di come finanziarie il grande business della ricostruzione. In occasione della prima Conferenza dei paesi donatori del 23 ottobre scorso a Madrid, la Banca Mondiale ha presentato una prima stima del fabbisogno di risorse per la ricostruzione dell’Iraq. Nei prossimi quattro anni saranno necessari almeno 55 miliardi di dollari, di cui 17,4 nel 2004. 36 miliardi sarebbero destinati alla ricostruzione in settori prioritari come sanità, scuola, infrastrutture, risorse idriche, agricoltura, mentre l’Autorità provvisoria irachena, cioè le forze della coalizione guidate dagli Stati Uniti, dovrebbe disporre di 19 miliardi di dollari per garantire la sicurezza e la produzione di petrolio.

Intanto è importante ricordare che persino in Afghanistan, dove la guerra è stata da tempo dichiarata “terminata”, secondo una recente denuncia dell’ONU la ricostruzione dopo due anni non è di fatto ancora iniziata. Mancano in particolare i fondi previsti per il processo di democratizzazione e quindi non è stato ancora possibile attuare il processo di registrazione degli elettori, elemento essenziale per far svolgere la consultazione elettorale nel giugno 2004. I paesi donatori hanno erogato in complesso solo 23,5 miliardi di dollari rispetto ai 78,2 previsti dal piano di interventi.

Ritornando alla ricostruzione in Iraq, a fronte di un impegno americano di 20 milioni di dollari già approvati dal Congresso, dell’impegno della Banca mondiale di versare fino a 5 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni e del Fondo monetario di fornire fino a 4,25 miliardi, ben pochi sono stati gli impegni degli altri alleati della coalizione: Giappone 1,5 miliardi a breve, più altri 3,5 in prestiti nel periodo 2005-2007; Regno Unito 470 milioni di dollari già spesi, altri 438 entro due anni; Spagna 300 milioni fino al 2007; Canada 220 milioni, ed Unione europea con soli 235 milioni per il 2004. L’aiuto italiano dovrebbe essere di 236 milioni di dollari, la Polonia ha annunciato che non potrà largheggiare, Francia, Germania e Russia (non rappresentate a Madrid, con l’ultima, di contro, disposta a sostenere le sue imprese direttamente con quattro miliardi) si limiteranno a quanto dato in sede europea ed a qualche aiuto umanitario e di emergenza non collegato agli altri interventi per la ricostruzione. Il totale di 33 miliardi di dollari di impegni dovrebbe confluire in un Fondo Multilaterale a cui parteciperanno 58 paesi e 19 organizzazioni internazionali, che probabilmente sarà gestito dalla Banca mondiale e dall’ONU.

Attualmente però risulta ancora poco chiaro quanti di questi soldi saranno dati a prestito e quanti a dono, nonostante si parli di una quota di circa il 50 per cento di prestiti che rischiano di generare subito nuovo debito. Inoltre, non è chiaro se una parte dei fondi confluiranno anche nel Fondo per lo Sviluppo dell’Iraq dell’autorità Provvisoria della Coalizione, gestito da un comitato di 21 membri, con 11 con diritto di voto, di cui sette americani, un inglese ed un australiano. Al riguardo va segnalato che l’avanzo di cassa del programma “Oil for Food”, sotto il controllo delle Nazioni Unite fino alla sua dismissione lo scorso novembre, è stato devoluto al Fondo per lo Sviluppo. Secondo Christian Aid, si tratta di ben 3,5 miliardi di dollari ricavati dalla vendita di petrolio prima della guerra, di 3 miliardi relativi alle vendite dopo la fine della guerra, più 2,5 miliardi provenienti dalla confisca di fondi iracheni all’estero: in totale quindi ben 9 miliardi di dollari passati dall’ONU sotto il controllo anglo-americano!
In sostanza, un’appropriazione indebita di fondi multilaterali, che riteniamo inaccettabile e lesiva dello stesso mandato delle istituzioni internazionali.

Nel frattempo la guerra in Iraq ha scatenato l’appetito di numerose imprese occidentali per quanto riguarda l’acquisizione di commesse per forniture agli eserciti, gli appalti per i lavori di ricostruzione e l’acquisizione del controllo su materie prime e servizi del paese nel lungo periodo.
Alcuni esperti indipendenti calcolano che di quattro miliardi di dollari al mese necessari per mantenere le truppe di occupazione nel paese, almeno un terzo viene appaltato a soggetti privati. Inoltre, dei 2,6 miliardi di dollari accordati dall’amministrazione Bush nell’immediata caduta del regime di Saddam solo 800 milioni sono stati destinati all’emergenza umanitaria e il resto è andato alle prime opere di ricostruzione di infrastrutture, di cui un terzo della cifra alla Kellog, Brown & Root, filiale inglese della famosa Hulliburton vicina al vice-presidente americano Cheney e coinvolta in numerosi scandali di corruzione in Iraq e nel mondo.

Infatti, molte imprese americane ed inglesi, specialmente nel settore dell’energia, mirano ad utilizzare proprio il processo di ricostruzione in questi mesi per occupare il futuro mercato iracheno che sarà ampio e cruciale. BP, Shell e Exxon Mobil, tre delle quattro imprese straniere (la quarta era la francese Total-Elf-Fina, oggi marginalizzata) che partecipavano al capitale della Iraq Petroleum Company prima della sua nazionalizzazione nel 1973, vorrebbero avere il monopolio del petrolio iracheno e sottrarlo alle decisioni dell’OPEC, acquisendo così il controllo di una fonte dove il barile costa 5 dollari rispetto ai 15 nel Texas. Si è valutato un fabbisogno di almeno 5 miliardi di dollari di investimento per riportare il settore petrolifero almeno alle condizioni di funzionamento analoghe a quelle precedenti la prima guerra del Golfo, quando il paese riusciva a produrre 3,5 milioni di barili al giorno – oggi ne produce al massimo 2 milioni di barili. Molti sono quindi gli interventi da effettuare, tra cui la manutenzione straordinaria degli impianti di pompaggio, l’ammodernamento di raffinerie e terminali, e la riparazione di oleodotti, etc. Se invece si guarda ad una prospettiva più a lungo termine, cioè se si considera l’obiettivo di aumentare di 4-4,5 milioni di barili al giorno l’estrazione complessiva del paese, servirebbero da 30 a 50 miliardi di dollari all’anno. In altre parole, non solo le spese sarebbero ingenti, ma per far ritornare l’Iraq uno dei quattro paesi maggiori produttori di petrolio al mondo ben pochi introiti potrebbero essere destinati ad altri interventi, tipo la ricostruzione e le spese di natura sociale.
Tutto questo, mentre oggi la popolazione irachena vede l’accesso ai prodotti petroliferi razionalizzato dalle forze di occupazione, che sono molto più interessate all’export che a soddisfare il fabbisogno locale di chi avrebbe il diritto di disporre delle risorse energetiche del paese a proprio piacimento.

Inoltre, nel dicembre 2003 sono stati definiti dall’amministrazione Bush i criteri che saranno seguiti nell’assegnazione degli appalti in Iraq: “E’ necessario, per la protezione degli essenziali interessi di sicurezza degli Stati Uniti, limitare la competizione per i contratti primari a imprese degli Stati Uniti, dell’Iraq, dei partner della coalizione e di paesi che contribuiscono alla forza schierata in Iraq”. Per i 18,6 miliardi di dollari disponibili, la direttiva elenca 63 paesi eleggibili per partecipare alle gare per i 26 contratti inerenti la ricostruzione delle infrastrutture, il ripristino dei servizi petroliferi e l’equipaggiamento del nuovo esercito. Subito la decisione ha provocato le reazioni dei nove paesi dell’UE esclusi, tra cui Francia e Germania, nonché del Canada, che poi, poiché aveva contribuito all’intervento in Afghanistan, è stato reinsenrito in seconda battuta.

L’Italia, ammessa nel club ristretto degli investitori in Iraq dall’amministrazione Bush, cerca anch’essa di ritagliare uno spazio significativo per le proprie imprese nella spartizione dei 18, 6 miliardi di dollari che si prevede saranno spesi in Iraq a breve. In corsa nelle gare per i maggiori contratti sarebbero la Magrini Elettronica, la Nuovo Pignone, la FATA, nonché progetti specifici sono già stati presentati alla Amministrazione Provvisoria della Coalizione da tre società del gruppo Finmeccanica: Ansaldo Energia, per ristrutturare la centrale di Bajii, la Elsag per creare una smart card per controllare la diffusione delle derrate alimentari, e la Alenia Marconi per rifare il sistema radar dell’aereoporto di Bagdad.

Allo stesso tempo, tutti questi investimenti avverranno in un contesto che l’Economist ha definito come “il sogno di un capitalista”. Il 19 settembre 2003 il reggente protempore Bremer ha emanato il decreto 39 con il quale ha stabilito che duecento imprese pubbliche irachene sarebbero state privatizzate, che le società straniere possono detenere il 100% di banche, miniere e fabbriche irachene ed infine che queste aziende possono trasferire tutti i loro utili fuori dall’Iraq senza alcun vincolo. Secondo diversi osservatori il decreto sarebbe in violazione dei Regolamenti dell’Aja, in particolare dove dicono che una potenza occupante “sarà considerata solo amministratrice e usufruttuaria degli edifici pubblici, del patrimonio immobiliare, delle foreste e dei fondi agricoli, situati nel paese occupato.” L’usufrutto è un contratto che garantisce ad una parte il diritto di trarre beneficio da un bene altrui “senza alterarne la sostanza”. Quindi, lo stesso controllo seguente ad una conquista provvisoria di guerra non darebbe diritto alla vendita per sempre dei beni del paese occupato. Già in una nota interna del 26 marzo, infatti, il procuratore generale britannico Lord Peter Goldsmith avvertiva il suo premier Tony Blair che “l’imposizione di importanti riforme economiche strutturali non sarebbe autorizzato dal diritto internazionale”.

Crediamo che le regole “neocoloniali” emanate da Bremer violino la convenzione internazionale che regola il comportamento delle forze occupanti, i Regolamenti dell’Aja del 1907 (che come le Convenzioni di Ginevra del 1949 sono stati ratificati dagli Stati Uniti) ed il codice di guerra dello stesso esercito americano. Una privatizzazione degli enti pubblici iracheni senza il consenso democratico della popolazione pregiudicherà gravemente le possibilità di sviluppo del popolo iracheno quando un giorno avrà nuovamente un governo democratico e rappresentativo.

Ancora più vergognoso risulta l’accordo siglato proprio a Roma lo scorso 5 dicembre, alla presenza della Trade Bank of Iraq e dell’Autorità Provvisoria della Coalizione, tra le agenzie di credito all’esportazione di 16 paesi, tra cui l’italiana SACE, che autorizza la copertura assicurativa pubblica per più di 2 miliardi di dollari agli investimenti occidentali in Iraq nei primi sei mesi del 2004. Ben 500 milioni di dollari la copertura proposta dalla Eximbank, mentre 250 milioni di € è l’impegno della SACE nell’ambito di un plafond di un miliardo già autorizzato dal CIPE nel settembre 2003. Di fronte ad un’assenza di prospettiva credibile per l’instaurazione di un governo democratico in Iraq ed il trasferimento dei pieni poteri a questo, la decisione è stata soltanto politica visto che in passato in analoghe circostanze di conflitti militari le agenzie di credito all’esportazione hanno sospeso tutti i loro interventi. Ancora più sorprendente che l’Italia abbia ospitato un tale incontro in qualità di presidente della UE, a fronte di un assenza politica di importanti paesi membri dell’Unione quali la Francia.

Sanpaolo IMI risulta l’unica banca italiana partecipante al consorzio internazionale guidato dalla JP Morgan ed avrà il ruolo di banca agente per lo svolgimento delle attività connesse alla gestione degli strumenti commerciali che la Trade Bank of Iraq emetterà a favore degli esportatori italiani e per cui verrà chiesta un’assicurazione pubblica alla SACE contro i rischi politici e commerciali associati alle operazioni. Comunque, i governi delle compagnie assicurate nei propri investimenti in Iraq saranno sicuri di recuperare eventuali indennizzi da pagare a queste, in quanto l’accordo prevederebbe che il Fondo di Sviluppo per l’Iraq, alimentato con i proventi del petrolio esportato e originariamente pensato per lo sviluppo della popolazione irachena, servirà per ripagare appunto i governi occidentali, Italia inclusa. In sostanza, un’impresa petrolifera italiana che investe oggi in Iraq non solo sarà assicurata dallo stato ed i suoi profitti saranno da questo garantiti, ma lo stesso stato, non volendo rimetterci con eventuali indennizzi alle imprese, si arroga il diritto di farsi ripagare con i proventi dell’export petrolifero, realizzato magari dalla stessa compagnia, che almeno in parte dovrebbero rimanere in Iraq.

Crediamo che questo ennesimo accordo capestro dimostri in maniera lampante che saranno le multinazionali di alcuni paesi occidentali a beneficiare del Fondo per lo sviluppo iracheno e non gli iracheni. In questo modo si creano meccanismi per generare nuovo debito che dovrà essere ripagato in ogni caso direttamente dalla popolazione irachena, anche se non ha ancora un governo democratico e non ha autorizzato democraticamente tali accordi. Una vera e propria ciliegina sulla torta a stelle e strisce, nonché tricolore, dell’occupazione militare.


Conclusioni: tutto il debito è odioso e va cancellato


Le esperienze del passato mostrano che è improbabile che si possa risolvere la crisi debitoria dell’Iraq sulla base dell’altruismo dei paesi creditori. I paesi del G8 hanno finora cancellato solo un terzo dei 100 miliardi di dollari di alleviamento del debito che, in risposta alla campagna di Jubilee, avevano promesso al vertice di Colonia del 1999 per i 41 paesi più poveri e più fortemente indebitati. Pur essendo un impegno limitato, era sottoposto alla condizione che sarebbe stato concesso solo ai paesi disposti a sottomettersi ai devastanti programmi di aggiustamento strutturale imposti dal Fondo monetario internazionale.

Il caso dell’Iraq, di contro, ha riportato il dibatito internazionale al concetto di debito “odioso”, ossia quello contratto da un dittatore o da un governo militare che hanno utilizzato i fondi per scopi militari o di repressione interna, e che caduti tali regimi, dovrebbe essere pagato da popolazioni che non hanno tratto alcun beneficio dai prestiti e che anzi hanno subito tutte le conseguenze di un regime antidemocratico e repressivo. La stragrande maggioranza dei debiti di Saddam ricadono in questa categoria di prestiti poiché egli deteneva il potere nel periodo in cui il popolo iracheno era decimato e impoverito mentre cifre rilevanti venivano dissipate dal regime Baath e spese per l’oppressione esercitata dai militari e dallo Stato. Allo stesso tempo tutti i creditori erano perfettamente a conoscenza dell’uso che veniva fatto delle cifre da essi stessi concesse. Al riguardo si pensi soltanto al fatto che da quando gli Usa hanno intensificato la caccia ai fondi depositati all’estero dal dittatore negli ultimi mesi, è emerso che 1,7 miliardi di dollari erano depositati in 17 filiali di banche con sede negli Stati Uniti stessi e rappresentano profitti illeciti degli ultimi anni derivanti da vendite illegali di petrolio esportato, nonostante l’embargo, verso i paesi limitrofi ed i mercati occidentali.

Come ammesso dal finanziere George Soros, la cancellazione del debito odioso “potrebbe costituire un segnale per il mercato finanziario che è pericoloso entrare in contatto e fare accordi con i regimi oppressivi”, andando così oltre la specificità del caso Iraq. Per rendere questo possibile è necessaria l’applicazione dell’intera dottrina dell’arbitrato internazionale che prevede il ricorso ad un
“tribunale di arbitrato internazionale”. Vi sono molti precedenti internazionali che possono guidare la costituzione di un tale tribunale, che sarebbe composto in parti uguali, da giuristi iracheni, rappresentanti dei creditori e membri indipendenti agenti da arbitri. Ogni creditore che intende ottenere dalla popolazione irachena i pagamenti relativi ad un prestito in essere ottenuto da Saddam, dovrebbe sottoporre una documentazione che dimostri al tribunale che il prestito è stato utile per la popolazione. Il Tribunale discuterebbe e giungerebbe ad una conclusione con sedute pubbliche e dovrebbe autorizzare i pagamenti solo in presenza di crediti “legittimi”. Una procedura di questo tipo ridurrebbe in misura molto rilevante il debito iracheno, stabilirebbe un chiaro precedente anche per altri paesi che si trovano in condizioni analoghe e scoraggerebbe i creditori dal finanziare i Saddam del futuro.

Per quel che concerne le riparazioni per i danni della prima guerra del Golfo, ed eventualmente per l’ultima guerra, andrebbe applicato lo stesso principio, ossia che quindi anche questi debiti “odiosi” dovrebbero essere cancellati in quanto il popolo iracheno non può essere considerato responsabile. Al riguardo si ricordi l’importante precedente della cancellazione dei danni di guerra che la Germania avrebbe dovuto pagare a numerosi paesi dopo la seconda guerra mondiale.

Altri organismi da tempo impegnati nel sostegno della popolazione irachena hanno avanzato delle richieste rivolte ed al governo italiano ed alla comunità internazionale, in particolare “Un Ponte Per…”; oltre a impegnarci a sostenerle in tutte le sedi riteniamo opportuno ampliare e precisare alcune di tali richieste in quanto il caso dell’Iraq ci sembra purtroppo fortemente rappresentativo dei meccanismi economici e finanziari in atto oggi a livello internazionale.


Chiediamo, quindi, in solidarietà con la popolazione dell’Iraq e ribadendo la richiesta di ritiro delle forze di occupazione della coalizione dal territorio iracheno, che:

- i cittadini iracheni non siano considerati titolari di alcuno dei debiti prodotti dal regime di Saddam senza il loro consenso e dai quali non hanno affatto beneficiato, in quanto anch’essi vittime delle guerre contro l’Iran ed il Kuwait, nonché dei ripetuti bombardamenti occidentali;

- tutti gli individui, compagnie e governi creditori non chiedano il pagamento del debito alla popolazione irachena. Qualora non vogliano procedere a questa cancellazione o siano in grado di provare che i loro prestiti abbiano direttamente beneficiato gli iracheni non essendo quindi “odiosi”, allora dovranno presentare un caso con tutti i giustificativi ad un collegio arbitrale indipendente e pubblico, soltanto quando il popolo iracheno avrà eletto il proprio governo rappresentativo;

- l’utilizzazione immediata di tutte le risorse del Fondo per lo Sviluppo dell’Iraq, incluso l’avanzo di cassa del programma “Oil for Food”, in maniera trasparente a vantaggio diretto della popolazione irachena per far fronte all’emergenza umanitaria nel paese;

- il Club di Parigi e tutte le altre istituzioni internazionali rispettino il riconoscimento del debito odioso iracheno e l’eventuale processo arbitrale, procedendo ad un riscadenzamento del pagamento dell’eventuale debito iracheno residuo soltanto alla fine del processo di cancellazione;

- tutti gli aiuti pubblici governativi ed internazionali per la ricostruzione in Iraq avvengano sotto forma di doni e di prestiti a fondo perduto, i prestiti privati siano a tassi facilitati ed inoltre le operazioni assicurate dai governi occidentali non siano controassicurate dal Fondo per lo Sviluppo dell’Iraq o dal futuro governo sovrano dell’Iraq;

- l’Ordine 39 emesso dall’Autorità Provvisoria della Coalizione per la privatizzazione di quasi tutti gli enti pubblici iracheni e la facilitazione degli investimenti esteri, in particolare nel settore dell’energia, sia immediatamente revocato, così come tutte le altre ordinanze che rischiano di intaccare il patrimonio pubblico degli iracheni;

- la popolazione irachena abbia immediatamente la possibilità di eleggere un organo democratico responsabile della vendita del petrolio e della gestione del Fondo per lo Sviluppo dell’Iraq;

- l’istituzione di una Commissione indipendente in ambito ONU nominata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e quindi sottratta al controllo diretto del Consiglio di Sicurezza, che abbia il mandato di valutare le richieste irachene di compensazioni per danni di guerra subiti dal 1980 in poi; un fondo ad hoc per le compensazioni dovrà essere costituito con le risorse finanziarie sottratte illegalmente dal passato regime e da contributi della comunità internazionale, a partire dai paesi della Coalizione che ha occupato l’Iraq in violazione del diritto internazionale.


http://www.sdebitarsi.org/modules.php?op=modload&name=Sections&file=index&req=listarticles&secid=12



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