IL CIELO DEGLI ARABI
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IL CIELO DEGLI ARABI
di Oriano Spazzoli


Astrolabio arabo del XII secolo
 
Cenno storico.


La nascita dell'Islam rappresenta uno dei fenomeni più importanti della storia dell'umanità; l'era islamica viene fatta iniziare nel 622 d.C. quando il Profeta Muhammad (Maometto) fu costretto a fuggire da La Mecca verso Medina, dall'ostilità delle autorità politiche e religiose locali che si vedevano minacciate dall'idea di un unico Dio nel cui culto tribù diverse sparse su di un grande territorio potevano trovare una unica identità religiosa ed etnica.


L'organizzazione politica e militare dei primi sostenitori di Maometto lo condusse nel giro di pochi anni a tornare a La Mecca da trionfatore (nel 630 d.C., due anni prima della sua morte). Soltanto 12 anni più tardi quello che stava divenendo il grande Impero Islamico estese i suoi confini oltre la penisola arabica occupando la Siria, l'Egitto e dalla parte opposta, il territorio della Persia.


Con la conquista del Maghreb, e con esso dell'intero Nord-Africa, nel 709, gli Arabi si assicurarono il controllo del Mediterraneo, ed iniziarono una rapida espansione attraverso lo stretto di Gibilterra in Europa fino alla valle del Rodano in Francia, interrotta dalla sconfitta di Poitiers dai Franchi di Carlo Martello nel 732.


Il loro processo di sviluppo economico e culturale poi sopravvisse alle loro prime sconfitte militari; in un'epoca in cui l'Europa viveva i dolorosi postumi della caduta dell'Impero Romano (innescata da profonde modificazioni sociali che avevano portato alla sostituzione della antica aristocrazia acculturata con una nuova classe emergente fatta di funzionari e soldati stranieri ambiziosi e ignoranti), il mondo arabo, liberatosi del fanatismo che inizialmente fungeva da sostegno alle conquiste militari (si ricordi l'incendio della biblioteca scientifica di Alessandria ordinato nel 641 dal califfo Omar il quale riteneva i libri inutili se conformi alla fede e dannosi se contrari), raccolse con curiosità e grande fervore di studi il patrimonio di tante culture diverse con particolare interesse verso le scienze, divenendo l'unico intermediario tra la cultura antica e quella dell'evo moderno.


Lo sviluppo della cultura araba fu favorito da tre cause: la conquista della Persia, che permise agli Arabi di venire a contatto con un mondo che il regno “illuminato” dei Sassanidi aveva reso culturalmente vivo fornendo ospitalità ai filosofi delle scuole pagane cacciati da Giustiniano, il contatto con l'India e con il suo sapere antico, ma soprattutto la conquista di Alessandria di Egitto, capitale del sapere scientifico ellenistico, massima espressione della scienza greca.


Questi fattori contribuirono ad alimentare un naturale interesse del popolo Arabo per gli aspetti razionali del sapere; i più grandi pensatori arabi (Ibn Sina o Avicenna e Ibn Rashìd ricordato come Averroè) sono “filosofi della ragione”, ovvero cercano di giungere alla verità rivelata dal Corano mediante la ragione, e coltivano le scienze (Medicina, Logica, Matematica, Fisica).


Massiccio e meticoloso fu il lavoro di traduzione e rielaborazione dell'opera di Aristotele, Tolomeo e Galeno (il nome Almagesto con cui fu tramandata l'opera di Tolomeo “Meghiste Syntaxis” deriva dalla sua traduzione araba che modificò il titolo in “Al meghìste” poi latinizzato appunto in Almagesto). Gli Arabi furono poi matematici abili e originali sviluppando tecniche risolutive delle equazioni algebriche nonché progredendo nella geometria e nella trigonometria.


L'Astronomia


La nascita dell'astronomia araba si può collocare cronologicamente in modo abbastanza preciso, quando alcuni saggi indiani recatisi in visita presso la corte di Al Mansour, califfo di Bagdad nel 744 d.C.; essi portarono con loro un trattato di astronomia pratica, che subito fu tradotto in arabo con il titolo di “Tavole astronomiche indiane” (“Zig al Sindhind”, letteralmente canoni indiani) da Ibn Ibrahim al Fazari e da Ya'qub Ibn al Tariq.


Qualche decennio più tardi, agli inizi del IX secolo, fu redatto il primo trattato di Astronomia araba da Ibn Mussa al Khwarizmi (matematico autore, tra l'altro del saggio “Al Gebr al-muquabala”, dove la parola "Gebr", che si riferisce ad un particolare passaggio nel procedimento risolutivo delle equazioni detto “regola del trasporto”, è la matrice della nostra parola Algebra), con il titolo pressoché uguale di “Tavole indiane” forse in segno di gratitudine verso i “primi maestri”.


Si può affermare che il contributo allo sviluppo della scienza astronomica araba si deve al contatto con tre diverse culture: quella indiana già citata, quella persiana, e soprattutto quella greca, la quale, mentre le prime due contribuirono all'apprendimento delle tecniche di osservazione e fornirono elementi utili al calcolo del posizionamento degli astri nella volta del cielo, portò gli arabi a contatto con gli aspetti teorici e cosmologici dell'Astronomia. Fu, come si è già accennato, con la conquista di Alessandria d'Egitto che gli Arabi iniziarono il loro processo di assimilazione della scienza Aristotelica e di revisione, in particolare del modello tolemaico, che essi corressero anche se nessuno di loro ebbe l'idea di modificarne l'ipotesi fondamentale geocentrica.


Ciò che principalmente gli Arabi ereditarono dai Greci fu il metodo di indagine scientifica ellenistico, imperniato sulla costruzione di modelli e teorie in forma matematica, e sulla loro verifica osservativa.


All'applicazione di una moderna metodologia di ricerca si deve la costruzione di grandi osservatori (come quello di Baghdad o quello di Al Raqqah in Siria), destinati a grandi programmi di osservazione della durata di decine di anni (come quelli finalizzati all'osservazione dei pianeti, in particolare Giove, il cui moto nella sfera celeste ha un periodo di 12 anni, mentre quello di Saturno è addirittura di 29 anni).


La ricerca astronomica inoltre viene favorita dall'autorità politico-religiosa delle teocrazie musulmane che attribuiscono all'osservazione del cielo l'importante funzione di favorire l'orientamento e con esso l'individuazione della direzione della Mecca, verso cui indirizzare le preghiere. Occorre chiarire che gli osservatori arabi non avevano nulla a che vedere con quelli attuali dotati di strumentazione ottica, anche se la comparsa in qualche traduzione di testi originali di “tubi d'osservazione” fece pensare che essi disponessero già di canocchiali; in realtà si servirono soltanto di tubi di mira, che restringendo il campo di osservazione isolavano le stelle che si volevano osservare riducendo il disturbo di altre luci.


L'osservazione del cielo era dunque rigorosamente ad occhio nudo anche se si avvaleva dell'aiuto di una opportuna attrezzatura che potesse facilitare la determinazione delle posizioni degli astri osservati rispetto all'orizzonte e rispetto ai riferimenti celesti in rotazione con la volta celeste (i poli celesti, l'equatore o l'eclittica, la linea che noi osservatori sulla terra vediamo descritta dal sole rispetto alle stelle): i principali strumenti di posizionamento utilizzati erano, oltre ai già citati “tubi”, quadranti murali, per misurare le altezze delle stelle sull'orizzonte, l'alidada, piattaforma rotante fornita di goniometro e di indice fisso (lembo) che serve a misurare l'angolo azimutale (rispetto alla direzione del meridiano) di un astro, e l'astrolabio, strumento provvisto di due piastre metalliche circolari, l'una che reca incise sopra le coordinate celesti, l'altra provvista di un ampio foro il cui bordo esterno rappresenta l'orizzonte, in modo che facendo scorrere quest'ultima sull'altra, si possa individuare la parte di cielo visibile in ogni momento dell'anno; l'utilità di tale complesso strumento è quella di permettere la determinazione delle coordinate celesti di un astro una volta che se ne conoscono l'altezza rispetto all'orizzonte (altezza) e la distanza angolare dal meridiano (azimut), ovvero le coordinate locali, ad un dato istante dell'anno.


Tra i saggi del mondo Arabo che si dedicarono alla scienza del cielo citiamo gli artefici dei contributi più significativi:


Al Battani (IX - X secolo d.C.), astronomo siriano fondatore del grande osservatorio-scuola di Al Raqqah, espose le sue conclusioni in un trattato, tradotto in latino alcuni secoli più tardi dall'orientalista C. A. Nallino con il titolo “Opus Astronomicum”, opera divisa in 57 capitoli (che si aprono con l'invocazione ad Allah). Nella sua prima parte sono trattati problemi di geometria sferica e di trigonometria (come la tecnica per determinare gli elementi di un triangolo sferico una volta noti due lati ed un angolo), nonché le tecniche di osservazione e di misurazione posizionale utilizzate. Esse gli consentirono di misurare con precisione l'obliquità dell'eclittica rispetto all'asse polare del cielo, l'epoca degli equinozi con un'approssimazione di 1 o 2 ore e la durata dell'anno solare, nonché di correggere il valore della precessione degli equinozi (dovuta al moto “conico” dell'asse terrestre causato dalla perturbazione gravitazionale della luna e del Sole sulla Terra). Inoltre contesta a Tolomeo la validità del metodo di determinazione del diametro apparente della luna: afferma infatti che la luna può assumere un diametro apparente minore di quello del Sole e ciò spiega perché si verificano le eclissi anulari; afferma poi che lo stesso diametro solare può variare, contrariamente a quanto afferma Tolomeo.


Al Farghani (nato a Baghdad, visse IX sec. e morì nell'861 in Egitto), astrofisico e astronomo revisore del sistema tolemaico, fu al servizio del califfo di Baghdad tra l'813 e l'833. I suoi studi sulla cosmologia tolemaica sono esposti nell'opera nota come “Compendio sulla scienza degli astri” e tradotta in latino con il titolo di “Rudimenta astronomica” da Gherardo da Cremona. Essa contiene considerazioni interpretative sulle eclissi di Sole e di Luna, che nel sistema geocentrico richiedevano spiegazioni meccaniche diverse da quelle attuali (la previsione delle eclissi forniva quindi un ulteriore meccanismo di verifica della validità della cosmologia di Tolomeo).
Inoltre Alfergano (latinizzazione del nome Al Farghani) fissa le dimensioni degli astri e le loro distanze fornendo una descrizione quantitativa dell'universo che lo stesso Dante Alighieri accetterà come modello dell'universo, come si evince dalle citazioni presenti nel “Convivio” e dai riferimenti astronomici nella Divina Commedia.


Thabit Ibn Kurrah (IX secolo) si occupò in maniera attenta e meticolosa dei moti della luna e del Sole, ritenendo che l'osservazione delle eclissi di Sole e di Luna fossero l'unico modo per determinare la posizione della Luna con esattezza e che dalla durata del ciclo delle eclissi fosse possibile determinare la periodicità dei moti del Sole e della Luna con una semplice divisione (in ciò riprese analoghi studi di Tolomeo).


Al Biruni, nato nel 973 a Khwarizm sul lago D'Aral, matematico cui viene attribuito il primo uso delle funzioni trigonometriche (il seno si ritiene derivi dalla latinizzazione “sinus” di una parola araba che significa semicorda), afferma che in linea teorica la terra può ruotare, confutando in ciò Tolomeo; infatti mentre Tolomeo asserisce che se la terra ruotasse i corpi non cadrebbero verticalmente ma verrebbero trascinati dalla rotazione, per il matema-tico-astronomo arabo ogni corpo è trascinato dalla rotazione della terra lungo la verticale di caduta.
Tuttavia Al Biruni non crede alla rotazione “diurna” della terra perché in tal caso la velocità di rotazione sarebbe così alta che gli uccelli avrebbero molta più difficoltà a volare nel verso opposto alla rotazione terrestre.


Al Haitham (965- 1040), noto successivamente attraverso le traduzioni e le citazioni in latino come Alhazén, mette in discussione il modello Tolemaico adducendo argomentazioni, pur se importanti, non sostanziali:



  • i suoi studi di ottica lo condussero a considerare, nel determinare le variazioni di diametro solare, anche degli effetti ottici dovuti all'aumento di spessore dell'atmosfera in prossimità dell'orizzonte;
  • egli rilevò che l'introduzione nella teoria degli epicicli del “punto equante” (il punto eccentrico rispetto al centro del deferente dal quale un osservatore ideale avrebbe visto la rotazione del centro dell'epiciclo avvenire con velocità angolare costante, e che Tolomeo introdusse per giustificare il fatto che le retrogradazioni non avvenivano sempre con le stesse modalità) non era compatibile con la teoria fisica aristotelica che assegnava all'etere, il materiale di cui erano costituiti gli astri e le loro sfere, il moto circolare uniforme come moto naturale. Se un osservatore non coincidente con la terra avesse visto un moto circolare avvenire in modo uniforme la stessa cosa non si sarebbe potuta vedere dalla Terra; pertanto ammettere l'esistenza dell'equante significava ammettere che l'ipotesi aristotelica suddetta fosse violata.

Nasìr ad-Din al Tusi (1201 - 1274) fu uno dei primi matematici che tentò di dimostrare il V postulato della geometria euclidea. In campo cosmologico e fisico osservò come una opportuna combinazione di moti circolari potesse dare origine ad un moto lineare, e ciò era incompatibile con la rigida distinzione aristotelica tra il moto circolare uniforme (moto proprio delle sfere celesti) e il moto rettilineo (proprio del mondo sublunare).


Ibn al Shatir (1305 - 1375), nato a Damasco, complicò il modello tolemaico teorizzando epicicli il cui centro doveva ruotare lungo altri epicicli (“epicicli di epicicli”; ricordiamo che il primo modello detto “degli epicicli e dei deferenti” del matematico ellenistico Apollonio di Perga prevedeva che gli “astri erranti” ruotassero in circoli periferici, gli “epicicli”, i cui centri si muovevano a loro volta lungo circoli aventi come centro la Terra, detti “deferenti”).


 


Gli Arabi e i nomi delle stelle.


Come abbiamo già avuto modo di notare, gli astronomi arabi pur mettendo in discussione il modello tolemaico accettarono “in toto” le ipotesi fisiche aristoteliche, e quindi non misero mai in discussione la collocazione della Terra al centro dell'universo. Pertanto il loro contributo al progresso dell'astronomia resta legato ad un periodo storico particolare ed alle idee che lo caratterizzarono, divenute oggetto di studio da parte degli storici della scienza. Ma se da un lato le loro idee sulla cosmologia sono state del tutto superate, d'altra parte sono entrate ormai nella tradizione e sono sopravvissute fino ad oggi le denominazioni che gli Arabi imposero a molte stelle, nomi derivati da leggende riguardanti esse o semplicemente dalla loro collocazione nella costellazione cui appartengono.


Ne riportiamo alcuni esempi: le stelle del Grande Carro, asterisma che rappresenta la parte più evidente della costellazione dell'Orsa Maggiore: a UMa, il cui nome è Dubhe, contrazione delle parole Thahr al Dubb al Akbar che significa in arabo dorso dell'orsa, b UMa il cui nome è Merak derivato da Al Marakk, lombo dell'orsa, g UMa phekda, derivato da al Fahdh, o la coscia, d UMa al Megrez, l'attacco della coda, e detta Alioth, forse da Alyath, grassa coda, h chiamata Alkaid o Benetnash, nomi derivati da Al Ka'id Banat al Na'ash (governatore delle figlie della bara, in quanto il Grande Carro veniva assimilato dagli Arabi anche ad una bara). Ricordiamo che la stella rimanente del Grande Carro è la famosa doppia formata da Mizar e Alcor (nomi persiani i cui significati sono rispettivamente “cavallo” e “cavaliere”; la risoluzione ad occhio nudo di queste due stelle era una delle prove attitudinali per le aspiranti guardie dell'imperatore).


Tra le stelle più luminose ricordiamo a e b Orionis, ovvero Betelgeuse e Rigel, i cui nomi derivano rispettivamente da Na'beit al gueze ovvero spalla del gigante e Rijil al jauzeh ovvero gamba sinistra del gigante, a Tauri, la famosa Aldebaran, il cui nome deriva da Na'ir al dabaran, cioè colei che segue le Pleiadi (perché il suo sorgere annuncia di lì a poco il sorgere dell'ammasso aperto delle Pleiadi), la stella variabile ad eclisse Algol, il cui nome deriva da al Ghul, spirito mutevole, la quale costituiva un mistero per gli antichi astronomi che non riuscivano a spiegare in maniera coerente perché una stella potesse mutare la sua luminosità, mentre il cielo doveva essere per sua natura immutabile, a Eridani o Achernar, nome derivato da Akher Nahr, letteralmente foce del fiume, le tre stelle del cosiddetto “triangolo estivo”, a Aquilae ovvero Altair, da Al tair, aquila volante, a Cygni conosciuta come Deneb o coda dell'oca, e Vega, a Lyrae, il cui nome deriva da Al nasr al waki ovvero aquila planante, le quattro stelle del quadrato di Pegaso (Algenib, Scheat, Markab e Alpheratz, la più luminosa che fa parte della costellazione di Adromeda ed il cui nome in arabo significa appunto testa della donna in catene).


The M 7 Open Star Cluster in Scorpius


Nella costellazione dell'Ofiuco, la stella più luminosa è Ras alhague, testa dell'incantatore di serpenti, mentre nello Scorpione ricordiamo b Sco, Akrab (la pinza o chela), u Sco, lesath (“aculeo”), e l Sco, Shaulah (forse sinonimo di lesath o probabilmente derivato da mushalah, “innalzato” o “eretto”), nonché l'ammasso aperto indicato come M 7 nel catalogo di Messier, il cui nome arabo è Tali al Shaulah (stella nebulosa che segue l'aculeo dello Scorpione), visibile ad occhio nudo con una certa facilità alle latitudini dei principali osservatori arabi.


http://www.racine.ra.it/planet/testi/arabi.htm



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