SINTI E ROM, MINORANZE ETNICHE LINGUISTICHE - LA MEDIAZIONE CULTURALE: UNA METODOLOGIA
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SINTI E ROM, MINORANZE ETNICHE LINGUISTICHE


LA MEDIAZIONE CULTURALE:
UNA METODOLOGIA

di Carlo Berini
Mantova, Associazione Sucar Drom


Questo convegno è l'occasione per iniziare a dialogare di alcuni aspetti fondanti, molte volte dati per scontati e a volte negati, del nostro studiare e operare nei rapporti tra la cultura maggioritaria (in senso numerico) e le culture rom e sinte, presenti in Italia. A Mantova studiamo e operiamo nei rapporti tra queste culture attraverso le metodologie della mediazione culturale.
Il primo aspetto che voglio sinteticamente chiarire è di come la cultura maggioritaria vede e legge le culture rom e sinte. Se a livello accademico è oramai scontato riferirsi a queste popolazioni come portatori di proprie culture e proprie strutture sociali, ciò non è scontato negli Enti e nelle Istituzioni ed è ancor meno patrimonio del sentire comune. Ed ancora, il termine cultura, molto spesso, viene legato al concetto di folclore. Inoltre, quand'anche si riconosce a queste popolazioni una cultura propria, si tende ad ascriverla in una concettualizzazione evoluzionistica oramai datata. Tutto questo porta all'attuale situazione italiana, dove a Rom e Sinti vengono negati i diritti fondamentali.
Se noi ci avvicinassimo a queste popolazioni osserveremmo esplicitati un insieme di comportamenti originali (ad esempio la lingua) appresi e trasmessi a tutti i membri del proprio gruppo, più un insieme di idee, abitudini, valori, immagini, credenze, più una serie di oggetti, utensili, strumenti, tecniche, vesti, e anche di procedimenti, di gusti architettonici... Tutto questo nelle scienze umane designa il termine cultura.
Le popolazioni rom e sinte hanno proprie e diverse culture e hanno proprie e diverse strutture sociali. Ma a chi mi riferisco quando parlo di Rom e di Sinti? Semplicemente a quegli insiemi di individui che si autodefiniscono Rom o Sinti.
In questo intervento intendo il termine culture come "reti di simboli significanti" [1] che gli individui utilizzano per attribuire significati condivisi alle loro azioni, comportamenti, esperienze, creando concetti propri di identità.
Identità che non può essere intesa come immobile, ma quale "costrutto sociale" [2] soggetto al continuo confronto o al conflitto di interpretazione fra i singoli individui che vi si riconoscono e alle continue modificazioni che impone l'ambiente circostante.
Quindi non esiste e non è mai esistita una cultura autentica e/o una cultura non autentica (il concetto dell'originale appartenente alla cultura maggioritaria o dell'originale sinto), ma esistono un insieme di costrutti sociali che interagiscono e si modificano vicendevolmente, anche attraverso l'interazione con l'ambiente.
Mi preme sottolineare che quando parliamo di rom e sinti non parliamo di un unico popolo con un'unica cultura, al contrario ci troviamo di fronte ad un molteplice e vastissimo arcipelago di culture con strutture sociali diverse.
E' vero che alcuni tratti culturali o sociali posso essere riconosciuti in tutti i gruppi, ma ritengo sia erroneo utilizzare termini unificanti quando si parla di Rom e di Sinti.
Anche perché questo porta a imporre un unico modello a tutti i ventisei gruppi etnici presenti e a creare impostazioni metodologiche / progettuali deleterie.
Ancora più sbagliato utilizzare termini unificanti ed etnocentrici che vengono percepiti da queste popolazioni come dispregiativi, quali: zingari, nomadi, girovaghi….
Sintomatico è l'utilizzo del termine "zingari" (dal greco medievale Athinganoi, che nel medio evo aveva accezione d'intoccabile e designava una setta eretica dell'Asia Minore) coniato, utilizzato e imposto agli stessi Rom e Sinti dalla cultura maggioritaria che ancora oggi li descrive e li osserva in maniera etnocentrica. Ed è paradossale, ma forse nemmeno tanto se si pensa alla storia dei rapporti tra le culture, che alcuni Rom e Sinti rivendichino l'essere "zingari", quando si trovano con appartenenti della cultura maggioritaria.
Il mio intervento cercherà di portare un contributo per leggere l'evoluzione dei rapporti che esistono tra cultura maggioritaria e i Sinti italiani. Preciso che non ho conosciuto, ne ho vissuto e studiato insieme a tutte le comunità di Sinti Italiani, circa 40.000 individui, che si dividono in diversi sottogruppi. I sottogruppi o livelli a cui afferiscono le circa ventisei popolazioni Rom e Sinte Italiane sono generalmente sette e come qualsiasi altra cultura si riconoscono per contrapposizione ad identità considerate diverse.
La schematizzazione presentata è chiaramente riduzionista e non tiene conto delle innumerevoli commistioni che esistono nella realtà tra i diversi livelli. Inoltre, possiamo osservare diverse trasformazioni nelle diverse comunità rom e sinte nel definirsi. E questo non comporta la morte di un gruppo, ma solo una delle molteplici ridefinizioni d'identità. Ad esempio: io, essendo nato e vivendo a Mantova, mi definisco Sinto Lombardo, quando al contrario i miei genitori si definiscono Sinti Estrekarija. Mi riprometto di spiegare meglio questo aspetto in un prossimo intervento.
Mi preme però anche dire che in Italia sono presenti sia Rom italiani sia Rom migranti, questo perché troppo spesso si utilizza la dicotomia: rom = migrante, sinto = cittadino italiano.
Se ho spiegato cosa intendo quando utilizzo il termine cultura, non ho chiarito il perché noi operiamo nei rapporti tra le culture. Ovvero, perché abbiamo bisogno della mediazione culturale?
Prima di rispondere a questa domanda formulerò tre ipotesi che sono a fondamento del paradigma della mediazione culturale costruito a Mantova negli ultimi dieci anni.
La prima condizione affinché possa avvenire la mediazione culturale è il riconoscimento culturale reciproco. Le diverse culture devono riconoscersi e fino a quando la cultura maggioritaria pensa alle culture sinte come a delle sottoculture o peggio come ad un sottoproletariato della propria società non se ne verrà mai a capo e si continuerà e perpetrare una politica di discriminazione e di segregazione razziale.
Questo è un punto essenziale su cui bisogna ripensare i rapporti e lavorare nelle proprie teste. Troppo spesso non si riconosce ai Sinti e ai Rom una cultura vera e propria e troppo spesso anche quando la si considera la si pensa come una sottocultura, una cultura allo sbando o peggio una cultura che solo con la scolarizzazione dei propri membri potrà esprimere il proprio essere cultura. Ancora oggi una cultura orale, come quella della maggioranza delle popolazioni sinte e rom, non è considerata cultura; soprattutto in Italia dove uno storicismo esasperato riconosce una popolazione solo attraverso l'esplicitazione diretta della propria storia.
Sui concetti di cultura orale e cultura scritta bisognerebbe aprire un dibattito anche in relazione al fatto che alcuni antropologi hanno avanzato il dubbio che queste popolazioni avessero una loro scrittura e che processi evolutivi abbiano portato alla creazione di culture orali.
Le tre ipotesi che formulo e che sono a fondamento del paradigma della mediazione culturale a Mantova hanno in comune una parola chiave: instabilità.
La prima ipotesi: ogni cultura viva è "un organismo vivente instabile" [3], è un sistema in evoluzione che si autoregola attraverso i valori morali e in alcuni casi giuridici che guidano l'organizzazione della società espressa e dove l'individuo ridefinisce in continuazione la propria identità.
L'instabilità è il concetto chiave per comprendere se una cultura è "viva", sia per quanto già espresso nella definizione di cultura sia perché è oramai sfatato dalle scienze sociali il vecchio paradigma che sosteneva la gradualità dell'evoluzione (la crescita graduale, Darwin) lenta, continuativa.... e progressiva (verso il "meglio"). Negli studi di Stephen Jay Gould e Niles Eldredge (1972), grazie anche agli studi paleontologici, si enuncia che l'evoluzione è anche: rapida, discontinua... e contingente (non progressiva e fondamentalmente dipendente dalle condizioni esterne). Inoltre, intendo il termine evoluzione nella sua pura accezione di cambiamento.
La seconda ipotesi: dove si incontrano due culture vive non può esistere equilibrio, perché ogni cultura parte dal presupposto di essere la migliore nei confronti dell'altra e viceversa.
L'antropologo Piasere parla di errore secolare dell'umanità, la mediazione culturale deve sempre lavorare verso il riconoscimento pieno della validità di ogni cultura da parte delle culture stesse.
La terza ipotesi: nell'incontro tra due culture l'evoluzione dei rapporti, nella costruzione di patti sociali, è instabile.
La mediazione culturale tende a dare stabilità nell'instabilità, ovvero cerca di non far prevalere una cultura sull'altra e viceversa.
Ripeto che quando parlo di evoluzione faccio esplicitamente riferimento alla teoria degli equilibri punteggiati [4]. E se nego il fondamentalismo darwiniano di Dawkins [5], rimango affascinato dalla teorizzazione dei memi [6], a cui l'autore deve debito a Luigi Luca Cavalli Sforza (1971), che li definisce in successivi interventi "caratteri culturali" [7].




Lo schema proposto, oltre ad insistere sul riconoscimento culturale, legge i processi di acculturazione, quale punto qualificante nell'evoluzione dei rapporti tra le diverse culture.
Poniamoci la domanda, esiste attualmente una comunicazione tra la cultura maggioritaria e la cultura sinta? Si, una comunicazione esiste perché ci troviamo di fronte a due culture vive che sono a contatto da sei secoli. Questo tipo di comunicazione è dato dai processi di acculturazione, ovvero da processi di confronto, mescolanza, dialogo e più spesso di prove di forza tra due culture. L'acculturazione comprende i fenomeni che risultano dal contatto diretto e continuo fra gruppi di individui di diverse culture, con cambiamenti susseguenti nei tipi culturali originali dell'uno o dei due gruppi.
La grande maggioranza degli studi sull'acculturazione procede da una scoperta: i bisogni di comunicazione fra gruppi di individui nell'estrema diversità esistente ancora sulla "terra degli uomini".
Di conseguenza, sullo sfondo della drammatica dei gruppi umani, nella loro minuta cronaca di urti, accettazioni, compromessi, la parte attiva va alle culture, entità animatrici e sovrane.
La mediazione culturale favorisce i processi di acculturazione cercando di eliminare gli elementi di attrito e soprattutto di scontro, ricercando e valorizzando i momenti di condivisione che la cultura maggioritaria e la cultura sinta hanno trovato o stanno contrattando insieme, lasciando i momenti di diversità al loro posto.
Inoltre, la mediazione culturale, come già detto, tende a non far prevalere una cultura sull'altra e viceversa. Considerando che esistono forti squilibri nei rapporti di forza tra la cultura maggioritaria e la cultura sinta. Uno di questi squilibri, forse il più evidente, è il costringere queste popolazioni nei cosiddetti "campi nomadi", concentrandoli e ghettizzandoli a forza.
Lo stesso intervento che io sto facendo oggi, anche se è stato per anni condiviso e costruito insieme a mediatori culturali sinti e rom e alle loro comunità, si fonda su "strumenti" che sono esclusivamente della cultura maggioritaria, in senso numerico.
E questo lo si può meglio capire quando nello schema cerco maldestramente e in modo riduzionistico di definire le due diverse società.
Utilizzo l'opera di Émile Durkheim, De la division du travail social (1893), considerata un classico della letteratura sociologica e antropologica, che offre un modello dicotomico (rapporto di due caratteri che si escludono l'un l'altro) nella ricerca di una causa prima capace di spiegare come mai le società umane si trasformino: da società dove è scarsamente sviluppata la divisione del lavoro a società dove invece questa è altamente sviluppata.
Utilizzo questo modello, in modo improprio, per cercare di comprendere le profonde differenze che vi sono tra la cultura sinta e la cultura maggioritaria eludendo il datato modello evoluzionistico (la crescita graduale, lenta, continuativa.... e progressiva sempre verso il "meglio") che è fondamento, anche se non troppo approfondito, in questa teoria dicotomica.
Nelle società sinte manca o è scarsamente sviluppata la divisione del lavoro, non vi è spazio per le individualità e le differenze, le varie unità sociali stanno insieme perché sono tutte simili e tutte ugualmente sottoposte all'unità di grado superiore di cui fanno parte: l'individuo alla famiglia nucleare, la famiglia nucleare al famiglia allargata, la famiglia allargata al gruppo etnico-linguistico... In queste società la presenza della solidarietà meccanica è evidenziata dal prevalere di norme che puniscono in modo esemplare coloro che violano le leggi del gruppo (sanzioni repressive).
Nella società maggioritaria in senso numerico prevale un'alta divisione del lavoro, ogni individuo e gruppo svolge funzioni diverse, la solidarietà sociale non si fonda più sull'uguaglianza ma sulla differenza, gli individui e i gruppi stanno insieme, formano "società", perché nessuno è più autosufficiente e tutti dipendono dagli altri. In questa società la presenza della solidarietà organica è evidenziata dal prevalere di norme che regolano i contratti (il diritto civile), la violazione di tali norme non produce punizioni esemplari, ma sanzioni che ristabiliscono l'equilibrio turbato dalla violazione (sanzioni restrittive).
Nella definizione di una e dell'altra società sono costretto ad utilizzare oggi questo modello e sono cosciente che potrebbe essere strumentalizzato per dire: le culture sinte sono meno evolute della cultura maggioritaria. A questo punto permettetemi di rovesciare questo modello e di ipotizzare che le società sinte si siano "evolute" da società organiche a società meccaniche. E che quindi è il modello dell'attuale società maggioritaria che è in "ritardo" sul modello delle attuali società sinte.
A questo punto è opportuno raccontarvi i dubbi e le domande che spesso mi sono posto.
"Per conoscere il sistema o i sistemi propri di una cultura sinta devi essere nato in quella cultura e devi vivere in quella cultura" (Yuri Del Bar, Mediatore Culturale Sinto) per poi concettualizzare il sistema o i sistemi che regolano la tua società.
Ma in quale forma concettualizzare questi sistemi? Usando i concetti, le definizioni e le modalità proprie di una delle due culture, in questo caso quella maggioritaria? Creare nuove concettualizzazioni, nuovi paradigmi? Come poi potranno interagire queste nuove concettualizzazioni con quelle proprie della cultura maggioritaria e viceversa?
Questo è un limite evidente di tutta la concettualizzazione presentata, difficilmente superabile in tempi brevi; possiamo nominare questa parte dello schema, un'area buia, dove si è tentato impropriamente di aprire uno spiraglio. Sarà fondamentale un impegno profondo di avvicinamento da parte di tutti. Si può comunque azzardare che la cultura sinta è una società differenziata (adulto/bambino, maschio/femmina) con meno diseguaglianze al suo interno di quelle presenti nella cultura maggioritaria (sistema capitalistico e dello stato moderno) che è fortemente stratificata. Nello schema sono poi presenti alcune delle pratiche che le due società utilizzano per imporre e/o difendere il proprio sistema sociale, la propria cultura. Difendere la propria identità. Tengo ad analizzare sinteticamente una delle pratiche utilizzate dalla cultura maggioritaria, la scuola. Analizzo questa pratica perché è la pratica più diffusa in Italia verso i Sinti e i Rom.
La scuola è oggi una pratica di assimilazione dichiarata più o meno velatamente con diversi fini. Nelle migliori intenzioni suona così: studia così potrai rivendicare i tuoi diritti; nelle peggiori intenzioni suona: mandiamoli a scuola così imparano a fare una vita decorosa ad entrare nella società…
Comunque la si veda è una pratica che vuole assimilare le diversità e per altro è uno dei motivi per cui la scuola esiste. Lo strumento sociale scuola nasce, essenzialmente, nella società maggioritaria con due chiari obiettivi. Dare omogeneità culturale ad una nazione e superare un problema proprio della cultura maggioritaria: passare da una società dove gli status sono ascritti ad una società dove gli status sono acquisiti. Ovvero, dare mobilità sociale ad una società stratificata. E qui si fonda il cosiddetto "sogno americano", scusate la semplificazione. Io, individuo, grazie alle mie capacità e al sostegno che la società offre a queste capacità posso occupare anche il posto più alto nella stratificazione sociale. Questo come capirete è un problema (sottolineo problema perché se analizzassimo i dati di mobilità della società italiana vedremmo che la scuola in questo suo obiettivo sta fallendo) della società maggioritaria e se lo ascrivo alle società sinte, che hanno una diversa struttura sociale e diversi modi per entrare nella società, compio un opera di assimilazione. Le società sinte devono morire e i sinti devono, grazie alla scuola, ridefinire la propria identità di singoli individui all'interno della società maggioritaria, in senso numerico. Certo non dobbiamo demonizzare la scuola ma è fondamentale un profondo ripensamento, insieme alle diverse comunità sinte e rom, di questo strumento sociale.
Naturalmente i Sinti si sanno difendere dalla scuola e la utilizzano a necessità. Ma è anche vero che gli appartenenti alla cultura maggioritaria che operano in questo ambito si sentono frustrati ed è facilissimo passare a pratiche violente di discriminazione. Esempio: è dieci anni che lavoriamo "per loro" ma niente cambia, è meglio cacciarli via. La mediazione culturale a Mantova parte dal concetto: lavoriamo insieme, costruiamo insieme, decidiamo insieme…
E non essendoci i bravi e i cattivi in questa nostra concettualizzazione, nello schema sono evidenziate alcune delle pratiche utilizzate dalle società sinte. Una su tutte, il furto. Una chiara pratica di non riconoscimento, io non riconosco te come parte della mia società e per questo non riconosco la tua proprietà.
Se è vero che non esistono buoni e cattivi perché ogni sistema tende a difendere il proprio sistema sociale, e Piasere [8] parla in diversi suoi interventi di una società maggioritaria che si fonda anche sul non essere rom o sinto, è pur vero che esiste un forte squilibrio numerico tra le due società e che in Italia non è ancora stata fatta un'elaborazione del lutto sul porrajmos [9], la devastante persecuzione razziale subita dalle popolazioni sinte e rom durante il periodo nazi-fascista.
Nello schema, seguendo le frecce, troviamo il privato sociale (Associazione Sucar Drom, Istituto di Cultura Sinta ed Ente Morale Opera Nomadi), gli Enti Locali e le Istituzioni che hanno la funzione d'intervenire nei rapporti tra le culture proprio attraverso le metodologie della mediazione culturale. La mediazione culturale è un'azione che si svolge fra due gruppi di persone, di culture diverse, tramite terze persone - i mediatori culturali - per far sì che queste due persone o gruppi comunichino fra loro o si sanino comunicazioni già sbagliate, già insane, che hanno portato già a malintesi, a rifiuti, a diffidenze, a chiusure.
La mediazione culturale favorisce i processi di acculturazione, cercando di eliminare gli elementi di attrito e soprattutto di scontro, ricercando e valorizzando i momenti di condivisione che la cultura maggioritaria e la cultura rom/sinta hanno trovato o stanno contrattando insieme, lasciando i momenti di diversità al loro posto.
Gli obiettivi della mediazione culturale sono il riconoscimento dei pieni diritti di cittadinanza delle minoranze etniche linguistiche rom e sinte, l'agevolazione dei contatti e la costruzione di relazioni tra gli individui e le culture per la realizzazione di una cultura della conoscenza, del dialogo, del rispetto e della comprensione fondata sulla acquisizione responsabile di diritti reciproci.
La mediazione culturale è attuata da due mediatori: uno appartenente alla cultura Rom/Sinta e uno appartenente alla cultura maggioritaria. Sanno percorrere entrambe le culture, senza perdere la propria identità, sostenendosi ed elaborando insieme strategie per la risoluzione dei conflitti. Svolgono un duplice processo, di avanti e indietro, di dare e avere, di diffusione presso l'altra cultura di quello che fa l'una, accoglimento presso la prima di quella che fa l'altra e viceversa.
Una delle frasi fatte che si sentono ripetere è che il mediatore "sta in mezzo", fra le due culture, alcuni suggeriscono l'idea di un mediatore equilibrista, che cammina su un filo, senza rete, con due corde che lo tirano in direzioni opposte: prima o poi verrà strappato da una parte o dall'altra, o cadrà rovinosamente. Di fatto, parlando durante le tante riunioni e nei momenti informali emergeva un po' quest'idea, cioè il fatto di sentirsi a metà fra una situazione e l'altra, vivendo quasi uno stato di schizofrenia culturale.
Il primo progetto di mediazione culturale, nato a Mantova all'inizio degli anni novanta, prevedeva che i mediatori culturali fossero esclusivamente Sinti. Il problema che si è posto è stato quello di sentire la propria identità di Sinti messa in discussione e di conseguenza non essere più riconosciuti dai membri della propria società. Io mediatore culturale sinto vengo visto dalla mia comunità come un'appartenente alla cultura maggioritaria, con un dispregiativo: un gagio.
Per questa ragione da metà degli anni novanta le nostre progettualità prevedono due mediatori culturali: un/una rom/sinto e un/una appartenente alla cultura maggioritaria che insieme percorrono le culture, senza appunto perdere la propria identità sia di individui sia all'interno delle proprie società.
In questi dodici anni abbiamo visto che è impossibile costruire progetti di mediazione culturale senza la partecipazione diretta e a tutti i livelli dei Sinti; e che è molto difficile, in questo momento storico, costruire progetti di mediazione culturale senza appartenenti alla cultura maggioritaria.
Le nostre metodologie di mediazione culturale prevedono due mediatori culturali pensati, formati e istituzionalizzati su tre specifiche funzioni: pratica, comunicativa/formativa e psicosociale.
Nella funzione pratica i mediatori culturali svolgono azioni di orientamento di tipo organizzativo/pratico. Devono aiutare gli utenti a capire che cosa fare, dove farlo, come farlo. Per questo in molti casi si parla più che di mediatori culturali di facilitatori culturali.
I mediatori culturali devono possedere tutte le informazioni per poter aiutare l'utente. Dal dove andare al come fare, devono sapere che va compilato un modulo e devono aiutare l'utente a compilarlo.
Ci sono dunque tutta una serie di funzioni pratiche che i mediatori culturali hanno e che sono fondamentali. E che sono, se vogliamo, anche le più urgenti, anche se non le più importanti, perché sono quelle che costituiscono il primo impatto di un utente con un servizio, il primo approccio di una persona che vuole regolarizzare una attività lavorativa autonoma, che va in ospedale, in una scuola, in un Comune, ecc. La prima cosa è sapere dove andare, con chi parlare, che cosa fare.
La funzione comunicativa / formativa è quando i mediatori culturali fanno nascere la relazione, perché di fatto, in molti casi, addirittura questa relazione non nasce. In alcuni casi, c'è una tale difficoltà a comunicare che non nasce la relazione diretta fra le parti.
I mediatori sono quelli che aiutano a riempire i vuoti. Ovvero, quando non c'è comprensione devono capire dove si è fermata la comunicazione, qual è il vuoto e riempirlo.
Si tratta dunque di colmare i vuoti della comunicazione. E assicurarsi che poi tutti abbiano capito. I mediatori devono incoraggiare entrambe le parti a fare domande, perché se io non ho capito, l'unica modo per capire meglio è chiedere. E questo in tutt'e due le direzioni.
I mediatori potranno essere presenti per far sì che queste persone si parlino e si capiscano, creando un clima di fiducia, ma non possono sostituirsi al ruolo dell'uno o dell'altro. Questa è una delle ambiguità che crea problemi, ed è una delle ragioni che, in genere, fanno fallire le esperienze di mediazione.
I mediatori culturali hanno il compito di far emergere le ricchezze di cui sono portatori gli individui e di conseguenza le diverse culture.
I mediatori culturali nella funzione psicosociale aiutano le diverse comunità a capire quali aspetti possono condividere senza aver paura di tradire parti delle proprie culture; questa è la funzione ultima, più delicata e, se vogliamo, anche più ideale, perché la più difficile e non è detto che venga sempre svolta.
Perché è quella che aiuta entrambi i gruppi a superare la posizione di "noi e loro": "loro sono cattivi, noi siamo buoni", cioè il sistema di gruppi contrapposti. Questa funzione è realmente la più delicata perché interventi invasivi e/o scorretti rischiano di compromettere l'identità degli individui e di conseguenza di far fallire il progetto di mediazione culturale. Un individuo non può permettersi di perdere il senso della propria identità e in un contesto dove sia gli appartenenti alla cultura maggioritaria sia i sinti fondano la propria identità in contrapposizione gli uni agli altri attuare questa funzione è molto delicato e difficile.
La prima condizione perché possa avvenire la mediazione culturale è che le culture vengano considerate di pari dignità, alla pari, perché altrimenti non si parla di mediazione ma di omologazione, di facilitazione all'omologazione.
La seconda condizione è che entrambe le culture riconoscano i mediatori culturali, perché se non riconosciuti da una delle culture si cade nella delegittimazione o peggio nell'autoreferenzialità.
La terza condizione è che non si imponga per i mediatori culturali sinti un percorso di formazione universitario, che produrrebbe in questo momento la scomparsa di questa figura. E se i Sinti non sono protagonisti nella mediazione culturale, nessuno può parlare di mediazione culturale.
In conclusione, ritornando allo schema elenco, le azioni dei mediatori culturali. L'azione multiculturale è realizzata quando i mediatori culturali favoriscono i processi di acculturazione ovvero di condivisione tra le due culture mettendo in contatto gettando ponti su queste società molto diverse.
La mediazione culturale che vede i mediatori presenti in tutti i momenti di incontro/scontro per agevolare la comunicazione tra le due culture e sanare quelle comunicazioni già sbagliate. L'azione interculturale dove i mediatori culturali non intervengono nei momenti ritenuti non condivisibili dalle due culture in un dato momento, valorizzando i momenti di condivisione ed evidenziando delle diverse identità.


Un ringraziamento ai tre moschettieri e un affettuoso ricordo all'indimenticabile Stephen Jay Gould.
Ringrazio la professoressa De Nigris sul cui testo sulla mediazione culturale abbiamo iniziato le nostre riflessioni, la dottoressa Mirella Karpati per i suoi testi sulle politiche attuate dalla comunità maggioritaria nei confronti delle comunità rom, sinte e camminanti e l'antropologo Leonardo Piasere per il suo prezioso contributo nel corso di formazione Itinerari di Formazione Interculturale - Mantova 1995.
Infine, ringrazio il professor Moscati il dottor Ghisleni di Sociologia dell'Educazione e un'assistente del professor Ceruti di Epistemologia Genetica dell'Università di Milano - Bicocca.
Alcune parti di questo intervento sono tratte dal testo "Corso di Sociologia", di Bagnasco - Barbagli - Cavalli, edito da il Mulino.




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[1] Clifford Geertz, The Interpretation of Cultures, Selected Essays, New York, Basic Books, 1973
[2] Clifford Geertz, opera citata
[3] James Lovelock, Gaia: a new look at life on earth, Oxford University Press, Oxford 1979
[4] Stephen Jay Gould, The structure of evolutionary theory, The President and Fellows of Harvard College, 2002
[5] Richard Dawkins, The selfish gene, Oxford University Press, Oxford 1976
[6] Richard Dawkins, The selfish gene, 1989
[7] Luigi Luca Cavalli Sforza and Marc W. Feldman, Cultural transmission and evolution, a quantitative approach, Princeton University Press, Princeton 1981
[8] Leonardo Piasere, Un mondo di mondi, l'ancora, 1999
[9] Virginia Donati, opera citata


http://www.provincia.mantova.it/sociale/osservatorio/sintierom/metodologia.htm



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