Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano
Maria Campagnolo
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Leggere un racconto significa condividere e partecipare emotivamente alle vicissitudini dei  personaggi, qualche volta inventati dallo scrittore, qualche volta «rubati» alla quotidianità dei  vissuti di persone anonime, sconosciute, ma intense e didascaliche.




 


Éscarpit, con un semplice aforisma, dice del libro "Quando lo si tiene in mano non è che carta, il libro è altrove". L’altrove non è una costruzione mentale o una speculazione filosofica, l’altrove siamo noi e le persone che incontriamo, l’altrove è la storia che ci insegna a riflettere, l’altrove è la parola che dialoga, che indaga, che scruta, che mette in discussione la nostra identità e le nostre sicurezze.


Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano è una storia moderna che affronta, con estrema delicatezza, il rapporto tra culture e religioni rappresentate da un vecchio arabo e da un bambino ebreo.


Il libro di Eric-Emmanuel Schmitt si legge volentieri per lo stile semplice e pulito, quasi infantile.


Monsieur Ibrahim è un vecchio arabo, proprietario di una drogheria in un quartiere della Parigi fine anni cinquanta, inizio sessanta;



  «… a detta di tutti, era un saggio. Sicuramente perché da almeno quarant’anni era “l’arabo” di una via ebrea. Sicuramente perché parlava poco e sorrideva tanto. Sicuramente perché sembrava sfuggire all’agitazione dei comuni mortali …».


 Il bambino ebreo di undici anni è Mosé, ribattezzato Momo da Monsieur Ibrahim perché «è meno impegnativo».



 All’inizio, tra i due, le conversazioni sono  estremamente essenziali, brevi, scandite dalle visite quotidiane di Momo nel negozio di alimentari del bottegaio arabo che significa: aperto dalle otto del mattino a mezzanotte, anche la domenica.


L’irruzione improvvisa nel quartiere, tra rue Bleue e rue de Paradis, di Brigitte Bardot trasforma il loro rapporto in una profonda amicizia. La domanda di Momo al negoziante sul perché del sovraprezzo praticato alla diva per l’acquisto di una bottiglia di acqua minerale e la risposta del vecchio: «… in qualche modo bisogna pure che rientri di tutte le scatolette che mi porti via», fa capire al giovane ebreo che davvero Ibrahim non «è solo un arabo, dopo tutto». In questo modo la diffidenza lascia spazio all’incontro di due mondi: quello di un bambino e quello di un vecchio, quello di un ebreo e quello di un musulmano.  


Ibrahim diventa una figura di riferimento per Momo, un padre amorevole ed affettuoso:


«Grazie all’intervento di Monsieur Ibrahim – pensa Momo – nel mondo degli adulti si era aperta una crepa. Non era più lo stesso muro uniforme contro cui andavo sempre a sbattere: attraverso una fessura, una mano si tendeva verso di me».


Il padre naturale di Momo è, invece, «un avvocato, senza affari e senza moglie» che gli procura solo «una sensazione di freddo». Momo non sa ancora che il padre è così perché la sua vita è stata un susseguirsi di abbandoni:  dai genitori morti in un campo di concentramento, alla moglie fuggita con il figlio maggiore Popol, il fratello perfetto di Momo. 


 «Quando facevo qualcosa che non andava, mio padre non perdeva occasione per sbattermi in faccia il ricordo del mio fratello maggiore … l’altro nome della mia nullità».


Ma la sfiducia e il disprezzo nei confronti della vita di Momo vengono cancellati dalle perle di  saggezza racchiuse nel corano di Monsieur Ibrahim: il sorriso «… è il sorridere che rende felici», il dialogo «Se si vuole imparare qualcosa, non si legge un libro. Si parla con qualcuno», la bellezza «La bellezza è dappertutto,  Momo. Dovunque tu giri lo sguardo», l’amore «Quello che tu dai, Momo, è tuo per tutta la vita; e quello che non dai è perduto per sempre !» ma anche la tolleranza. E’ durante un viaggio in Normandia per vedere il  mare che Momo scopre che anche Monsieur Ibrahim è circonciso: «Stando con Monsieur Ibrahim mi rendevo conto che gli ebrei, i musulmani e persino i cristiani avevano avuto un sacco di grandi uomini in comune prima di massacrarsi a vicenda».


Dopo il suicidio dell’avvocato ebreo, Momo scopre che Popol non esiste ma che è frutto di un’invenzione del padre per giustificare la propria inettitudine, l’incapacità di essere un buon genitore.


Monsieur Ibrahim adotta Momo che finalmente ha un vero padre; quando Momo si rivolge a Monsieur Ibrahim dicendogli: « Va bene papà» pensa tra sé e sé «E’ buffo come parole uguali possano suscitare sentimenti diversi».


Il vecchio arabo e il giovane ebreo adesso sono pronti per fare un viaggio insieme alla scoperta della  Mezzaluna d’Oro, per vedere il mare, «l’unico di mare», secondo Monsieur Ibrahim.


Con un’automobile rossa attraversano tutta l’Europa in direzione sud, senza prendere l’autostrada perché «sono buone per gli imbecilli che vogliono andare il più velocemente possibile da un punto all’altro».


Monsieur Ibrahim insegna a Momo a distinguere un paese ricco da un paese povero: «Quando vuoi sapere se il posto dove ti trovi é ricco  o povero, guarda la spazzatura.


            Se non vedi l'immondizia né pattumiere, vuol dire che é  molto ricco.


            Se vedi pattumiere ma non immondizia, é ricco.


            Se l'immondizia é accanto alle pattumiere, non é né ricco né povero: é turistico.


            Se vedi l'immondizia e non le pattumiere, é povero. E se c'é la gente  che abita in mezzo ai rifiuti, vuol dire che é molto, molto povero».


Padre e figlio giocano, anche, ad indovinare i luoghi di culto dagli odori:


«Mi conduceva nei luoghi di culto con una benda sugli occhi perché indovinassi la religione dall'odore


Qua c'é odore di ceri, é cattolico.


 ... Qui c'é odore d'incenso, é ortodosso.


... E qua c'é puzza di piedi, dev'essere musulmano...


Non ti piace un posto che odora di corpi umani ?


A te non puzzano mai, i piedi ? Ti disgusta un luogo di preghiera che odora di uomo, che é fatto per gli uomini, con gli uomini dentro ?».


Il viaggio nella Mezzaluna d’oro diventa lo strumento per l’iniziazione alla maturità di Momo e l’addio alla vita di Monsieur Ibrahim.


Orfano per la seconda volta, Momo ritorna a Parigi, eredita la drogheria del padre adottivo, si riconcilia con la madre e diventa per tutti “l’arabo della strada”.


Nella bella favola di Ibrahim e di Momo possiamo leggere:



  • la storia del rapporto tra un vecchio e un bambino;
  • l’assenza di comunicazione tra un genitore ed un figlio;
  • il disagio interiore di un bambino, senza amore, la cui identità viene annullata dall’opposta e speculare perfezione del fratello maggiore;
  • il dialogo interreligioso interpretato da due personaggi semplici ed umili.

E proprio su quest’ultimo aspetto si sviluppa l’analisi della postfazione di Goffredo Fofi, alla fine del libro.


Il dialogo tra religioni diverse è oggi attuale e soprattutto indispensabile; quando si parla di supremazia di una cultura rispetto ad un’altra, quando si parla delle cause che producono l’intolleranza ed il razzismo, parliamo inevitabilmente dell’identità del singolo, di un gruppo; in un’epoca in cui, invece, la globalizzazione destruttura  il concetto stesso di appartenenza a favore di paradigmi trasversali e interculturali, Ibrahim e Momo rappresentano l’invito alla comprensione reciproca e al rispetto, ma anche la ricerca delle radici comuni. E allora ci torna alla mente la «favola delle tre anella» del Boccaccio, nella quale si proclama l’uguaglianza delle «tre leggi» (l’ebraismo, l’Islam e il cristianesimo), ed allora scopriamo che identità altrui ed eredità comune sono i «fiori» del testamento spirituale di Monsieur Ibrahim.


 


 

Campagnolo Maria


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