Un ''New Deal'' per la scuola: apartheid scolastico in Francia
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Un «New Deal» per la scuola



Georges Felouzis e Joëlle Perroton
Fiera di esaltare valori universalisti e di progresso sociale, volentieri pronta a dare lezioni, la Francia offre il volto di un paese diviso, sia sul piano sociale sia su quello economico ed etnico. Eppure questa situazione non ha nulla di sorprendente: essa è frutto di una ghettizzazione che va avanti da una ventina di anni. Il gesto di giovani ribelli che attaccano le scuole rivela il senso di disperazione e di abbandono presente presso molti abitanti di queste banlieues relegate, e in particolare presso i più giovani. Il fatto è che una specie di «apartheid scolastico» attraversa la scuola. In un distretto scolastico come quello di Bordeaux (sebbene regione di scarsa immigrazione), solo nel 10% delle scuole medie si concentra il 40% di ragazzi provenienti dal Maghreb, dall'Africa nera o dalla Turchia. Sono dati rilevanti, tanto più che questi istituti scolastici ospitano anche una fortissima percentuale di figli di famiglie disagiate, o di ragazzi che hanno accumulato ritardi nell'apprendimento. Ne consegue un cumulo di disuguaglianze che nuocciono alla scuola. Negli istituti ghetto si impara meno, a prescindere dalla buona volontà degli insegnanti. Il mancato amalgama sociale ed etnico si ripercuote negativamente sull'apprendimento e genera fallimenti a scuola. Quando si conosce l'importanza dei diplomi per ottenere un posto di lavoro, c'è da ritenere che questa segregazione produce e rafforza l'esclusione economica e sociale dei più disagiati. Sostenere gli orientamenti precoci, fin dall'età di 14 anni, verso l'apprendistato non farà che rafforzare il sentimento di questi ragazzi: sono esclusi dalla scuola così come sono esclusi dal lavoro, dal tempo libero, dalla città, in breve, dalla società. Ed ecco che il cerchio si chiude.
L'apartheid a scuola è frutto anzitutto di una città sempre più scissa socialmente ed etnicamente. Il desiderio di vivere nella propria cerchia, in particolare nelle classi alte e medie, marginalizza interi quartieri lasciati ai più disagiati e incide sul mondo della scuola.
Le famiglie stesse partecipano ampiamente a questa segregazione quando «evitano» certe scuole, vissute come non buone perché ospitano una popolazione disagiata, ma anche, diciamolo francamente, «non bianca».
Nell'intero distretto, il 10% dei ragazzi beneficia ogni anno di una deroga. È poco. Ma, nelle scuole medie-ghetto, la «fuga» delle famiglie delle classi medie è molto più massiccia e ha per conseguenza diretta di raddoppiare la percentuale di studenti usciti dall'immigrazione.
Diversi istituti oggetto della nostra ricerca avrebbero dovuto accogliere circa il 25% di ragazzi immigrati o usciti dall'immigrazione, se si considera la zona nel quale sono reclutati gli allievi. In realtà ne accolgono più del 50% perché i ragazzi «bianchi» sono iscritti in altri istituti pubblici o privati. In queste condizioni, le famiglie che non possono scegliere il luogo di residenza o per cui la suddivisione scolastica si rivela sfavorevole, non hanno altra possibilità che quella di evitare la scuola di zona.
La scelta della scuola avviene essenzialmente sulla base della sua ubicazione urbana e della composizione etnica di chi la frequenta.
Sono strategie che non lasciano spazio al dubbio, come attestano i genitori che abbiamo incontrato: «Al collegio Barbusse vanno i ragazzi della cité du Viaduc, e questo vuol dire che ci sono molti Arabi. La scuola non ha buona reputazione, se sia giustificato o meno io non lo so, visto che non vi ho messo mia figlia». La posta in gioco è di tale importanza che i genitori sono molto sensibili all'immagine degli istituti e in particolar modo al tipo di «frequentazioni»: «Come può una ragazzina sentirsi sicura, in una scuola che accoglie tutta questa gentaglia? - si chiede un genitore - Lei vivrà questa situazione in modo diverso, perché ha solo quattordici anni, ma io sono preoccupato. Non posso impedirle di frequentare certi ragazzi, che magari sono anche bravi ragazzi, ma sono uscita da famiglie sballate».
La deroga è vissuta come un mezzo che permette di fare in modo che «il ragazzo non percepisca le violenze del quartiere» e corrisponde, in particolare per gli ambienti popolari, a un desiderio di ascesa sociale di cui la scuola rappresenta il motore. Il razzismo popolare si nutre di un sentimento di caduta e di esclusione sociale, che la scuola può rafforzare. Gli istituti frequentati da molti ragazzi usciti dall'immigrazione sono a volte vissuti come luogo di un vero e proprio declassamento: alle stigmate dovute al fatto di vivere in una banlieue-ghetto, si aggiungono quelle di non essere riusciti a evitare un istituto sentito come «scuola per immigrati».
In certe famiglie cresce la sensazione di una «residenza coatta».
L'impossibilità di scegliere la scuola segna la fine di una speranza di mobilità potenziale: «Per me è inammissibile che non ci lascino scegliere dove vogliamo iscrivere i nostri figli. Quando hanno respinto la nostra richiesta di deroga per mio figlio, mi sono molto arrabbiato, davvero a questo livello si tratta di segregazione». In queste condizioni il razzismo diventa l'espressione privilegiata della frustrazione e di un sentimento di impotenza nel governare il proprio destino. I ragazzi usciti dall'immigrazione sono accusati di invadere gli istituti scolastici così come invadono la Francia.
Lo dicono i genitori: «Qui ci sono soltanto loro» oppure «io, la prossima volta, voto per il Fronte nazionale, ci sono troppi stranieri in Francia, è una catastrofe: se li contassimo, gli stranieri qui sono più numerosi di noi, allora noi, piccoli francesi, non contiamo niente!». Parallelamente crescono un tipo di logica comunitaria e un razzismo antifrancese. Le ricerche del sociologo americano John Ogbu (1) sulle «minoranze involontarie» nere negli Stati uniti consentono, per analogia, di capire il fenomeno. I figli di immigrati, in particolare i maghrebini, hanno - avevano? - una forte volontà di ascesa sociale.
Ma cominciano a pensare, come i Neri americani, che le barriere razziali, troppo forti nel mondo del lavoro, non consentiranno loro di lasciare il loro quartiere e di accedere a posti dignitosi. Dopo essersi appropriati i valori culturali e di uguaglianza della società francese, non sopportano più le disuguaglianze scolastiche, che sanciscono il loro futuro fallimento sociale.
La loro fiducia nelle istituzioni si sfalda, in particolare nel campo della scuola in cui essi avevano messo le più grandi attese, come attesta una insegnante: «Un mio allievo maghrebino mi ha detto che ci sono due categorie di persone: quelle che si fanno fregare e quelle che fregano le altre. Ha deciso di far parte della seconda categoria, contrariamente ai genitori, che sono nella prima. Per lui esiste lo schema sfruttatori-sfruttati, non ci sono categorie intermedie.
Il disfattismo si coniuga spesso con il problema della discriminazione».
Assistiamo, infatti, a una vera e propria inversione dei valori, alla formazione di una specie di contro-cultura scolastica etnicizzata: per reazione, i ragazzi di famiglie immigrate assumono la propria appartenenza etnica e, al limite, la cultura della scuola diventa simbolo di dominazione, come mostra questo aneddoto raccontato da una insegnante: «Io ho un problema con Mustapha. L'altro giorno quando è arrivato [...] era molto eccitato, agitato, con l'occhio lucido, [...] e appena aprivo bocca trovava qualcosa da ridire. Approfittava del momento in cui gli davo le spalle per scrivere alla lavagna e faceva commenti dello stile:"l'inglese non ci interessa, non ha senso, perché non studiamo l'arabo?" - E io, da brava madre di famiglia: "Proprio come per studiare l'inglese, studiare l'arabo richiede sforzi e sforzi maggiori perché è ancora più difficile" - "Cosa dice quella è pazza!" - Io cerco di gettare acqua sul fuoco, continuo a scrivere e allora lui batte un gran colpo sul tavolo e dice: "In ogni caso i musulmani sono i più forti"».
Questa appartenenza reinventata poggia sul fatto che la Francia non può né vuole offrire l'integrazione economica e sociale che andrebbe di pari passo con l'integrazione culturale. Ma attenzione: spesso le «derive comunitarie» citate come spaventapasseri sono il risultato finale della esclusione e del fallimento. La posta in gioco è quindi molto alta. Deve preoccuparci il fatto che la scuola sia così screditata e abbia smesso di rappresentare uno spazio di vita in comune. Il peso del fattore urbano si rivela prevalente e richiede politiche precise in materia di di-segregazione e di meticciato. Tuttavia il fenomeno scuola va considerato in quanto tale. In grado di suscitare speranze o invece disperazione, esso possiede una forte carica simbolica.
L'ascensore sociale deve poter funzionare e solo la fiducia ritrovata nelle virtù «meritocratiche» consentirà di creare ancora legami sociali e integrazione. In questa ottica una diversificazione prematura dei percorsi scolastici condurrebbe a una segregazione maggiore, senza tuttavia garantire a questi ragazzi un inserimento più soddisfacente nel mondo del lavoro. Al contrario la scuola non è mai riuscita a creare la tanto denigrata scuola media unica che, in realtà ha di unico soltanto il nome, vista la grande diversificazione delle condizioni della scolarizzazione. Nello stesso tempo, è vano pensare al meticciato sociale ed etnico come ad una panacea. Le fratture che attraversano la società sono tali, in particolare nel campo dell'abitazione, che è illusorio pensare che si risolvano con un colpo di bacchetta magica.
Come spiega bene il sociologo della città Jacques Donzelot, le forze centrifughe sono troppo intense. Le classi medie e agiate non vogliono venire a vivere nei quartieri segnati a dito, a meno che i poveri e gli stranieri non ne siano espulsi!.. o, al limite, che le scuole degli uni e degli altri siano distinte e chiaramente separate. Le popolazioni disagiate non hanno quindi nessuna possibilità di sfuggire alla segregazione nella quale sono tenute. Il «mercato» della scuola genera più segregazione che integrazione.
Un New Deal a scuola richiede una politica decisa. Ormai la scuola non può risolvere i problemi sociali sbandierando una «indifferenza davanti alle differenze» che, ricordava Pierre Bourdieu, finisce troppo spesso per sancire effettive disuguaglianze tra gruppi e individui.
Concretamente, occorre agire sugli individui e sugli istituti. Dal punto di vista degli individui, non basta attribuire borse. Ai ragazzi provenienti dalle famiglie più disagiate, occorre consentire, con il contributo del volontariato, di «lasciare il ghetto» e di studiare in un altro istituto di loro scelta. Senza risolvere la questione della segregazione in quanto tale, questo tipo di provvedimento potrebbe in un numero non trascurabile di giovani fare nascere la speranza di uscire dalla propria condizione. Dal punto di vista degli istituti, alcuni esperimenti sono stati condotti spesso positivamente, come ad esempio nel collegio Clisthène di Bordeaux. Si tratta, tra altre misure, di ripensare il ruolo di ogni attore, sempre con lo stesso obiettivo: dare a tutti gli studenti la cultura comune e il livello scolastico indispensabili a una integrazione sociale ed economica. La scuola gode di una autonomia sufficiente che consente al direttore di reclutare insegnanti nell'ambito del volontariato. Egli può così costituire un gruppo, modificare gli orari dei docenti che hanno meno ore di insegnamento contro più presenze nella scuola, cosa che modifica radicalmente le relazioni tra studenti e docenti. Si tratta soltanto di un esempio e altre innovazioni sono possibili.
Importante è capire che occorre diversificare l'organizzazione degli istituti scolastici per salvaguardare gli obiettivi e i valori del ciclo unico del collegio. È a questo prezzo che la scuola potrà svolgere il suo ruolo di istituzione nella quale il «vivere insieme» ha ancora un senso, anche nelle scuole ghetto.


note:

* Sociologi, Università di Bordeaux 2, co-autori con Françoise Liot di L'Apartheid scolaire. Enquête sur la ségrégation ethnique dans les collèges, Seuil, Parigi, 2005.
(1) John Ogbu, «Les frontières culturelles et les enfants des minorités», Revue française de pédagogie, n° 101, Parigi, 1992.
(Traduzione di M.G. G.)


http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/ultimo/0512lm18.01.html



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