Le Forme di Disagio clinico
STRATEGIE DI INTERVENTO. La tecnica del colloquio in psicanalisi è un lavoro molto razionale, una prova generale per il terapeuta, attraverso cui avviene un incontro di entità e un confronto quindi di differenze, anche a livello intergenerazionale.
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STRATEGIE DI INTERVENTO


Le Forme di Disagio clinico


 


di LAURA TUSSI


 


La tecnica del colloquio in psicanalisi è un lavoro molto razionale, una prova generale per il terapeuta, attraverso cui avviene un incontro di entità e un confronto quindi di differenze, anche a livello intergenerazionale.


 


Generalità del colloquio[1]


 


Nell’ambito del setting psicanalitico, occorre individuare le linee evolutive e dinamiche del processo adolescenziale. Sussistono diverse fasi di sviluppo, come il passaggio dal gruppo amicale infantile alla cerchia dei coetanei e adulti, l’ingresso nella sessualità matura, l’ampliamento del campo cognitivo verso nuove forme di pensiero, che Piaget individua nella fase delle operazioni formali, in cui si formulano ipotesi.


L’età adolescenziale presenta conflitti di sviluppo e crisi. Secondo Freud e Erickson si possono individuare elementi di psicopatologia nelle manifestazioni estreme di trasgressione e nelle autopunizioni corporali, che denotano difficoltà nel trovare un’identità definita con conseguenti atteggiamenti nevrotici, sintomi psicotici, casi borderline. Il primo colloquio con l’adolescente presuppone una semeiotica medica, con anamnesi del caso, conseguente esame obiettivo e la predisposizione di un tempo interno e esterno per la maturazione e l’introiezione del cambiamento, per conquistare una personale autonomia, con l’uscita dal mondo dell’infanzia.


Holding sostiene l’importanza di costruire un campo relazionale con l’analista in cui raccontarsi.


I disturbi emotivi e caratteriali sono spesso derivanti dalla lotta tra dipendenza e indipendenza/autonomia. Il tema della crisi adolescenziale è una vasta terra di mezzo, una terra di nessuno in cui il soggetto non è bambino né adulto.


Nell’ambito del setting si sviluppano situazioni di mutismo ostile o pseudostupidità, atteggiamenti voluti dal soggetto in cura per denotare la squalifica della potenzialità relazionale, in un comportamento distruttivo da parte del paziente. Si avverte un ripiegamento narcisistico con distanze relazionali che sanciscono l’insorgere di disturbi psicotici con arroganza provocatoria. In questa situazione il medico analista deve instaurare un rapporto di empatia per l’elaborazione della crisi. Le famiglie appaiono sempre meno autoritarie e molto disorientate, senza punti di riferimento. I genitori spesso sono mediatori con i CPS (centri psicosociali) rientrando in uno schema di approccio sistemico/familiare. Nei CPS o in altri servizi pubblici risultano importanti la valutazione e l’analisi di richiesta di supporto. Gli operatori devono gestire un buon controllo del controtransfert e dell’aggressività nel soggetto in crisi. Il nucleo familiare è un sottosistema emotivo in cui i modelli di relazione sono trasmessi tra generazioni, di cui l’operatore riabilitativo deve prendere coscienza.


 


Una normale solitudine[2]


 


Si prendono in esame bambini a rischio di sofferenza psichica, in contesti familiari deprivati di affettività o con problemi. Risulta necessario individuare i segnali precoci di un’evoluzione a rischio sul piano comportamentale e nell’ambito della sfera emotivo-cognitiva e dell’apprendimento in particolare.


Il rischio di disagio può insinuarsi nei genitori quali portatori di deficit, di sintomatologie ansiogene, di un grado d’istruzione molto basso o totalmente assente, di problematiche occupazionali e difficoltà di inserimento a livello sociale. La resilience è il fenomeno insito nelle capacità individuali di mantenere un discreto livello di adattamento in condizioni esistenziali sfavorevoli.


Bronfenbrenner definisce effetti moderatori le influenze derivanti dall’interazione di variabili personali e ambientali (conflittualità intrafamiliare).


La famiglia possiede una priorità come luogo dove si realizza un modello di costruzione sociale, in parte differente dalla realtà effettiva. La famiglia ha uno statuto sociale e simbolico.


I bambini definiti “casi sociali” spesso si trovano senza referenti parentali primari: sono privi di famiglia. La famiglia è anche un concetto spaziale (dal greco tizemi, fissare), un luogo dove stare. Lo scopo delle comunità alloggio è tenere legati i minori ad un territorio e contesto d’appartenenza, senza eccessiva istituzionalizzazione. Il disagio dei bambini ospitati è l’esito di interazione tra variabili nella realtà sociale, culturale, interpersonale, individuale. La dichiarazione dei diritti del bambino promulgata dall’ONU nel 1959, sanciva il diritto all’educazione, all’istruzione, alla sicurezza e, soprattutto, il diritto di avere una famiglia, per cui i coniugi hanno doveri ben precisi ed imprescindibili rispetto ai figli.


La comunità alloggio è comunque organizzata secondo uno stile di vita più professionale che si discosta dal contesto affettivo del nucleo familiare.


I modelli di vita sono comunque sempre basati sul rispetto ed il sostegno reciproco. La comunità deve costituire comunque un punto di passaggio transitorio e non una sistemazione definitiva, anche se i “casi” ospitati hanno maturato forti e crudeli esperienze di discontinuità, di rifiuto e abbandono nei rapporti con le figure parentali. In comunità vige una determinata scansione di regole attraverso categorie spazio-temporali, per  un fine terapeutico. La dinamica educativa e formativa all’interno delle istituzione si orienta nel favorire lo sviluppo della consapevolezza di sé e la presa di coscienza nella fiducia nelle personali capacità per costruire un’ identità positiva non più considerata “caso sociale”. Il sé del ragazzo o bambino si consolida e si organizza nel corso delle interazioni con altri, secondo modalità autoreferenziali, per cui l’”altro” è lo specchio di sé, oltre il sé. Il primo obiettivo nei progetti educativi consta nell’autonomia, nel raggiungere indipendenza ed autosufficienza, maturando l’implicita capacità di stare da soli e riconciliarsi con le figure parentali dell’infanzia per costruirsi un’identità positiva. Forse diventare adulti è un problema di normale solitudine.


 


Sussiste una continuità tra normalità e patologia nell’ambito del disagio in adolescenza, laddove nell’ottica più psichiatrica, più tradizionale, ossia superata, la situazione consiste nel considerare i due ambiti tra normalità e patologia ben distinti, ben differenziati, con tendenziale patologizzazione del disturbo adolescenziale. Molte osservazioni, molti studi e lavori intrapresi con adolescenti e genitori, hanno condotto la ricerca psicologica a privilegiare un’idea di continuità, di una visione secondo cui i problemi si aggravano, si addensano e si amplificano, ma vanno proprio riferiti ad un percorso situato nella fisiologia dello sviluppo. Questa è un’idea che porta anche alla visione di una prospettiva dell’adulto e dell’operatore psicologico che è portato a comprendere dentro questo tracciato relativo allo sviluppo, le problematiche anche gravi dell’adulto e dell’adolescente. Da questa analisi si percepisce il significato che le problematiche presentano nel contesto famigliare, ma più ampliamente nel contesto sociale, nel porre l’accento su quello che appunto avviene nel processo di interiorizzazione di informazioni, di comunicazioni a livello più superficiale, più interattivo, ma in modo più profondo, di identificazioni, di proiezioni, di meccanismi che hanno strettamente a che fare con l’inconscio e con il nostro sistema conscio. Tutti questi fenomeni e processi psichici stratificano lo sviluppo adolescenziale e possono presentarsi anche in termini di osservazione generale, nel momento stesso in cui sono compresi, ovviamente, in maniera clinica, quando il ragazzo si presenta con un problema in una stanza di consultazione o di terapia, ma prima ancora nella volontà della visualizzazione di un problema e di una difficoltà. Così risulta utile mettersi in contatto, anche nel senso della prevenzione con quelle che sono le possibilità di capire e comprendere profondamente le radici del problema, per cercare di prevenire gli sviluppi più gravi di una patologia o di un disturbo psichico. Tutto questo risulta ben presente come filo rosso nell’esperienza dei centri psicologici operanti sul territorio, che tengono ben presente il punto di vista psicanalitico e tutte quelle conoscenze che sono in gioco dalla formazione dell’identità, alla costruzione dell’immagine corporea, alla dimensione fondamentale delle relazioni sentimentali e dell’integrazione del corpo sessuale. Gli aspetti più problematici e le questioni principali che i clinici si trovano ad affrontare nel momento stesso in cui sono chiamati in causa nella stanza dell’analista terapeuta, iniziano con una descrizione dettagliata dei disturbi della condotta alimentare, oppure con tentativi di suicidio, fino a episodi di antisocialità e tutte le problematiche connesse all’agire trasgressivo e violento dell’adolescente, in una linea di continuità che va dal bullismo ai fenomeni di emarginazione, dai limiti della normalità, fino ai casi più gravi e disastrosi. Per poter fare una prevenzione non solo del disturbo psichico, o in senso lato della malattia mentale in adolescenza, ma anche in età adulta, andrebbe condotto un intervento di prevenzione proprio in epoca adolescenziale, laddove si presentano maggiori potenzialità, per il soggetto, di cambiamento, di trasformazione, nella possibilità di recuperare la propria storia di vita nella sofferenza e, per certi aspetti, di contribuire a riscriverla, uscendo anche da situazioni traumatiche molto gravi e riuscendo a riparare dei fallimenti evolutivi che tenderebbero a fossilizzarsi, cristallizzarsi e cronicizzarsi, diventando stabili. Per condurre una prevenzione ben fatta in adolescenza e in preadolescenza o anche in epoche precedenti dello sviluppo, risulta importante una valutazione che permetta all’analista di riconoscere sia su un gruppo, sia su un individuo, quelle che sono le caratteristiche del problema, situando la manifestazione, il fenomeno patologico in un panorama più ampio che certamente coincide con le frustrazioni e gli stress del mondo attuale, ma anche con conflitti e blocchi evolutivi e arresti cognitivi. Appunto, la valutazione tiene conto del significato sociale e culturale della nascita, della formazione di un determinato sintomo, sia nel soggetto, sia nel gruppo, come manifestazioni psicotiche e depressive che, dal punto di vista epidemiologico, stanno diventando sempre più incombenti e pervasive nella società contemporanea.     


 


La parola ha più potere di conoscenza, in quanto è strumento di scambio e di attenta descrizione dei fatti, degli eventi, dei comportamenti. Quando la grammatica comunicativa si riempie di termini, di accezioni, di parole e vocaboli, si crea conoscenza, sapere, descrizione dettagliata degli eventi, allontanando così le forme di interpretazione che sfociano nelle manie patologiche del XX secolo. Se non conosco l’altro, devo sapere come è, in quanto l’area della conflittualità è sempre dimensione di non conoscenza. Nella pragmatica della comunicazione umana Watzlavick indica nel sillogismo “io penso che tu pensi” una necessità di interpretazione relazionale, a livello di rapporti umani, che spesso sfocia nella patologia, nelle posizioni indefinite, nelle dimensioni aperte dei perché, nel non detto. Occorre lasciare uno spazio all’identificazione per evitare il conflitto, assumendosi le proprie responsabilità. Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e di relazione che qualifica lo stesso sfociando nella metacomunicazione. Nella comunicazione i soggetti si definiscono e questo può suscitare nell’interlocutore la reazione di conferma, il più grande fattore che garantisce lo sviluppo e la stabilità mentale oppure il rifiuto e la disconferma. Da queste ultime due reazioni insorgono le modalità interpretative, ossia schemi mentali di difesa che portano alla paranoia, nella presa di posizione, spesso violenta che si conclude con il conflitto, in cui si permane a lungo, si sosta, in un’impasse di esasperazioni. Tutto ciò che gravita intorno ad interessi, ad ambiti, a scelte crea giudizio, spesso principio di conflitto, forse relativo ad un bisogno, ad un’attesa, ad un’aspettativa che suscitano la dimensione interpretativa e paranoica che fossilizza su posizioni inoppugnabili, ma che spesso costituiscono un ambito di comunicazione a livello cognitivo. Per dipanare il conflitto risulta utile una raccolta di informazioni sulla realtà con la capacità di rilevare informazioni dai comportamenti, ossia la mimesis, limitazione della natura del reale come sosteneva Aristotele. Con la descrizione il più dettagliata possibile degli eventi si chiarifica la struttura della sequenza degli interscambi fattuali e si può giungere alla definizione e delineazione delle dinamiche conflittuali per poi condurre ad una con sensualità fra le parti (dal latino cum-sensum) che potranno decidere di andare nella stessa direzione, pur mantenendo una loro opinione, una posizione, nel rispetto delle diversità e differenze. Dunque non è necessario risolvere il conflitto tramite la pattualità mediatrice e metabletica, ossia la dimensione di cambiamento che permette di modificare la propria idea, di giungere ad un compromesso, trasformandosi, ma si considera il senso, la direzione, la direttiva delle parti verso un punto di accordo, di concordia verso una dimensione ritenuta giusta, equa, consensuale, da entrambe o più parti in causa. Certe configurazioni relazionali sono più ripetitive e probabili secondo un processo stocastico dovuto al caso e inerenti ad una catena di simboli ed eventi. Secondo la teoria dell’informazione i processi stocastici mostrano ridondanze pragmatiche sul comportamento da cui percepiamo incoerenze. Infatti siamo in costante comunicazione, ma non riusciamo mai a comunicare sulla comunicazione, perché la metacognizione e la metacomunicazione ci permettono di ragionare sulle posizioni e le opinioni dell’altro, del diverso da me, infrangendo ogni rischio di ridondanza e di fenomeno interpretativo. Nella comunicazione umana sussistono sequenze di mosse governate da regole su cui si può comunicare e asserire, ossia metacomunicare. Nel calcolo della pragmatica della comunicazione umana le regole sono osservate nella comunicazione efficace e violate nella comunicazione disturbata o psicopatologica. Secondo Birdwistell un individuo non produce comunicazione, ma vi partecipa. Questo suggella il concetto dell’impossibilità di non comunicare e quindi, secondo Habermas, dell’inevitabilità del conflitto, nella congerie della complessità umana portatrice di miriadi di differenze e diversità, di alterità e solidarietà, di bontà o esacerbato rancore di amore. Dunque il veicolo dell’interazione è la comunicazione, ma l’uomo non è solo animale sociale. La comunicazione e quindi la conflittualità, quale forma di interazione nell’esistenza, sono concetti inseparabili. La realtà è come la facciamo essere. Il modo di essere al mondo è il risultato della scelta dell’uomo stesso, del significato che il soggetto attribuisce all’esistenza oltre l’oggettiva comprensione umana. Secondo Nietzsche chi ha un perché per vivere sopporta meglio come vivere. L’individuo non può vivere senza metacomunicazione in quanto necessita di attribuire senso e significato alla realtà e alla vita (Bruner). Non può vivere nell’universo assurdo della schizofrenia, nell’assenza di significato, nell’orrore del nulla esistenziale. Sé l’esistenza perde significato origina angoscia e depressione. L’attribuzione di senso e significato è possibile solo a livello di intuizione ed empatia. Il paradosso ultimo dell’esistenza: l’uomo è soggetto e oggetto della sua ricerca al fine di comprendere il senso ed il significato della propria esistenza. Tutto questo ha avuto un tentativo di formalizzazione nel Tractatus di Wittengstein: “mondo e vita sono una sola cosa: io sono il mondo”. Dunque la realtà è consensuale. Il primo assioma di Watzlavick indica che non si può non comunicare e che dunque la comunicazione è alla base della relazione e della sequenza continua di scambi ed eventi che costituisce una punteggiatura pragmatica di relazioni e di contenuto. Spesso questi ultimi due aspetti si confondono in una comunicazione disturbata o patologica e il disaccordo, il conflitto si manifestano a livello di contenuto oggettivabile e di relazione e metacomunicazione (io penso che tu pensi). Nella comunicazione gli individui si definiscono, si costruiscono un’identità attraverso l’interazione con l’altro e con l’alterità nella sua complessità. Se non si risolvono le discrepanze all’interno della punteggiatura di sequenze della comunicazione, l’interazione diviene vicolo cieco con reciproche accuse di follia e cattiveria, in quanto l’altro non ha lo stesso grado di informazione e non può trarre dalle stesse le medesime conclusioni. La comunicazione patologica è un circolo vizioso e si interrompe solo quando i comunicanti sono in grado di metacomunicare. Infatti alla radice dei conflitti di punteggiatura vi è la convinzione che esiste solo una realtà, ossia il mondo come lo vedo io. Nella circolarità dei comportamenti risulta impossibile stabilire la dinamica di causa/effetto. L’individuo crede di reagire con il suo comportamento in una circolarità relazionale e non di provocare lui stesso una comunicazione patologica o disturbata, ossia una situazione conflittuale. Nella punteggiatura di eventi comportamentali si giunge ad una “profezia che si autodetermina”, ossia nell’ambito comunicativo si ritiene la cosa per scontata, per cui l’individuo crede di reagire ad atteggiamenti e non di essere lui stesso a provocarli, come nelle dinamiche di antipatia.  


Il disagio risulta dilagante in ogni situazione e tra i diversi ruoli degli attori sociali che operano con ragazzi a rischio in contesti ambientali, in situazioni, spazi e tempi che creano disagio. Anche il disagio del docente interagisce con le difficoltà degli studenti, per cui si crea una realtà complessa nel fare scuola. L’appartenenza al gruppo dei pari è estremamente connaturale all’età adolescenziale. All’interno dei gruppi giovanili si costruisce l’identità adolescenziale nella maturazione della sfera psicologica, affettiva e cognitiva che condurrà verso la soggettività piena. Il gruppo di pari ha subito trasformazioni attraverso il tempo, mantenendo la funzione di contenitore psichico collettivo con la percezione dell’identità soggettiva che giunge a compimento quando la percezione di sé si integra con il riconoscimento da parte degli altri. L’adolescenza rappresenta un legame tra vari continua esistenziali e momenti apicali vissuti anche in passaggi transgenerazionali.


 


Bibliografia:


 


Adler F., Prassi e teoria della psicologia individuale, Roma 1947


Bertolini P. (1972), Il problema della gioventù socialmente disadattata, Milano Vallardi


Bertolini P., Autonomia e dipendenza nel processo formativo, Firenze, La Nuova Italia


Bertolini P., L’esistere pedagogico, La Nuova Italia, Firenze1990


Bertolini P., Ragazzi difficili, La Nuova Italia, Firenze 1993


Briosi A. Autobiografia e finzione. Quaderni di retorica e poetica, 1986


Demetrio D. Il gioco della vita, Guerini, Milano


Demetrio D. Pedagogia della memoria, Meltemi, Roma.


Galli G. Interpretazione e autobiografia, in Atti dell’Undicesimo Colloquio sull’interpretazione, Marietti, Genova 1990


Merleau-Ponty M. (1945), Fenomenologia della Percezione, Milano Il Saggiatore, trad 1980


Merleau-Ponty M., Fenomenologia della percezione, Giunti e Barbera, Firenze


Palmonari A., Identità imperfette, Il Mulino Bologna


Piussi A. M. (1989), Educare nella Differenza, Torino, Rosenberg &Sellier


Winnicott D.W., Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma 1989  


Zanelli P., Uno sfondo per integrare, Cappelli, Bologna


 


 








[1] Cfr.R. Telleschi, G. Torre, Il primo colloquio con l’adolescente, RCE, Milano 1988



[2] Cfr. F. Emiliani, P. Bastianoni, Una normale solitudine, La nuova Italia Scientifica, Roma 1993


 

LAURA TUSSI
email: tussi.laura@tiscali.it  

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