Le famiglie immigrate: sì alla scuola pubblica
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Le famiglie immigrate:
sì alla scuola pubblica



 

di Alen Custovic, Priscilla di Thiene, Ekaterina Koshkina, Maya Llaguno Ciani




Le coppie immigrate scelgono per i loro figli la strada dell’integrazione. E decidono di seguirla fin dalla prima istruzione, iscrivendo i propri bambini alla scuola pubblica italiana. Questo il quadro che emerge dalle interviste fatte alle varie comunità straniere in Italia, dopo la chiusura della scuola islamica di via Quaranta a Milano.

“Se fosse esistita una scuola parificata filippina ci avremmo pensato ad iscriverla” – dice Vicky, trentacinque anni, di Pisa, mamma di un bambino di due anni e una ragazza di quindici – “ma in generale crediamo sia importante far studiare i propri figli insieme agli altri e non rischiare di isolarli”. “Spetta a noi - aggiunge - farle conoscere e apprezzare la cultura filippina. A casa si parla e si mangia filippino, ma con gli amici nostra figlia parla italiano, e sembra contenta così”.
Eppure non mancano bambini filippini che frequentano scuole cattoliche. Il motivo della scelta non è religioso ma legato alla presenza di suore filippine che, soprattutto per i più piccoli e nuovi arrivati, rappresentano un importante conforto. Per Pasquale, italiano, e Marisane, filippina, l’ideale sarebbe stato avere qualche corso pomeridiano a disposizione ma “l’avremmo in ogni caso iscritta alla scuola pubblica”. Rose Jean, invece, vuole tornare prima o poi a vivere nelle Filippine e per questo il figlio studierà ad una scuola internazionale e “la sua cultura e identità si formerà in casa con noi”.

Allo stesso tempo c’è chi crede che la scuola non debba avere alcun indirizzo religioso. Secondo Nemanja e Slavica, una giovane coppia bosniaca ortodossa ,“la religione è cosa che si trasmette tra le mura domestiche, è un affare di famiglia”. Il loro figlio di sei anni frequenta un istituto pubblico. Marina e Aleksej invece, romeni in Italia da dodici anni, pensano che la libertà di decidere a quale scuola mandare i figli spetti ai genitori prima che allo Stato. “Per quanto ne so in via Quaranta non facevano nulla di illegale, quindi non mi sento di condannarli – dice Aleksej - c’è però da dire che una differenziazione tra le realtà formative dei giovani corre inevitabilmente il rischio di portare ad una ghettizzazione scolastica e quindi sociale”.

I tre figli di Zoran e Suzanna, ortodossi della Serbia, frequentano la scuola statale: “E’ la maniera più semplice per farli studiare” - dice Zoran – “su via Quaranta quello che posso dire è che la vicenda non è stata affrontata nel migliore dei modi dalle autorità pubbliche. Una scuola è pur sempre un organo educativo e come tale deve essere tutelato”. Su come cercano di trasmettere ai figli le proprie radici linguistiche e religiose, Zoran dice: “Vanno in Chiesa, guardano film in serbo, ascoltano musica; ma soprattutto si cerca di parlare il serbo in casa perché il rischio che con il tempo si dimentichino le proprie radici è concreto”.

Infine c’è anche chi riesce a raggiungere un compromesso, tra scuola italiana e insegnamento del proprio paese.
“Presso il nostro centro è stata istituita una scuola russa che integra il programma dell’istruzione pubblica italiana con tutte le materie previste dalla scuola media nella Federazione Russa” afferma Rocco Auletta, presidente del centro della Cultura Russa di Milano. “Le lezioni si svolgono ogni sabato pomeriggio, dalle 14.45 alle 19, per i 120 bambini che attualmente frequentano la scuola”. Per il resto della settimana gli alunni frequentano gli istituti pubblici italiani. Al termine del programma didattico, i giovani ricevono un diploma di maturità russo, così al rientro in patria nessuno avrà perso gli anni scolastici.

Stessa scelta quella della comunità cinese di Roma, anche se i corsi non portano a nessun riconoscimento ufficiale.
I bambini dividono i banchi con gli italiani la mattina e nel pomeriggio, per tre volte a settimana, frequentano corsi di cinese. “Così – dice Keng - oltre che a parlare la nostra lingua imparano anche a scriverla. E poi l’estate stanno tre mesi in Cina e continuano a studiare”.


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