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Scritto per noi da Enza Roberta Petrillo ![]() ![]() Felicia ha venticinque anni e il volto stanco. Ci racconta la sua storia con un filo di voce mentre il suo bambino dorme su una branda da campeggio stesa accanto ad altre settanta brande tutte uguali. “Aspetto un bambino e mi hanno buttato per strada. Ci hanno sgomberato perché dicevano che un rumeno aveva fatto del male a un’italiana. Ora sono al settimo mese e questo è il mio secondo bambino”. Le chiediamo da dove arriva e lei risponde determinata: “Abitavo vicino Bucarest. Ma io in Romania avevo una casa! Per tre anni ho vissuto con la madre di mio marito, poi abbiamo deciso di venire in Italia con un pullman che ci è costato tantissimo, e siamo finiti a Capo Rizzuto”. Felicia è turbata ma vuole raccontare la parte peggiore della sua vita in Italia: lo sgombero di Capo Rizzuto. “Alle quattro di mattina sono arrivati i carabinieri, la polizia. Dormivamo tutti e le loro urla hanno svegliato anche i bambini. Ci hanno minacciati e poi sono arrivate le ruspe e hanno buttato tutto giù.” ![]() Lo sguardo improvvisamente cupo si illumina per l’arrivo di suo fratello Bogdan e dell’amico Razvan. Difficile distinguerli dai tanti quindicenni italiani. Adorano il calcio come loro, impazziscono per la stessa musica pop e soprattutto parlano la stessa lingua. Nulla li differenzierebbe tranne la loro occupazione. Bogdan e Razvan sono musicisti, ma non è di questo che vogliono parlare. Anche loro vogliono raccontare lo sgombero. Che per loro si sia trattato di una violazione inimmaginabile lo si capisce dalla rabbia con cui raccontano i fatti del 28 giugno. “Loro hanno preso tutto e spaccato il campo. Piangevamo tutti, i bambini erano spaventati. E’ stato terribile. La polizia ha preso un ragazzo e l’ha portato in questura. Ora abbiamo solo paura”. ![]() Vergognandoci un po’ gli chiediamo se hanno un sogno. Insieme rispondono: “Una casa”. A Via Brambilla si capisce subito che le storie di vita di questa umanità dolente sono lontanissime dagli stereotipi che imperversano sui rom. Mentre ti raccontano che per molti di loro il nomadismo è stata una scelta forzata, scorrono le immagini di istituzioni assenti e di promesse non mantenute. Per questa gente il sogno di una casa si è trasformato in un auditorium adibito per l’emergenza a dormitorio. Solo il contegno e la dignità di chi ci vive stempera il caos e la promiscuità dello stanzone. Un posto dove ciò che resta dei bagagli raccattati alla meno peggio nel giorno dello sgombero si confonde con i giocattoli dei bambini e le immancabili fisarmoniche. Come ci racconta Davide Tortorici, un giovane volontario, l’arrivo dei rom nella struttura ha dimostrato che l’intercultura è possibile anche in condizioni di disagio. “Nella casa-famiglia i rapporti tra i rom e il resto degli abitanti sono ottimi. Ognuno ha una storia personale spesso dolorosa. Sono persone che hanno perso una casa e che dalla povertà in Romania sono passati alla povertà in Italia”. Fatti confermati anche da Maria Grazia Guida, assistente sociale nella struttura: “Questi bambini possono davvero insegnarci l’intercultura. I bambini cantano le nostre canzoni. Ma tra loro e le istituzioni c’è un abisso”. La risposta delle istituzioni. “Questo è un modo terribile di fare le cose. Perché entrare alle quattro del mattino? Perché terrorizzare i bambini? Non si può entrare con i manganelli. Entrare con delle armi, questo è veramente troppo. Bisognava trovare loro una sistemazione alternativa, non mandarli via e basta”. Domande senza risposta che risuonano forti nella struttura voluta da Don Virginio Colmegna, l’unica a essersi mossa nella ridda di responsabilità giocate sulla pelle dei settantanove rumeni. http://www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?idpa=&idc=2&ida=&idt=&idart=3232 | ||||||||
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