LAMPEDUSA - Diario di bordo dei sopravvissuti a sedici giorni e sedici notti sul Mediterrraneo - ottobre 2003
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Il diario dei sopravvisuti: un calvario lungo due settimane
Senza sapere neache più chi fosse vivo e chi morto
"Rannicchiati sotto i cadaveri
per resistere a freddo e orrore"

dal nostro inviato ATTILIO BOLZONI








 
LAMPEDUSA - Questo è il diario di bordo dei sopravvissuti. È la cronaca di sedici giorni e sedici notti sul barcone dei morti e dei sepolti vivi. Sono i rantoli di Mohamed che prima ha visto gli altri buttare tra le onde sei bambini e poi è toccato a lui, è toccato a lui far scivolare in mare sua moglie e anche suo figlio che aveva appena 7 anni. Sono i sussurri di Mouhane che stringe nelle mani il rosario islamico e non vuole ricordare niente, è il pianto di Amjdi che era lì mentre si spegneva suo padre. Ed era ancora lì mentre guardava i suoi piccoli fratelli, tre ne aveva sul barcone, avvinghiati uno all'altro nell'ultimo abbraccio. È il dolore dei vivi che racconta l'ultima tragedia dei popoli che migrano.

È il dolore sbarcato sui moli di quella frontiera tra due mondi che è Lampedusa. I vivi che hanno trovato riparo dal freddo sotto i corpi dei compagni morti. Uno sopra l'altro. I vivi che all'ottavo o al nono o al decimo tramonto sul Mediterraneo in tempesta non hanno neanche più pregato il loro dio. Erano troppo stremati per farlo. Rassegnati a finire in fondo al mare con tutti gli altri.

Cronaca di sedici giorni di un'agonia tra l'Africa e l'Europa, tra le onde che sbattevano il legno fradicio verso l'isola di Malta. Erano soli nel nostro mare questi uomini e queste donne che venivano da lontano. Soli. È cominciato tutto venerdì 3 ottobre. Era verso sera.

Il primo giorno. Qualcuno entrò nella baracche e cominciò a gridare che "era ora di partire". Stavano lì da qualche settimana. Lì in quel villaggio al confine tra la Libia e la Tunisia, dune sul mare, palme, guardiani armati.







"Eravamo ottanta o forse anche cento che aspettavamo, che avevamo già pagato fino 5mila dollari", bisbiglia Mouhane. Dice che erano tutti "vicino a Tripoli", in realtà non sapeva nemmeno lui che probabilmente erano trecentocinquanta chilometri più ad ovest, alle porte della città di Al Zuwara che è a un passo dal confine tunisino. Di notte li hanno portati su una spiaggia vicino al faro che sta di fronte un'isoletta. E li hanno caricati sul barcone di colore verde e con le strisce blu e bianche, un motore corroso dalla ruggine e dalla salsedine, un "tetto" fatto con i sacchi di juta. Poi la terra e le luci si sono allontanate, avevano lasciato finalmente la Libia.

Il secondo giorno. C'era mare buono. "E tutti avevamo ancora il nostro cibo: pane e mele", racconta Barhane Ahifati che steso su un materassino ancora non ce la fa a mangiare e a bere, gli aghi delle flebo infilzati nelle vene. Non sembra neanche più un uomo. Sembra una marionetta. Sono come morte le sue braccia e le sue gambe che non si muovono più. Avevano anche l'acqua, allora. Al secondo giorno. Due o tre bottiglie per ciascuno. Poi all'improvviso i primi singhiozzi del motore. Ricorda un sopravvissuto: "Ci avevano detto che in poche ore, dodici o quattordici, arrivavamo a Lampedusa. Ci avevano detto che dovevamo tenere il timone dritto e dopo un po' sbarcavamo in Italia". Ma quando il motore si è spento l'Italia era ancora molto lontana.

Il terzo giorno. È Mohuane che parla: "Il cielo è diventato nero, pioveva...". E il mare si stava gonfiando. Le bottiglie d'acqua se le passavano di mano in mano quegli ottanta o quei novanta o quei cento somali che erano stipati sul barcone, sette bambini, tante giovani donne. E anche i pezzi di pane rimasti cominciavano a dividersi. La barca andava intanto verso est, sempre più verso Malta.

Il quarto giorno. Silenzio in mezzo al mare. Tutti rannicchiati, tutti stretti uno accanto all'altro per quelle sferzate di vento gelide che attraversavano il cielo del Canale di Sicilia. Chi stava a prua si prendeva la pioggia, cadeva ormai da ventiquattro ore. Chi stava a poppa stava più asciutto per quei sacchi di juta che coprivano una parte di barca. Ma il mare si ingrossava, si ingrossava ogni ora di più. La notte tra il quarto e il quinto giorno di navigazione hanno cominciato tutti a pregare. Non c'era più pane. Non c'era più acqua.

Il quinto giorno. Se lo ricorda bene il quinto giorno Mohamed Abde Razaki, nato nel 1969 in un villaggio della Somalia. Non lo dimenticherà mai più. Una lacrima, un soffio di voce e racconta: "È stato il giorno dei primi morti. Cinque. Non c'erano bambini tra i morti quella volta, dopo... i bambini dopo...". I primi cinque che se ne vanno. Avevano bevuto acqua di mare. Disperati. Morti di acqua salata. E buttati tra le onde per far posto ai vivi.

Il sesto giorno. Altri morti. Forse cinque o forse sei. E quella volta tra loro c'erano bambini. Un altro sopravvissuto è Mohamed Josif che ha appena 21 anni. Un altro ricordo del sesto giorno: "I nostri compagni morivano di sete ma anche di freddo". Cominciavano a tremare tutti sul barcone. Il vento era sempre più gelato. Le coperte poche. E così altri cadaveri rotolavano in mare, il Mediterraneo che diventava la loro tomba.

Il settimo, l'ottavo e il nono giorno. Il vento cambiava ogni sei ore, una volta tirava verso est e poi dall'altra parte. La barca cominciava a girare su se stessa. Onde alte, la barca che saltava sempre più forte e qualcuno che sbatteva la testa sui legni a prua lasciando una piccola traccia di sangue. E ancora morti. Più di cinque. Più di otto. Forse dieci. I ricordi di Barhone e di Mohamed e di Mohuane si accavallano, si confondono. Di sicuro ne stavano morendo di più dei primi giorni su quella barca che il 3 ottobre era salpata da Al Zuwara. Morivano senza accorgersi di morire. Sdraiati uno sopra l'altro.

Il decimo e l'undicesimo giorno. Sulla barca erano rimasti in pochi. Quanti? Non lo ricordano più. Non lo ricorda più nessuno tra i sopravvissuti. Le testimonianze si mescolano, la memoria sfuma. Non parlano. Non dicono più nulla.

Dall'undicesimo al sedicesimo giorno. C'è una barca che è in mezzo a due Continenti e sopra sono rimasti in ventotto, altri cinquanta o sessanta o settanta non ci sono più. Come non ci sono quei sette bambini. Solo ventotto, gli ultimi ventotto: quindici vivi e tredici morti. Il resto dello sterminio in mare è raccontato dagli altri. Da quelli che li hanno trovati i somali del naufragio. Vivi e morti, appiccicati uno con l'altro, stesi uno sopra l'altro. E c'erano anche vivi che sembravano morti.

Come quella ragazza incastrata là sotto. Sepolta. Erano ancora sul barcone quei tredici cadaveri. "Erano ancora lì perché nessuno di noi aveva più la forza di prenderli e di buttarli in mare", ha spiegato Mohamed Abde Razake ai primi poliziotti e ai primi carabinieri che l'hanno sollevato dai legni sfondati e adagiato sul molo. Anche la ragazza è stata poggiata lì vicino, proprio accanto a Mohamed. E la stavano chiudendo in un sacco.

L'altra notte era sotto quegli altri corpi mentre i marinai trainavano il barcone con tutti quei cadaveri. Qualcuno era salito a bordo e l'aveva data per morta. Sembrava che non respirasse più. Era rigida. Immobile come una statua. Gli occhi sbarrati, le vesti colorate inzuppate d'acqua, il capo reclinato, le braccia stese sulla schiena di due ragazzi che se n'erano andati chissà quanti giorni prima. Ufficialmente morta per dieci e passa ora, tutte quelle che ci sono volute per arrivare fino ai moli di Lampedusa. Era uno scheletro. Poi ha mosso le dita di una mano. Poi l'hanno presa e portata via. Poi l'hanno cancellata dalla lista dei morti e infilata in quella dei vivi.

(21 ottobre 2003)






http://www.repubblica.it/2003/g/sezioni/cronaca/sbarchi/vivia/vivia.html



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