L'aplomb dei poveri
Gabriella Del Duca - 18-12-2006
Sembra che si stia perdendo l'alfabeto della comunità, quella che serve a farla funzionare, nello sbriciolamento dei dititti, nella iperindividualizzazione dei desideri. Si è perso quel minimo di regolamento sociale per cui, se chiedi che ore sono, aspetti che l'altro guardi l'orologio e ti risponda. Così accade che, mentre stai guardando il quadrante dell'orologio per rispondere alla domanda, il pivello che l'ha fatta, giri il sedere, dimentico del suo bisogno e della tua cortesia e raggiunga gli amici che lo chiamano. Sembra che non ci sia niente di male. prima di tutto rincorrere lo stimolo volubile della pulsione. se gli fai osservare la sua incongruenza ti guarda stranito. Questo più del bullismo mi sembra un fenomeno nuovo, caratteristico del tempo. Si potrebbe già attivare un'archeologia dei modi e del sentire che cataloghi col cartellino reperti di buone maniere, ruderi di educazione risalenti appena ad una trentina di anni fa. L'occhio diffidente del sistema scolastico verso i "figli del popolo", una volta, generava una repressione selvaggia. Pena umiliazioni plateali al cospetto dei pari, vigorosi scappelloti sulla nuca e, prima, bacchettate sulle mani, quelli un pò più spavaldi erano indotti ad assumere il contegno e la misura dei signorini, di quelli educati. Fine della repressione, fine dell'educazione nella famigerata società di massa? Nessun timore di passare per maleducato o, come si diceva una volta, villano, ma anche asino, cioè analfabeta, illetterato del decalogo sociale, ad allungare le gambe, dare sulla voce, riprodurre, probabilmente, i comportamenti casalinghi dell'eroe eponimo della comunità familiare, il padre?
Con la fine degli anni '60, il guadagno di più tempo libero in occidente, il guadagno di benessere, la "depance", avrebbe dovuto avviarci tutti alla realizzazione di attività autodirette, una gioconda istruzione peripatetica, giocondità del tempo per leggere, per confrontarsi, per edere spettacoli, per creare. Il laboratorio del '68 questo indicava. "Sgranocchiavamo libri come conigli" diceva in un'intervista Mauro Rostagno per esemplificare quei tempi. Era la smentita collettiva della profezia che annette allo studio i fantasmi della noia e dell'assuefazione, alla conquista del sapere la predisposizione genetica. Si poteva crescere, diventare adulti, senza passare attraverso i riti della repressione.
I giovani dell'India, del Ghana, della Moldavia che vengono ai corsi di italiano, alcuni dopo otto ore di lavoro, mostrano un contegno che ha a che fare con la deferenza con cui si rapportano a noi, forse, ma, intanto, la compostezza li nobilita, sono indenni dalla volgarità.
Sembra cadere l'argomento che l'intelligenza venga incrementata dall'ambiente dove circolano cultura, lessico fluente e sintassi corretta. Queste persone forse in casa non avevano una biblioteca, forse i genitori sono analfabeti. La sobrietà che li caratterizza gli ha fatto profitare dei libri che hanno avuto tra le mani, dell'inglese rifilato come ponte per tutti i possibili domani?
Anche gli italiani erano così, finita la guerra. Spezzoni di interviste ad operai, emigranti degli anni '50, '60, tutto mostrano tranne l'ebetudine del disimpegno. nella dignità del loro discorso impastano la descrizione dello stato delle cose con l'aggiunta di una nota sentimentale, solo una punta, quanto basta. Sono impregnati di responsabilità.
Nessuna nostalgia dei tempi andati, sia chiaro, solo un farsi domande.

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