Una volta, ricorda con nostalgia il ministro Martino, in alcuni Stati americani, a garanzia della privacy di ogni cittadino, non esisteva nemmeno l´anagrafe e la patente era priva di foto. Erano gli anni 30 del secolo scorso, prima della Seconda guerra mondiale. Bei tempi. Da allora le misure di identificazione di ognuno di noi e di controllo dei nostri movimenti si sono fatte, dovunque, sempre più accurate, stringenti.
Un pagamento o un prelievo bancario, uno spostamento in aereo o in autostrada, un pernottamento in albergo, una telefonata, l´ingresso in un ministero o in una banca: di ogni nostro gesto e azione rimane ormai una traccia documentale. Tutto questo può essere spiacevole, e in parte lo è. Ma forse è inevitabile per garantire la nostra sicurezza.
Tra le misure che possono essere adottate a questo scopo c´è anche la «rilevazione dattiloscopia» della nostra identità. Una fotografia può essere falsificata o contraffatta, le nostre impronte, almeno fino ad oggi, no. Al di là dunque del valore simbolico che circonda questa procedura (legata nella nostra cultura o esperienza all´immagine della camera di sicurezza, della detenzione, della violenza) le impronte digitali sono niente di più che uno strumento di identificazione e riconoscimento al quale non dovrebbe essere attribuito un significato umiliante o discriminatorio.
Ad una condizione tuttavia: che questa procedura di accertamento della identità, come ogni altra procedura di controllo, sia operativa per tutti. Così accade, tanto per fare l´esempio più banale, per l´occhio della telecamera che, all´ingresso di una banca, non sceglie, non seleziona i possibili potenziali rapinatori, ma registra tutti anche le vecchiette che vanno a pagare il mutuo o a versare la pensione.
A suo tempo l´allora ministro Bassanini propose per tutti i cittadini italiani la rilevazione delle impronte digitali sulla carta d´identità, accanto alla fotografia e gli altri dati. Oggi la stessa proposta viene avanzata dall´onorevole Rutelli. Quando sia estesa a tutti, la misura non assume nessun carattere discriminatorio.
Né può suonare discriminatorio sottoporre alla rilevazione delle impronte gli immigrati clandestini, che sbarcano in Italia privi di documenti di identità o con documenti dubbi. La legge Turco Napoletano già lo consente e lo prevede. Ma sottoporre alla stessa pratica tutti gli immigrati, anche coloro che da tempo vivono e lavorano da noi, che hanno già un permesso di soggiorno periodicamente rinnovato e la fedina penale pulita, questo suona come discriminatorio, umiliante e sbagliato. Significa dire alla pubblica opinione e a ognuno di loro che noi li consideriamo sospetti, inaffidabili, propensi a delinquere non per il loro comportamento, ma per la loro origine, il colore della pelle, la religione che professano.
E´ una misura sbagliata che rischia di alimentare, giustificare e confermare tutti i pregiudizi di tipo razzista che, pure presenti nel nostro paese, sembrano in via di superamento. Una recente indagine rilevava che la nostra opinione pubblica è nettamente divisa a metà: un italiano su due ritiene che la presenza degli immigrati extracomunitari nei luoghi di lavoro sia un fatto positivo per la nostra economia e che la presenza dei loro bambini nelle nostre scuole possa essere un´occasione per rinnovare sistemi e strutture di insegnamento. Una saggia politica immigratoria dovrebbe dunque proporsi di facilitare il superamento di vecchi stereotipi e di favorire la reciproca comprensione e la civile convivenza tra noi e gli altri. Tanto più che la loro presenza nel nostro paese è destinata inevitabilmente a stabilizzarsi e, probabilmente a crescere, viste le pressioni e le richieste che in questo senso vengono da gran parte delle nostre aziende. E´ nostro interesse insomma favorire in ogni modo un processo di inclusione e integrazione degli immigrati già presenti sul territorio e di quelli che arriveranno.
Anche per questo siamo contrari alla norma sulle impronte digitali già approvata a Montecitorio e presto all´esame del Senato. Una norma che, se definitivamente approvata, lungi dal favorire i processi di inclusione, alimenterà la reciproca diffidenza, la nostra verso di loro e la loro verso di noi. Anche questo è un pericolo.
L´umiliazione o la discriminazione di cui l´immigrato, anche quello da tempo inserito nella nostra società e nel suo lavoro, si sentirà vittima quando gli verranno richieste le impronte digitali, lo spingerà infatti a rifugiarsi nella sua comunità, luogo della identità e della sicurezza. Ma la chiusura nella propria comunità, la fissazione nella propria identità etnica o religiosa non è solo un ostacolo alla inclusione ed alla integrazione, rischia anche di mettere i più giovani di quegli immigrati a disposizione della propaganda e del reclutamento dei vari gruppi dell´integralismo e del fondamentalismo. Sono proprio gli umiliati, i respinti i più sensibili a questo richiamo, come dimostra anche l´esperienza francese.
Se noi abbiamo bisogno delle loro braccia e della loro intelligenza (Guidalberto Guidi ricordava qualche giorno fa che «l´industria comincia a manifestare l´esigenza anche di tecnici ed ingegneri extracomunitari»), allora non possiamo umiliarli, discriminarli, considerarli di razza inferiore, come fanno molti esponenti della Lega.
Qui non è in gioco il «buonismo» (la politica ha poco a che fare con i buoni sentimenti), ma la prospettiva di veder realizzata nel nostro paese una civile convivenza tra diversi, nel rispetto beninteso delle nostre leggi.