Millenovecentocinquantasei
Giuseppe Aragno - 14-10-2006
Dallo Speciale Il tempo e la storia



Via Foria, fuori le mura dell'antica città, incrocia via del Duomo ad angolo retto. Nell'autunno del '56, nell'ampio crocicchio, si levava già in alto il "grattacielo" della Upim e, risalendo a sinistra l'ampia e alberata piazza Cavour, s'incontrava ancora, in cima a pochi gradini, il glorioso "San Carlino", il teatro nel quale tutti i Pulcinella hanno riso e pianto con la gioia e la malinconia d'un popolo che sa subire, ma sa anche prendersi gioco dei potenti e ribellarsi. In quegli anni Napoli non s'era ancora persa nel modello omologante dell'Europa e la città operaia costringeva nei suoi covili la camorra, che si andava facendo aggressiva all'ombra della corruzione neofascista, del voto di scambio e del paternalismo clerico-moderato.
In un bel libro dalla copertina rosso pompeiano - Napoli greco-romana di Mario Napoli. che conservo come fosse una reliquia - avevo scoperto che sotto il selciato a "cazzimbocchi", che oggi chiamiamo nobilmente sampietrini, correva la via d'una porta romana con le antiche tabernae e le cauponae, che avevano rifocillato i viandanti, le "fulloniche" per gli abiti da tingere e certi piccoli ambienti con letti in muratura, chissà, forse cubicula di un lupanare che, in quell'alba di vita, immaginavo fossero tane di lupi. Anni dopo, solo anni dopo si sono fatti spoetizzanti casini, case chiuse, case di tolleranza, e ho capito quanta poesia ci ruba questo nostro viaggio precario e che fortuna abbiamo quando siamo bambini e non sappiamo.
La mattina, in quei giorni di ottobre, mi avviavo all'incrocio con passo lieve e rispettoso per quell'antico mondo che avevo sotto i piedi, ancora preso da quella "prima media" che mi aveva strappato all'avviamento professionale del quale istintivamente diffidavo.
Ebbi paura e non chiedete perché: cinquant'anni dopo, chi volete che sappia cosa passava nella sua testa di bambino? Ebbi paura per quei grandi titoli neri sui giornali, per le foto dei cingolati, per la guerra, l'invasione, ancora così presenti nei racconti dei miei. Una paura che mi accompagnò mentre attraversavo la via deserta - erano anni in cui le automobili passavano davvero raramente - e Foria si faceva larga, sempre più larga, troppo larga per un bambino spaventato, sicché non vidi la "vespa" scendere veloce da Via Miracoli, curvare, frenare, stridere e prendermi infine alla schiena, sbandando e riprendendosi senza fermarsi. Mi alzai rapidamente da terra, ma giunsi a scuola ammaccato e frastornato e fu così per giorni, con mio padre che se la prendeva ferocemente con l'Armata Rossa, mio zio comunista che difendeva ciecamente i sovietici e la gente concitata e impaurita dallo scontro per Suez e da Nasser, che aveva gridato: è la terza guerra mondiale. La gente si divise: i più disapprovavano con rabbia e temevano una guerra e a difendere i russie l'invasione rimasero in pochi. Una mia opinione me la feci anni dopo, quando l'armata liberatrice giunse a Praga e ruppi col Pci.
Non sono più il ragazzo, figlio di povera gente, che all'inizio del suo viaggio cadde a via Foria. Oggi sono vecchio e lo so: buona parte di ciò che ho avuto di buono nella mia vita è stato strappato dalla sinistra alla conservazione. Oggi lo so: fu un errore storico tacere ed avallare. I comunisti, che erano caduti coraggiosamente sui monti della Resistenza, lottando contro la dittatura nazifascista, ed erano, checché ne dica Pansa, un baluardo della democrazia, commisero un tragico errore. Nella ferocia seguita a Yalta, alcuni mentirono agli altri e molti ingannarono se stessi: la rivoluzione ungherese nacque socialista e libertaria e furono i carri armati sovietici a fare spazio alla destra. Sbagliarono. Si sbaglia sempre quando non si fanno i conti con la propria storia.
Fu un tragico errore. Si poteva dirlo a ragione: i gulag non sono il socialismo. Qui da noi non lo sono stati mai. E' venuto il tempo di domandare scusa a chi pagò, ma questo non vuol dire che la storia sia quella che raccontano Pansa, Fini, Vespa e Berlusconi. Tornassi indietro, combatterei di nuovo fino in fondo la mia battaglia nella sinistra e pagherei, così come ho pagato, i costi dello scontro. A destra però non passerei. A chi strumentalmente oggi ci fa processi sommari vorrei proporre in lettura lo scritto che segue, perché ricordi: gli ungheresi in rivolta erano socialisti e non hanno bisogno di certi avvocati d'ufficio.

"Socialisme ou barbarie" e la rivoluzione ungherese

Fondata nel 1948 da Claude Le forte e Cornelius Castoriadis, la rivista «Socialisme ou Barbarie» si ritrova perfettamente nell'insurrezione ungherese del 1956. Vede in essa la prima rivoluzione antitotalitaria.


Budapest, 23 ottobre 1956. Una manifestazione di solidarietà con i polacchi organizzata dai Circolo Petòfi, gruppo di studenti e intellettuali ungheresi, dà fuoco alle polveri. Chi sono gli insorti? Secondo Le Figaro si tratterebbe di militanti ansiosi di restaurare una democrazia all'occidentale, rispettosa delle leggi del capitalismo. Non è che lo strumento di propaganda del Partito comunista francese - che considera rivoltosi controrivoluzionari gli istigatori dell'insurrezione di Budapest - sostenga il contrario. I crimini dello stalinismo sono i già stati riconosciuti ufficialmente, ma imputati esclusivamente alle azioni di una torbida personalità. Anche la Prava aveva precisato che "il culto della personalità è un ascesso superficiale in un organo perfettamente sano del partito"; il proletariato e la rivoluzione restano al potere, non solo in Unione Sovietica ma i anche in tutte le "democrazie popolari". Come è possibile che in Ungheria il proletariato si rivolti i contro se stesso?
Spicca, per contro, l'originalità dell'analisi di una rivista comunista, Socialisme ou barbarie, marginale ma la cui influenza sarà particolarmente evidente nel maggio '68. "Organo critico d'orientamento rivoluzionario" (è il sottotitolo della rivista), Socialsme ou barbarie viene fondata nel 1949 da due dissidenti trotzkìsti, Claude Lefort e Cornelius Castoriadis. A partire dal dicembre 1956, dedica tre approfondimenti ai fatti ungheresi, ricorrendo a racconti, appelli e parole d'ordine diffusi dagli in¬sorti, sia studenti che operai.
Per Castoriadis, bisogna innanzitutto "allontanare la nebbia della propaganda, di cui ci si serve da una parte e dall'altra per nascondere la verità sulla rivolu¬zione ungherese, per mostrare quindi le vere correnti operaie e socialiste, di questa rivoluzione". Subito, le analisi aride e confidenziali di "Socialisme ou Barbarie" sembrano sposare gli obiettivi e le procedure degli insorti ungheresi. La rivoluzione dei consigli operai che prende forma a Budapest, Györ, Miskolc o Pécs, sembra in effetti confermare la pertinenza di un progetto rivoluzionario, al tempo stesso radicale ed egualitario. I fatti di Budapest, modello di una rivoluzione democratica, costituirono, secondo Lefort, la prima "rivoluzione antitotalitaria" e lanciarono la prospettiva di un socialismo che si opponeva all'ideologia leninista e a tutte le sue varianti.
Come la rivoluzione russa del febbraio 1917, l'insurrezione ungherese agisce spontaneamente. Il potere monolitico del partito-stato si sgretola in pochi giorni davanti all'insieme di movimenti selvaggi, "centrifughi" e autonomi. Questa rivoluzione socialista, "dai molteplici focolai", secondo Castoriadis e Lefort, si sviluppa lontano da qualsiasi avanguardia rivoluzionaria e contro l'idea stessa di una subordinazione a eventuali "professionisti" della rivoluzione. Così facendo, riabilita le forme politiche della lotta radicale: lo sciopero generate e la creazione dei consigli autonomi, operativi sulla base di una democrazia diretta. Allo stesso tempo intacca la formula del partito rivoluzionario, difesa da Lenin e Trotzki, inteso come organizzazione autoritaria e centralizzatrice che riserva a un'elite ristretta di saggi tutte le decisioni.
L'insurrezione ungherese mostra l'autonomia dei movimenti rivoluzionari, accogliendo l'idea ca¬ra a Karl Marx di autoemancipazione del proleta¬riato. Ed è qui che si colloca il cuore del marxismo eterodosso di Socialisme ou barbarie. Per quanto non garbi all'autore di Che fare?, la "coscienza so¬ciclista", lungi dal far nascere un sapere particolare riservato a un'elite, a un'avanguardia, sarebbe il prodotto di un'esperienza collettiva di lotta per il rovesciamento dell'ordine stabilito.
A partire dal 25 ottobre 1956, sostiene Lefort, "i consigli si diffondono in Ungheria, il loro potere diventa il solo potere reale, insieme a quello dell'armata rossa". Quindi, l'attività spontanea e radicale degli insorti mostra la loro creatività politica e sfocia nell'istituzione dei consigli operai. Questi non costituiscono forme politiche transitorie, bensì tendono a sostituire la logica centralizzatrice dello stato con una logica democratica.
Chi parla di socialismo dei consigli parla allo stesso tempo di controllo della rappresentanza, di volontà di arginare qualsiasi tendenza oligarchica, di speranza di prevenire le aspirazioni di autonomia del potere. L'adozione del mandato imperativo - che tutte le Costituzioni repubblicane francesi hanno considerato nullo e di cui nessuna grande formazione politica accetta il principio, neanche per il suo funzionamento interno - costituisce uno dei pilastri della teoria dei consigli. Mira a prevenire la separazione tra la minoranza che dirige e la maggioranza che esegue. Al contrario del mandato rappresentativo, instaura la revocabilità permanente di qualsiasi delegato: il rappresentante è tenuto ad applicare le istruzioni di chi l'ha eletto, mentre il mandato rappresentativo concede una totale indipendenza a colui che, una volta eletto, diventa una voce della nazione e non più quella dei suoi mandanti.
Il 28 ottobre, il consiglio di Szeged adotta la rivendicazione di autogestione operaia. Altri consigli o comitati di fabbrica (che proliferano in quel momento) seguono la stessa traiettoria, Il 2 novembre la Federazione della gioventù proclama: "Non renderemo la terra ai grandi proprietari fondiari né le fabbriche ai capitalisti". Per Castoriadis, la rivoluzione ungherese si avvicina al principio di anticapitalismo, che combatte gli stessi rapporti di produzione e non si accontenta, come invece il socialismo fa, dell'abolizione del regime di proprietà privata. Secondo Lefort, il regime staliniano aveva permesso agli operai ungheresi di arrivare a un'importante consapevolezza: "lo sfruttamento non deriva dalla presenza di capitalisti privati, ma, più in gene¬rale, dalla divisione all'interno delle fabbriche tra coloro che decidono tutto e coloro che possono solo obbedire". La statalizzazione dei mezzi di produzione - o la loro nazionalizzazione - non potrebbe in nessun caso conferire un carattere socialista alla produzione. Un simile errore aveva portato a coprire la realtà di un sistema di inaudito sfruttamento che nel 1956 gli ungheresi tentarono di fare a pezzi.
La rivoluzione di Budapest provocò numerose crepe in un edificio totalitario considerato invulnerabile. Fu l'occasione di un'invenzione democratica senza briglie e non equiparabile a quelle che Castoriadis chiamava le nostre "oligarchie liberali". Contro il totalitarismo, la rivoluzione. Una simile opposizione chiama in causa un filone della storiografia conservatrice. Quello che da François Furet a René Remond, confonde troppo allegramente gulag e fenomeno rivoluzionario.

Thomas Feixa - ricercatore in scienze sociali
(Traduzione di Al. Ca)

Da Le Monde Diplomatique, Il Manifesto Ottobre 2006


interventi dello stesso autore  discussione chiusa  condividi pdf

 Stefano Collatina    - 15-10-2006
Un modo davvero bello e coinvolgente per affrontare un tema tanto doloroso e scottante. Io sono nato dopo Budapest e Praga, ma mi basta Bagdad per dire che dietro le grandi parole si nascondono spesso le più tristi menzogne.

 Anna Pizzuti    - 15-10-2006
Nel 56 avevo sette anni, ma le immagini grigie del televisore da poco acquistato le ho ancora in mente. I combattimenti per le strade di Budapest, le macerie, i carri armati. Naturalmente capivo ben poco di quello che stava accadendo, ma a questo primo – e vago – di ricordo, se ne sono aggiunti, sollecitati da quello che scrive Geppino Aragno, molti altri.
Alcuni riguardano proprio il modo in cui, ancora quasi bambini, si viveva, allora, quello che accadeva nel mondo. Per quanto mi riguarda, ad esempio, il pericolo nucleare. Ne avevo fatto una sorta di nevrosi, ovviamente tenuta segreta. La voce dello speaker che leggeva le notizie alla radio tenuta accesa da mio padre mentre si faceva la barba al mattino e la sigla di Radio sera, il giornale radio delle 19.30, ad esempio. Angosciante, quest’ultima, perché sempre mi aspettavo notizie di esplosioni. Ma, con una fiducia infantile nei potenti del mondo, anche quelli nostri, mi rassicuravo: Parlano di quello che faranno domani, tra un mese, tra un anno; posso stare tranquilla, la bomba non scoppierà, c’è ancora un tempo da vivere.
Il giorno in cui le navi russe si stavano dirigendo verso Cuba lo vissi come un incubo che, ancora, ogni tanto ritorna. Un’attesa estenuante. Un sollievo forse più forte di tutti quelli che ho poi – per fortuna - provato, nel corso degli anni, dopo altre grandi paure.
Tornando ai fatti del 56, mi sono ricordata anche che, nel 69, quando avevo ormai venti anni, sono stata a Budapest. Durante la gita in battello, sul Danubio, mi sono ritrovata a chiacchierare con un signore che parlava un po’ in italiano. Faceva parte di un gruppo di gitanti. “Veniamo dall’URSS e siamo in viaggio premio” – mi spiegava – “per aver aiutato” – usò proprio questa parola – “gli ungheresi nel 1956”. Ora, per me, aiutare qualcuno, vuol dire tirarlo fuori da una situazione difficile, per cui, in un primo momento, ricordo di aver immaginato che questo premio lo avessero avuto per essere stati dalla parte dei rivoltosi. Ovviamente mi sono resa conto subito di quanto mi stessi sbagliando.
Se non altro perché era ancora viva - e tanto sarebbe ancora durata - la ferita dell’invasione della Cecoslovacchia. Esattamente venti anni dopo, proprio il 20 di agosto, ero a Praga. Ed ho assistito alla prima delle manifestazioni - in quella Piazza San Venceslao anch’essa vista mille volte, ancora in bianco e nero, in televisione – che avrebbero portato alla caduta del regime che aveva stroncato la primavera del 68. Una sorta di cerchio che si chiudeva anche per me, considerato che la prima manifestazione alla quale avessi mai partecipato, era stata, nel 68, proprio contro i carri armati a Praga. Ed era stato in quella occasione che avevo sentito, per la prima volta, scandire: “Ce n’est qu’un debut …..”
Lo slogan del ’68, appunto. Che mi riconduce al senso di quello che volevo dire, al di là dei ricordi.
La mia militanza politica si è svolta nel PCI, è iniziata nel 1972 ed è terminata nel 1983. Durante quegli anni di “invasioni” ne ho subite (l’uso della prima persona intende esprimere come le sentivo dirette quasi contro di me e contro il mio impegno) altre: l’Afganistan, la Polonia. Sempre ribellandomi perché, per usare le parole di Geppino: “i gulag non sono il socialismo”.
Ma nemmeno la storia è, come lui stesso scrive, quella dei Pansa, dei Vespa, dei Fini e dei Berlusconi.