Quando Dio cantò l'Algebra
Eugenio Scalfari - 14-10-2006
Un grazie a Pierangelo per la segnalazione, che vale la pena riportare nello spazio aperto del confronto e della libera discussione. Red


Quando la scienza osa superare i paletti che la Chiesa le pone finisce nel campo dei miscredenti

Quando trovo in un libro una frase o un verso che per qualche ragione mi colpiscono e mi danno emozione li trascrivo su un quadernetto. Ne ho già riempiti quattro e penso che siano troppi perché le parole e le frasi poetiche che veramente ti toccano nel profondo non possono che esser poche.
La mia raccolta comincia con due poeti e i versi sono: "...e gli occhi suoi, ridenti e fuggitivi" e "poi ch'io non spero di tornar giammai, ballatetta, in Toscana...".
La terza è tratta dal De Rerum Natura: "Nec ullam rem gigni patitur nisi morte adiuta aliena".

Sono più di vent'anni che annoto in quei quaderni. Lo faccio con crescente parsimonia e adesso, da qualche mese, non segno più nulla. Sono diventato pigro, oppure non trovo più alimento dalle mie recenti letture. Ma ieri, sfogliando quelle pagine come talvolta avviene con i vecchi album fotografici, ho riletto l'ultima delle frasi annotate. Sta nella prolusione letta da George Steiner in occasione della laurea a lui assegnata honoris causa dall'Università di Bologna. Cita Baal Shem, uno dei maestri del chassidismo: "La verità è sempre in esilio". E Steiner così prosegue commentando: "Meravigliose parole, immensamente ebraiche ma anche universali. Appena entrato in porto, Ulisse issò nuovamente le vele per un nuovo viaggio. Povera Penelope".

La verità è sempre in esilio. Per trovarla bisogna continuare il viaggio e la ricerca. Viaggio d'avventura tra genti ignote che non conoscono né i remi né il sale. Oppure viaggio dentro se stessi, più lungo e spesso più periglioso di quello tra le onde tempestose del mare. Se esso culminasse infine con la scoperta della verità ultima che tutto spiega e tutto ricompone, avremmo finalmente trovato il senso. Ma quest'approdo finale non è mai avvenuto sicché il solo ed unico senso possibile sta nel viaggio, nella ricerca mai coronata dal risultato, cioè nella vita in quanto tale.

La frase sulla verità che è sempre in esilio mi ha richiamato le recenti discussioni sulla verità ultima, suscitate dalla lectio magistralis di Benedetto XVI all'Università di Ratisbona. Se n'è tanto scritto, fin troppo, in questi giorni e anch'io ho portato la mia pietruzza a quell'immenso cantiere di parole. Mi sono guadagnato molte rampogne dai difensori della fede; uno di loro - un laico molto sui generis - mi ha accusato di dilettantismo teologico e di involontaria comicità. Sono i rischi che si corrono e ai quali ben volentieri mi rassegno quando si cerca di ragionare con la propria testa.

Resta il fatto che i fedeli delle varie 'curve sud' pensano di averla raggiunta, quella verità ultima, e si inquietano oltremodo se qualcuno contesta la loro certezza. Si amareggiano, si sentono derubati, esorcizzano il dubbio insultando l'interlocutore. Ma così facendo rendono ancora più incerta e labile la certezza che credono d'aver raggiunto, sulla quale è molto difficile poter riposare usando soltanto le categorie della ragione. Per rassodare quelle certezze non c'è altra via che rifugiarsi nella fede. Quella sì, chi ce l'ha vera e pura, non cederà al dubbio, respingerà le tentazioni del maligno e porterà in salvo la sua sofferta ma non scalfibile verità. Senza dover patteggiare con la ragione, poiché in quel caso uscirebbe perdente, a meno di non costruire una ragione ancella della fede; fatica tuttavia completamente inutile poiché la ragione nel proprio campo non può essere ancella di nessuno né accettare pre-supposti che limitino il suo ragionare.

Qui entra in gioco il rapporto della fede con la scienza. Anche la scienza, a differenza della filosofia, cerca la verità ultima, non maneggiando idee, concetti, parole, ma usando numeri, formule, equazioni, potenze. La scommessa della scienza è di scoprire la chiave capace di aprire tutte le porte, fino all'ultima che custodisce il numero d'oro, la formula finale, la legge che chiarisce e svela l'ultima incognita. Ecco perché la Chiesa non si sente insidiata dalla scienza: perseguono infatti lo stesso obiettivo. Non a caso Leibniz scrisse che "quando Dio cantò, cantò l'algebra". Leibniz era un filosofo ma anche uno scienziato, forse soprattutto scienziato come del resto Cartesio.

La Chiesa diffidava - ha sempre diffidato - di quei filosofi-scienziati che potevano manovrare due pedali del pensiero, quello filosofico e quello scientifico, escludendo dal circuito il pensiero teologico che ha Dio non come ricerca ma come premessa cui il pensiero dovrà comunque arrivare. Sicché, quando la scienza osa superare i paletti che la Chiesa le pone, allora anch'essa finisce nel campo dei miscredenti con tutti coloro che osano utilizzare il libero arbitrio senza rispettare la fonte divina che gliel'ha concesso. Libero arbitrio 'octroyé' equivale a 'servo arbitrio' di cui scrisse Etienne de la Boétie, l'amico del cuore di Montaigne.

A proposito di Montaigne mi viene in mente l'incontro di Pascal, da poco convertito e desideroso di entrare a far parte del gruppo dei giansenisti di Port Royal, nel gennaio 1655 con l'abate de Sacy, direttore spirituale di quel convento. Pascal gli dette conto delle sue letture filosofiche, concentrate sui testi neo-platonici e stoici, oltreché ovviamente sui testi di Sant'Agostino. De Sacy gli pose come condizione di abbandonare quel tipo di letture (Agostino escluso, perché tra i giansenisti di Port Royal il vescovo di Ippona rappresentava un punto di riferimento essenziale). Pascal cercò inutilmente di convincerlo dimostrandogli che neoplatonici e stoici erano propedeutici all'adesione alla vera fede e alla vera morale; ma il sacerdote fu irremovibile. Pascal obbedì e quello fu il sacrificio intellettuale che più gli costò. De Sacy apparteneva a quel tipo di fedeli che vedeva nel connubio tra fede e ragione un pericolo di corruzione intellettuale e di devianza.

Parecchi anni dopo il movimento di Port Royal fu colpito dalla scomunica con bolla papale, il gruppo di intellettuali giansenisti fu perseguitato e disperso, il convento fu chiuso dai dragoni del re e le suore trasportate a viva forza a Parigi. Quello fu, tra i tanti, uno degli episodi più disdicevoli e deprecabili del partito 'pietista' cui il Papa e il re diedero man forte nel nome dello stesso Dio che gli uomini e le donne di Port Royal adoravano senza l'ausilio della ragione ed anzi rinunciando volontariamente ad utilizzarla su un terreno che ritenevano fosse improprio. Dove si vede quanto sia soggettivo e privato il rapporto dell'uomo con Dio.

Eugenio Scalfari su l'Espresso

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