Non chiedetemi, perché. Non saprei che dirvi, non troverei parole per spiegarlo e non ci provo. Eppure è così: mentre il carrozzone massmediatico si scatena per Giorgio Napolitano che sale sul colle più alto della nostra - posso dirlo? - malandata Repubblica, a me viene in mente Massimo Troisi.
E non è certo perché - sarebbe onestamente facile e banale - si "
ricomincia da tre" ed è la terza volta che un mio concittadino diventa capo dello Stato. No. E' ben altro davvero.
Si dice: "
un ex comunista al Quirinale" e Troisi mi viene in mente com'era negli intensi fotogrammi finali del suo struggente "
postino" travolto dalla vita e dalla storia in una piazza corsa da manganelli e celerini. Ci penso e non so dire chi sia morto davvero in quella piazza: se il sogno d'un grande artista o il mondo di speranze di un uomo piegato nello scontro con la realtà. Non lo saprò mai, ma era la mia piazza e mi domando: è quello, è quel mondo che sale oggi al Quirinale assieme a Giorgio Napolitano? E non riesco a credere che Troisi e il suo postino oggi farebbero festa o vedrebbero in questo risultato una vittoria piena, vera, convincente. Festeggiare perché? Per Neruda che non ricorda? Perché salire al colle significa chiudere una pagina di storia? Non mi pare sia festa.
Non chiedetemi perché. Non so da dove cominciare, non trovo parole per spiegarmi e non ci provo. Giorgio Napolitano non se l'abbia a male, ma non so fare a meno di guardarlo sconcertato il Parlamento che lo elegge. Chi sono questi signori adunati sotto l'occhio tagliente e impietoso delle telecamere? Chi li ha scelti, loro che lo scelgono? Vantano appartenenze, sono di destra e di sinistra e c'è chi, attestato a centro, rivendica l'eredità di De Gasperi, e però chi li ha eletti? Votano, lo vedo, sono settimane che non fanno altro: si votano. Ma chi li ha votati? Più li guardo, più il disagio mi cresce dentro e si capisce: questo è il primo Parlamento della Repubblica in cui siedono deputati e senatori che non sono stati scelti dal popolo, ma dai partiti. E Napolitano - lo so sembrerà una bestemmia e perdonate - è il primo Presidente della Repubblica eletto da organismi che, l'ha scritto di recente un moderato come Gaetano Arfè, ricordano in qualche modo i Fasci e le Corporazioni. Un uomo di partito eletto da uomini di partito, in un Paese diviso che vive una drammatica crisi di quella politica, di cui i partiti dovrebbero essere la massima espressione.
Scrivo e mi torna in mente di nuovo Troisi. Stavolta sì, stavolta per quel suo "
Ricomincio da tre" che sarebbe titolo adatto ad una campanilistica gioia strapaesana. Ma c'è davvero poco da gioire. E' una favola bella che un presidente della Repubblica napoletano possa fare per la sua disgraziata città quel miracolo che persino un patrono potente come San Gennaro promette invano da secoli. Miracoli non ne fece Enrico De Nicola, che si fermò sulla soglia del "
listone", dopo che Bordiga lo sfidò ad un pubblico contraddittorio, ma si tenne il laticlavio del Senato fascista: non prese mai parte ai lavori dell'assemblea, in Senato non mise mai piede, ma non lo rifiutò e fu senatore negli anni del regime. Non a caso, il prefetto fascista Soprano lo scelse come punto di riferimento di moderati e "
uomini d'ordine", quando si trattò di concordare con Badoglio la maniera migliore di tutelare la borghesia nell'ora cruciale della crisi del regime e della corona. Miracoli non ne fece De Nicola e il trapasso divenne indolore.
In quanto a Leone, qualcuno dovrebbe ricordare il ruolo che svolse nella nascente Democrazia Cristiana, quando si trattò di decidere della defascistizzazione. Giurista di chiara fama - nel 1935 cercò ed ottenne cattedra nell'università fascista - fu acuto e puntiglioso, mise al servizio della sua parte la scienza del Diritto e teorizzò la più morbida delle epurazioni: colpire in alto, solo in alto, tanto in alto, che non pagò nessuno. Mancano studi approfonditi ed è impossibile dire quanto fascismo fu così traghettato nel cuore della Repubblica. Chi ha anni e memoria tuttavia lo sa: fu anche per questa via e grazie a oscure tutele, che Achille Lauro riuscì poi a mettere le mani sulla mia città. Fu questo il regalo maggiore che il futuro presidente della Repubblica fece alla sua Napoli.
Non chiedetemi perché. Non saprei che dirvi, non troverei parole per spiegarlo e non ci provo. E tuttavia è così: mentre il circo massmediatico si agita per Giorgio Napoletano che sale sul colle più alto della nostra infelice Repubblica, mi vengono in mente Massimo Troisi e il suo immenso e infelice postino: fu per avere un ex comunista come Giorgio Napolitano alla testa di una Repubblica malata che il pescatore procidano - e con lui l'artista eccezionale che ne ha raccontato la storia - si lasciarono uccidere in una piazza corsa da manganelli e celerini? Io sono convinto di no, anche se faccio i miei auguri a Giorgio Napolitano.
dal Manifesto - 18-05-2006
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Troppa grazia presidente
Andrea Fabozzi
È stato soprattutto un discorso al parlamento come unico luogo dove può esercitarsi la politica: può sembrare insufficiente a quanti hanno un'idea diversa, più larga, della partecipazione ma è probabilmente un bene che il nuovo presidente della Repubblica si presenti consapevole dei limiti del suo mandato. «Sobrietà e rispetto dei limiti» ha detto appunto Giorgio Napolitano che non sarà un capo dello stato da messaggi in televisione. Eppure sarà un presidente molto politico, dopo gli anni del grande tecnocrate Ciampi. Il discorso di insediamento è stato profondamente calato - persino dichiaratamente - dentro l'attuale quadro parlamentare. Semmai è lo schema interpretativo del presidente che è sembrato datato. L'Italia non è al 2 giugno 1946 che tutt'al più è un anniversario da ricordare. A parte risultare poco interessante per i cittadini delle Repubblica meno che senescenti, lo schema paese diviso - politica condivisa va malissimo per il paese reale. Può solleticare le parti più inclini al trasformismo, che infatti hanno reagito con entusiasmo. Ma se accolto sarebbe piombo nelle ali del nuovo governo e della maggioranza che ha prevalso nelle elezioni seppure - Napolitano ha puntualizzato - «lievemente». D'accordo: un presidente della Repubblica non può che invitare alla concordia e in questo senso Berlusconi resterà piacevolmente sorpreso dal nuovo presidente. Credesse un po' meno alla sua stessa propaganda il Cavaliere saprebbe da tempo che nessuno più di un ex comunista di destra può affezionarsi al ruolo del garante. Ma Napolitano è un parlamentarista convertitosi al maggioritario che ha parlato da bipolarista convinto. A parte il '46 le altre date che ha citato come fondanti sono state il '93, anno del referendum maggioritario, e il '94 quando le elezioni le ha vinte Berlusconi. Per questa via Napolitano ha spalancato ogni porta alle riforme costituzionali. Partendo dal presupposto, errato, che tutti i progetti di riforma portati avanti negli ultimi anni non hanno «mai messo in questione i principi fondamentali». Sulla distinzione tra prima e seconda parte della Carta ormai da tempo invitano alla prudenza i costituzionalisti più accorti. E basta guardare la devolution per avere la prova di come le modifiche ordinamentali colpiscano alla fine i principi. Così se modifiche andrebbero fatte alla Carta del '48 è precisamente per metterla al riparo dagli effetti del maggioritario, magari andrebbe ritoccato anche l'articolo 138 così che l'aspirazione alla condivisione possa risultare meno vana. Non ci è piaciuto Napolitano soprattutto per la volontà di riportare tutto su un terreno di larghe intese, anche oltre la ritualità del capo dello stato. Perché fatto in chiave politica prima che istituzionale. Con accenti da solidarietà nazionale più che nello spirito repubblicano. Ed ecco la Resistenza buona per gli applausi di sinistra ma anche per quelli di destra per via delle sue «aberrazioni». Ci sono piaciuti invece un paio di passaggi classicamente riformisti: non è poco di questi tempi sentir parlare di «giustizia sociale» o avvertire la preoccupazione per il lavoro esposto «alla precarietà e alla mancanza di garanzie». Bene anche il richiamo al ripudio della guerra e soprattutto quella notazione sul «grado di consenso» della missione italiana in Iraq giustapposto all'omaggio ai nostri caduti: in questo caso la differenze politiche non si potevano proprio nascondere. Peccato però che tutto questo debba passare in secondo piano davanti all'omaggio «deferente» al papa che nemmeno Napolitano ha saputo evitare. Aggiungendoci per buona misura un invito alla collaborazione tra stato e chiesa. Davvero troppa grazia.
17/05/2006 |