Cultura. Presentato ''La stampa del regime'', di Nicola Tranfaglia. Un'antologia per ricordare il passato e affrontare il futuro, essenziale a chi informa come a chi viene informato
C'è un modo di dire che circola tra i giornalisti nella sala stampa di Montecitorio: "Le veline non ci sono più, ma i velinari sono sempre presenti". Come a dire che, per quanto terminata con la fine di Mussolini l'esperienza delle "disposizioni alla stampa" dettate dal regime fascista, la libertà di informazione non può comunque dirsi al sicuro, ma ha la necessità di guardarsi costantemente le spalle, perché la sua indipendenza è sempre a rischio. Una questione che, a sessant'anni dalla rinascita dell'Italia come repubblica democratica, rimane di alta attualità e di fondamentale importanza tanto per chi informa quanto per chi viene informato.
Nicola Tranfaglia, nel suo ultimo libro, "
La stampa del regime", raccoglie i dettami inviati all'editoria dal 1932 al 1943. Perché se è vero, come ha ricordato l'autore nel corso della presentazione dell'opera - avvenuta due giorni fa presso il Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti a Roma - che "si può capire il passato partendo dalle domande del presente", è ancor più vero anche il contrario, ovvero che, per una giusta comprensione del mondo in cui viviamo, non possiamo prescindere da quella che è la nostra storia. E le famose "veline" fasciste, così chiamate perché venivano battute su sottilissima carta di riso e inviate in dozzine di copie, non possono non farne parte. Se ne è riso a lungo, col senno di poi, "ma la verità - ha affermato Gianni Faustini nel suo intervento - è che le veline non sono da sminuire, semmai da temere". Perché la verità è che prima l'Ufficio stampa del capo del Governo, quindi il ministero per la Stampa e la Propaganda, diretto dal 1935 da Galeazzo Ciano, infine il ministero per la Cultura Popolare, istituito nel 1937, esercitarono una rigida supervisione attraverso costanti ordini a quotidiani e periodici, con cui il regime proiettò un'immagine serena e ottimistica della situazione italiana, censurando la cronaca nera e il dissenso, l'inflazione e persino i temporali, demonizzando gli ebrei e i comunisti, esaltando la Germania e tentando di occultare i preoccupanti sviluppi della guerra durante i primi anni quaranta. Ci fu chi sostenne, più o meno in buona fede, che il controllo sulla stampa fosse blando e che in realtà si potesse sapere tutto. La stessa sigla del Ministero della Cultura Popolare, "MinCulPop", fu coniata con intenzioni satiriche e spregiative alla fine degli anni Trenta, quando il fascismo, dopo un periodo di diffuso consenso popolare, cominciava a mostrare segni di cedimento in termini di credibilità. Ma fu proprio in quegli ultimi anni che il controllo da parte del regime divenne uno strumento sfacciato e irrinunciabile.
Numerosi erano i mezzi governativi per "illuminare" il pensiero del popolo. Preziosa alleata era l'agenzia di stampa Stefani (resuscitata, dopo la seconda guerra mondiale, con il nome di Ansa), ma anche i documentari e i cinegiornali dell'Istituto Luce, la radio, fondamentale primo mezzo di comunicazione "moderno", non essendo ancora nata la televisione. La Direzione generale della stampa italiana compilava un rapporto giornaliero per il Duce, il quale controllava due volte a settimana la produzione dell'Istituto Luce. Gli autori sgraditi erano banditi, e l'immagine che più ricorreva dell'Italia era quella del Belpaese tranquillo ma pronto a risvegliarsi e lottare nel momento del bisogno. Per il cinema, come per l'editoria libraria, le maglie della censura erano più larghe, "ma le funzioni - ha ricordato Mario Morcellini, preside della facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza e anche lui ospite dell'incontro - erano diverse e alla stampa era attribuito un ruolo molto più prestigioso rispetto agli altri media". In effetti, il quadro più rappresentativo degli anni '30 e '40, ha concordato Tranfaglia, lo offrono i giornali, "mezzo di comunicazione allora più potente nel fare pressioni non tanto sulle masse quanto sulle classi dirigenti". La radio, ad esempio, diffondeva prevalentemente notizie brevi e i "discorsi del capo", e "non aveva l'elaborazione culturale dei giornali". Eppure, alla vigilia della marcia su Roma del 28 ottobre 1922, Mussolini godeva di un discreto seguito tra i quotidiani: l'appoggio scontato de Il Popolo d'Italia (da lui stesso fondato), delle testate nate fasciste e di altre presto "convertitesi" come Il Resto del Carlino di Bologna, Il Piccolo di Trieste o la Gazzetta di Venezia. Ma era presente anche un sostanziale avvallo della stampa liberale: emblematico che il Corriere della sera pochi giorni prima della Marcia parlasse "dell'esigenza di un governo con lo spirito liberale e la risoluzione fascista". Vista l'aria che tirava, l'allora presidente della Federazione nazionale della stampa, Salvatore Barzilai, inviava un telegramma a Mussolini affinché garantisse la tutela della libertà di stampa, e otteneva in risposta, il 2 novembre '22, che "superate le condizioni eccezionali del momento" era intenzione del Duce tutelare la libertà di stampa, purché la stampa si fosse mostrata "degna" di tale libertà. Va da sé che, nei giorni immediatamente successivi, molte redazioni furono assalite dalle camicie nere proprio per intimorire i giornalisti, che non dovevano "criticare" l'azione del fascismo. Era l'inizio di un ventennio di repressione dell'informazione.
Il pubblico di oggi - anche quello giovane, anzi soprattutto se è giovane - è, nella maggior parte dei casi, "vaccinato" dalla pubblicità a riconoscere e a considerare con salutare scetticismo i messaggi cui è sottoposto ogni giorno. Oggi, le metafore e le allegorie alla George Orwell, ove si parla di un Grande Fratello che controlla la vita e la coscienza dei cittadini, hanno avuto il loro effetto, diretto o indiretto. Oggi, l'espressione "lavaggio del cervello" è d'uso comune e tutti sanno più o meno in cosa consista. Tuttavia, alle volte, la cecità della classe politica e la passività dei giornalisti, che rielaborano in maniera più colorita qualunque lancio d'agenzia si presenti loro, possono farci ricadere nello stesso tranello in cui era caduta l'Italia settant'anni fa. La definizione di "Giornalista" preferita da Vittorio Roidi, uno che di giornalismo se ne intende, è di "colui che cerca la verità". Ma forse questa dizione va ampliata, perché giornalista è colui che cerca la verità, ma anche che non smette di dubitare una volta che l'ha trovata. Mai.
Vittorio Strampelli