Riprendiamoci il tempo, diamoci tempo, diamo il tempo!
Giacinto Verri - 16-05-2002
Il “tempo” è la dimensione propria dell’apprendimento o, meglio, della padronanza e della capacità/possibilità di esercitare competenze.
La misura del tempo, quale che sia, attesta e condiziona, fin dall’inizio, il successo o l’insuccesso…non solo nella scuola ma anche nell’ambito sociale.
Cieco è colui che intende i tempi della vita scolastica (per limitarci) come scansione di materie, apprendimenti, obiettivi, frequenze, verifiche.
Il tempo che il bambino trascorre a scuola è in tutti i sensi tempo di vita e come tale deve essere considerato e progettato.
Questa semplice considerazione supporta una visione del bambino che non viene a scuola solo per apprendere le materie, ma per scoprirsi anche attraverso le materie, per mettersi alla prova e tanto più quanto gli insegnanti stessi si mettono alla prova, ossia sperimentano.
Questa dimensione ha costituito un elemento fondante, fin dall’inizio, dell’esperienza del tempo pieno proprio in quanto, anche istituzionalmente, esso favoriva la visione di un bambino come tale e non solo come alunno (termine che andrebbe eliminato), calato nei suoi tempi, e di conseguenza, la messa in comune delle risorse dell’ambiente progettato per facilitare, rendere degno di essere vissuto il suo stesso apprendimento.
Cosa accomuna il tempo del bambino, il tempo pieno alla collegialità delle risorse?
Non sono le affinità o i punti di contatto (trasversalità, interdisciplinarità…) a determinare la necessità di una progettazione collegiale e scientifica (il termine programmare andrebbe limitato al puro formalizzare i contenuti e le procedure), ossia non sono, per porre un esempio accademico, gli ambiti a coniugare le discipline, le materie (la matematica e la scienza e il rapporto prioritario del linguaggio significante?), ma il tempo che esse investono, le dinamiche che supportano rispetto alle realtà, plurali e semantiche, della vita della scuola: organizzazione, tessuto territoriale, aspettative, capacità di relazione delle componenti….
La scuola che s’intende come parziale tempo del bambino è una scuola che non invita il bambino, non lo fa sentire appartenente…e basti constatare spesso la scarsa coscienza delle problematiche dell’intercultura, del disagio e dell’handicap.
La scuola che s’inventa, si proietta e investe e sperimenta sul bambino come tempo di appartenenza invece pone in essere contesti, situazioni altamente stimolanti, coinvolgenti e, in ultima analisi, apprenditive.
Forse la differenza non è di primo acchito così chiara…ma per me è ampia e vasta: un abisso tra, da una parte, tempo modulare, prolungato e, dall’altra, tempo pieno.
Proprio su questa variabile di comprensione, di validità la scuola in cui opero tutt’ora ha optato per la chiusura del tempo pieno e con motivazioni che davvero sconcertano: in realtà il problema reso visibile era quello dello scarso numero d’iscritti alla mensa e la falsa coscienza che il tempo pieno fosse uno strumento per dare lavoro ad altri colleghi, mentre il problema latente, reale, profondo era proprio la visione di un tempo scarso, di un bambino scarso, di una scuola scarsa.
Infatti dall’anno successivo alla chiusura del tempo pieno, il numero delle frequenze del tempo mensa è andato costantemente aumentando fino a raggiungere la metà degli iscritti alla scuola e a costituire un interessante problema di investimento improprio delle risorse scolastiche.
Ciò che si voleva evitare, ossia facilitare il rapporto famiglia-bambino, è rientrato dalla porta di servizio!
E altrimenti non poteva essere visto che la richiesta del tempo mensa (da non confondere con il tempo pieno) è comune a non poche scuole e riflette un’esigenza rinnovata di affidamento dei minori.
Quegli elementi per i quali si riteneva il tempo pieno ormai esperienza esaurita, sono stati decisamente sconfessati: depauperamento delle compresenze (della complementarietà, della sperimentazione, del lavoro in gruppi) ridotte a supplenze, dequalificazione del rapporto relazionale del tempo di investimento e progettazione, riduzione della scientificità del processo educazionale (ooservazione sistematica, controllo, feedback e via dicendo) e in fondo affermazione di un alunno (non di un bambino) che deve essere a misura della scuola (ossia delll’insegnante, del gruppo degli insegnanti, dell’organizzazione, delle materie e della dirigenza), del tempo della scuola.
Coloro che hanno avvertito questo rischio, d’incalcolabile conseguenza sociale, hanno cercato, forse non deliberatamente, di porvi rimedio attraverso l’autonomia scolastica e la riforma dei cicli (stupenda e unica a mio avviso).
In effetti a ben pensarci molto accomunava l’autonomia con il tempo pieno e uso il tempo verbale giusto, quasi del passato, in quanto, allo stato attuale delle cose, non può esserci autonomia, tempo dimensionale se non sussistono flessibilità organizzative, autonomie organizzative e didattiche, responsabilità educative, collateralità territoriali, in una parola sistematicità d’intenti e d’azione comuni, progettate, perseguite.
Con nostalgia (si fa per dire) rammento il gruppo degli insegnanti del tempo pieno teso ad una idealità che doveva diventare e diventava pratica, discorso, linguaggio, tensione, didattica educativa.
Come dire: se la didattica è l’arte del domandare e del domandarsi, l’educazione alla didattica è l’arte del saper porre più risposte, più esperienze, più anzi meglio la dimensione della pluriappartenenza del bambino.
Mi spiego: la scuola intende il tempo scolastico solo come proprio e non in attivazione, interazione, diciamolo, interattività, con il contesto sociale, culturale, territoriale, ossia intende il bambino come semplice alunno, come se oltre a questo non sussistessero tempi che danno tempo, occasioni che danno occasioni….mentre il bambino porta con sé, come singolo e come gruppo, le sue appartenenze multiple, appunto pluridimensione.
Nell’investigare il bambino, nell’investirlo non si proietta soltanto il tempo della scuola (come purtroppo sembra oggi avvenire), ma il tempo del bambino stesso, lo si condiziona e tanto più la scuola è modulo, tempo parziale e non tempo pieno tanto più questa proiezione è negante.
La validità del tempo pieno, insieme alla ricchezza dei tempi e delle risorse ad essi connessi, alla possibilità di agire su diverse dimensioni e contesti, consiste in questa visione del bambino! Non in altro!
L’autonomia organizzativa di cui il tempo pieno godeva, la possibilità di intersecare, interagire, intrufolare sembrano cose perdute, processi passati, di fronte all’emergere sostanziale di una burocrazia che dal provveditorato si è semplicemente autonomizzata negli istituti comprensivi, quali che siano gli ordini di scuola raggruppati.
Per chi opera con le divisoni il paragone è calzante: comunque la mettiamo 12 diviso 3 fa 4 , 12 diviso 4 fa 3 e gli elementi non cambiano, le funzioni non si modificano: il dirigente controlla e gli insegnanti eseguono!
Anzi laddove scuola media ed elementare sono comprensive (termine assai inadatatto) e il dirigente è un ex “preside” la scuola elementare ha fatto, in generale notevoli passi indietro e da ogni punto di vista: le risorse devono essere disciplinate per materie, il termine progetto non ha alcuna valenza e quindi di fatto nemmeno i bisogni degli alunni.
L’importante è garantire a tutti il tutto e non considerare il tempo pieno del bambino come tempo dell’alunno.
Ne titolo ho cercato di esemplificare quanto intendo; ossia senza riprenderci l’idealità del tempo pieno dell’alunno (i suoi bisogni), non possiamo rendere autonomie reali nè la didattica né l’educazione (darsi nel tempo dell’alunno) e quindi dare tempo (occasioni, percorsi, progetti, risorse, respiri) ai bambini.
Davvero un gran peccato sia per il tempo pieno che per l’autonomia!



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