breve di cronaca
La Piovra
l'Unità - 06-02-2006

Mi aiutano, per cominciare questo articolo, tre frasi tratte dalle tante e-mail ricevute nelle ultime ore. Non indico nomi dei mittenti (benché siano disponibili se necessario), e questo vi dice lo stato d'animo con cui scrivo questo articolo. Se il presidente del Consiglio di questo Paese, dicono le lettere di tanti cittadini, può impunemente attaccare con sprezzo e violenza un gruppo di magistrati, indicandone ufficio e funzione e ripetendo più volte la sua accusa (penalmente gravissima), è naturale che molti sentano improvvisamente di vivere in una realtà pericolosamente deformata. Chi non vuole cedere il potere sta alzando il tono della minaccia e poiché ha in mano molto potere pubblico e privato, è naturale sentire aria di pericolo.

Questo forse spiega perché così tanti, nella professione giornalistica cui spetterebbe fare da chiarificatori e da arbitri, si defilano.

Ecco le frasi. La prima: «Ho paura che vinca Berlusconi perché se vince Berlusconi dovrò vivere nella paura. Se questo politico-proprietario non trova argini o limiti ora che sta per uscire di scena, che cosa accadrebbe se rientrasse in scena nel pieno del suo potere?».

La seconda frase: «Perdonateci, forse esageriamo. Ma il silenzio mediatico nel quale vivono i cittadini, senza sapere o capire come può il capo del governo attaccare in quel modo i giudici, il Capo dello Stato e persino i giornalisti stranieri, dopo avere messo a tacere gran parte di quelli italiani, trasforma le performance di Berlusconi in un incubo».

E la terza frase: «Non ci è riuscito De Lorenzo. Non ci è riuscito Borghese o Gladio o la P2. Succederà che ci riesce Berlusconi?».

Nel corso delle ore trascorse da Berlusconi a "Porta a Porta", e che hanno originato un fiume inarrestabile e inarrestato di dichiarazioni, molti hanno notato tre passaggi che non si erano mai ascoltati insieme, in quelle costruzioni accurate e calcolate che vengono fatte apparire momenti irruenti di un comunicatore estroso. Se si collegano i passaggi, sparsi tra la sera e la notte del 31 gennaio, nel silenzio quasi completo dello studio di "Porta a Porta", occorre concludere che si tratta, invece, di un comunicatore efficace, la cui unica condizione è di non essere mai interrotto. Quella notte il primo ministro italiano - che ormai viene seguito con dettagliata attenzione anche dalla stampa internazionale, dopo l'improvvisa impennata di guerra totale a qualunque forma di opposizione o critica, compresi dunque i corrispondenti esteri in Italia - ha fatto sapere, (e ripetuto più volte) che esiste una sorta di piovra rossa (lui ha detto, come in apertura di un nuovo thriller, «un pentagono rosso») che è composta da un ferreo collegamento fra Cooperative, Pci-Pds-Ds, giunte rosse, toghe rosse, finanza rossa.

Ha dichiarato di essere il più grande perseguitato del mondo, perseguitato dai giudici rossi e dal governo rosso. E ha specificamente accusato i giudici di Milano di insabbiare deliberatamente le accuse e le indagini che coinvolgono le cooperative rosse.

Ha sbagliato giudici (l'inchiesta è a Roma) ma non l'obiettivo di fare guerra in modo esemplare. Come quando ha chiuso la bocca a Enzo Biagi. Il suo messaggio è ancora più pesante, ma è sempre lo stesso: io posso. Poi - come in un film sul malaffare - ha dichiarato il suo peso in danaro: «Valgo - ha detto precisando con cura - dieci miliardi di euro».

All'inizio e alla fine della lunga e incontrastata manifestazione elettorale, ha usato un classico argomento golpista. Senza pudore, senza alcun imbarazzo, l'uomo da 10 miliardi di euro (che vuol dire un potere infinito di comprare e vendere, una volta installato al centro del potere politico) ha narrato a rovescio la favola del lupo e dell'agnello. L'uomo che possiede tutto sta in basso e accusa Fassino e le cooperative rosse, e anche il giudice in pensione D'Ambrosio che osa candidarsi, di inquinargli l'acqua, lui che ha comprato o controlla l'intera sorgente di tutto ciò che è notizia.

Perché ho detto «argomento golpista»? Perché apparire il debole che non ne può più e chiama gli altri cittadini alla rivolta è stato tipicamente, classicamente, l'argomento degli appelli populisti alle armi in Germania come in Argentina, nel fascismo italiano come in quello spagnolo. Ci sono due differenze. Qui tutto è mediatico e tutto avviene sullo schermo. Sullo schermo bisogna mentire e sullo schermo minacciare.

Berlusconi lo fa assecondato da complicità e silenzio, e proprio per questo sta attento a piazzare una informazione quasi subliminare: «Attenzione. Io valgo 10 miliardi di euro. Non vi sognerete di pensare che ci si sbarazza facilmente di uno come me?». L'intimidazione funziona.

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Tutto ciò avviene dopo una attenta, minuziosa opera composta di due manovre: una è l'occupazione e la sottomissione dei media, cominciata nel momento in cui si è provveduto a licenziare pubblicamente e clamorosamente (con il sistema del dileggio, tipico della rivoluzione culturale cinese) alcuni tra i più importanti personaggi del giornalismo italiano, cominciando da Enzo Biagi.

L'altra mossa è l'accreditamento ossessivo e costante della Tv come il luogo della politica. Utilizzando in pieno e senza scrupoli la sua posizione di proprietario delle reti private e controllore delle reti pubbliche, gli è riuscito di imporre anche agli avversari una tv rigorosamente controllata (e in particolare uno spazio di quella tv rigorosamente controllata) come il luogo in cui avviene tutto il confronto politico e in cui si compiono tutti gli atti politici che contano, a cominciare da quel gesto truffa che è stato il «contratto con gli italiani», una serie di vantate e, in gran parte, irrealistiche promesse elettorali divenute «contratto» a causa del luogo, del modo e del notariato televisivo con cui sono state accreditate per gli elettori ridotti a "audience".

Berlusconi dunque dispone di un potere illegale (da presidente del Consiglio Silvio Berlusconi non solo controlla pesantemente la Tv di Stato, ma autorizza formalmente Silvio Berlusconi a utilizzare le frequenze pubbliche necessarie alle sue televisioni private) e ha deciso di usarlo tutto, con modalità che sono anch'esse illegali (invasione di tutti gli spazi, gli studi, i programmi, i tempi, in pieno periodo elettorale) imponendo alla audience, ma anche agli avversari e anche alle Istituzioni, di prestare attenzione non al suo governo o alla sua maggioranza o a un eventuale programma politico (che risulta del tutto inesistente) o a un rapporto sulle presunte realizzazioni di governo. Ma esclusivamente su se stesso, le sue doti, qualità, straordinaria capacità in tutti i campi. Per farlo è stato necessario offendere il presidente della Repubblica. Ciampi infatti si è accorto della deformazione grave nell'uso elettorale dei media e lo ha denunciato. Berlusconi lo ha definito «liberticida» (attraverso la definizione da lui data alla legge sulla par condicio invocata dal Capo dello Stato) e ha continuato la sua cavalcata solitaria fondata sul disprezzo di ogni regola, di ogni avversario e anche della massima istituzione della Repubblica. Per farlo ha dovuto insultare il presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, a cui ha attribuito, nel suo ossessivo monologo, la caduta del suo primo governo, come se Scalfaro avesse ordito un golpe.

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Una volta messo il Paese nella condizione di non poter ignorare una simile tecnica, prima di assoggettamento e poi di occupazione totale (se non altro per il fatto che il presidente del Consiglio è in grado di decidere ogni giorno e ogni ora qual è l'argomento che deve essere imposto all'attenzione degli italiani attraverso i telegiornali truccati), Berlusconi ha completato il piano con la mossa estrema. È una mossa disperata, se volete (perché certo è stata decisa mentre il premier era di fronte a pessime previsioni elettorali) ma imposta da una posizione di forza saldamente controllata.

La mossa è di scatenare, lui capo del governo, una campagna di opposizione. La sua è la chiamata alla rivolta contro «il potere rosso che soffoca la libertà a poco a poco fino a quando non vi accorgete più di essere stati privati della libertà» (testuale, "Porta a Porta", 31 gennaio, nel silenzio, forse stupito, dello studio).

L'originalità dell'affermazione non sta nell'accusa di pericolo rosso in caso di vittoria della opposizione. La nuova strategia è diversa. L'accusa è che il dominio rosso è in atto adesso e sta strangolando adesso il Paese. È lo stesso Paese nel quale, «sotto la dominazione comunista che ormai dura da cinquant'anni», lui «dal niente» è diventato uno degli uomini più ricchi del mondo. Ma lui chiama alla rivolta qui e adesso.

Ripeto e cito l'Ansa che cita Berlusconi da Vespa: «C'è un pentagono rosso composto da Pci-Pds-Ds, giunte rosse, magistratura rossa, finanza rossa e cooperative rosse. Ebbene su questo sistema le procure hanno insabbiato tutto, mentre nel 1994 noi siamo stati tagliati fuori dalla magistratura rossa di Milano con un golpe giudiziario».

Dunque «le polemiche assurde con il capo dello Stato sono servite a coprire Unipol». Come dire: anche Ciampi è complice. Aggiunge il proprietario dell'intero sistema dell'informazione italiana mentre entra ed esce da tutti gli studi televisivi che ha deciso di occupare: «Di tutto questo in Italia è proibito parlare. Ma io sono temerario perché mi sono schierato contro questo sistema».

È a questo punto che Berlusconi piazza il suo valore personale e imprenditoriale, benevolmente indicandolo in 10 miliardi di euro (Bloomberg, in un servizio tra divertito e indignato a firma Steve Sherer lo stesso giorno lo piazza più in alto, a quota 12 miliardi di euro). Poi, stando seduto sopra la tv di Stato che controlla, nel luogo appositamente costruito per definire il superpotere mediatico di dettare ogni agenda e definire ogni mossa, a partire dalle sue decisioni e dalle sue strategie, Berlusconi definisce se stesso l'agnello che sta a valle, ed è costretto a bere l'acqua inquinata del lupo comunista.

Come parlando in una Praga occupata dai carri armati sovietici, afferma (cito sempre l'Ansa dopo "Porta a Porta" del 31 gennaio): «È una cosa aberrante pensare di mettere in mano a chi ha fallito tutto nella sua professione il nostro destino, di pensare che della gente che ha fatto soltanto politica e dalla parte sbagliata, perché ha scelto l'ideologia comunista (e sappiamo a cosa ha portato) possa prendere in mano il destino mio, delle mie aziende e degli italiani». Notare la sequenza: gli italiani vengono per ultimi.

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I golpe possono non riuscire, ma la mossa - lo ripeto - è golpista. Primo, occupare le televisioni. Secondo, sollevare la ribellione contro un intollerabile stato di cose, che nessun altro avrebbe il coraggio di denunciare. Terzo, mostrarci tutti i suoi avversari come una banda corrotta, stracarica di potere, da cui bisogna avere il coraggio di liberare il Paese.

Quarto, usare l'arbitrio del potere mediatico per falsificare la storia, sovrapponendo un lontano passato che non ha mai riguardato l'Italia, e facendolo apparire il presente che bisogna combattere. Quinto, apparire fuori e contro il palazzo, descritto come già occupato dai comunisti. In tal modo Berlusconi dice, con la potenza di un immenso megafono, e stando al centro del potere, che bisogna smantellare il potere perché è nelle mani dei comunisti.

Basterebbe la satira a raccontare una simile storia, se la satira fosse permessa, e se il decorso regolare e civile della campagna elettorale non fosse stato buttato all'aria dalle mosse della strategia di opposizione totale del premier (contro Ciampi, contro Prodi, contro i comunisti e il loro «immenso soffocante potere»). Tutto ciò è reso possibile dalla totale occupazione delle televisioni e dal vasto silenzio dei giornali che sembrano non vedere, salvo eccezioni sporadiche, l'insieme del pericolo. Sono giorni che l'amico più stretto dell'imputato-condannato Dell'Utri e dell'imputato-condannato Previti, il leader della coalizione di governo che ha il suo pilastro in Sicilia nella persona di Totò Cuffaro, inquisito per sospetti rapporti di mafia, definisce «marcia la magistratura italiana».

Nella televisione sequestrata e nei media spaventati, quel che resta della par condicio aprirà (ma non subito, forse fra dieci giorni) alcune finestre mediatiche. Da quelle finestre l'opposizione potrà finalmente impegnarsi nello sforzo immenso di far tornare i cittadini stravolti alla realtà e verità dei fatti: ricchezza e potere e corruzione di Berlusconi premier. Lo farà con le parole chiare e dure di Fassino e di Prodi quando si sono trovati davanti alla sequenza stravolta della «par condicio» approvata dalla apposita commissione parlamentare. In quella sequenza è previsto che Berlusconi chiuda, da solo, la campagna elettorale, un fatto che non avviene, non è mai avvenuto e non può avvenire in nessuna democrazia. «L'Italia ha il più basso livello di libertà di stampa nell'Unione Europea», scrive Steve Sherer nel servizio giornalistico Bloomberg del 30 gennaio che si intitola «Berlusconi Media Blitz».

«Che politico è, mi chiedo, uno che non sente il dovere democratico di rispondere alle domande dei giornalisti, tranne quelli compiacenti?» dice David Lane, corrispondente da Roma dell'Economist.

«Lo speciale accesso di Berlusconi a Tv e radio italiane sarebbe considerato oltraggioso in ogni altro Paese europeo», dice Peter Popham, corrispondente da Roma dell'Independent.

«Non mi stupisce questo attacco, dopo quello che Berlusconi dice costantemente della stampa italiana», dice Christian Spillman, corrispondente da Roma della France Press.

«Preferisco non dire come definiamo in Germania chi parla così dal mattino alla sera», dice Heinz Joachim Fischer, corrispondente da Roma del Frankfurter Allgemeine Zeitung.

Prendiamo atto di non essere soli. Tuttavia, in un momento come questo, avremmo voluto ascoltare la voce di tanti colleghi italiani. Non a sostegno di una parte. Ma in uno scatto di rivolta a difesa dei colleghi della stampa estera che hanno dovuto difendersi da soli. E a sostegno, unito e immediato, del presidente della Repubblica che sta chiedendo civile, uguale accesso ai mezzi di comunicazione di massa. Per il momento, va notato con tristezza, non è accaduto. Per il momento l'Ordine dei Giornalisti ti chiama a rendere conto se sei accusato di dire male di Bruno Vespa.

E tutto ciò accade mentre Berlusconi non ha ancora vinto. Qualcuno vorrà provare a immaginare il dopo?

Siamo certi, non accadrà. Ma la paura continua ad attanagliare molti italiani e la prudenza continua a bloccare l'Italia giornalistica. Leggeremo una parte di ciò che è accaduto nella vita italiana di questi anni soltanto nelle corrispondenze di alcuni giornalisti di altri Paesi. Quando proviamo a farlo noi c'è sempre un collega niente affatto di destra, niente affatto schierato, che è pronto a definirti «girotondino, radicale, furioso», solo per avere detto, esattamente e testardamente, le parole dei colleghi di altri Paesi dove i governi, di destra o di sinistra, sono normali. Intanto Berlusconi indisturbato batte manate sul tavolo dello studio di Rula Jebreal, a La7, e grida: «Per Dio, non lo vedete il pericolo?».
Noi lo vediamo.

Furio Colombo
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