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Un popolo di avvocati
Repubblica Bari - 19-12-2005
«Ci sarà pure un giudice a Berlino» è una famosa battuta teatrale che, fuori del suo contesto, annovera una metafora esclamativa: ci sarà pure un tribunale equo anche per i poveri, i diseredati, i lontani dal potere cui il trono restituisce sotto forma di protezione regale il diritto ad ottenere giustizia. Insomma, per dirla con Lope de Vega, «il miglior giudice è il re». Questo, naturalmente, quando i giudici sono inaffidabili e corrotti o nel caso i giudici non esistano e ad esercitare nei tribunali siano gli stessi governanti contro di cui, talora, è costretto a ricorrere il suddito.

Ma i cittadini hanno sempre creduto che quel nome, Palazzo della Ragione, che battezzava gli edifici della Giustizia, fosse a buon titolo concesso per quella parola piccola e solennissima: Ragione. Quale che sia stato il motivo etimologico di quell´appellativo, io l´ho sempre trovato rassicurante. E, infatti, quando il giudice e la giustizia fanno il loro lavoro in autonomia e senza impedimenti o attentati alla loro opera o condizionamenti di sorta, la Libertà vive serena.

Lo diceva, con altre più eleganti parole, Robespierre. Più eleganti, certo, di queste che seguono. Una storiella corriva, ma gustosa, gironzolava per le facoltà di Giurisprudenza ai tempi miei, non arcaici e, credo, gironzoli ancora: siamo nello studio di un avvocato famoso e ne sono protagonisti il principe del foro in questione e il suo cliente. L´avvocato esordisce così: «Qui, caro mio, abbiamo ragione noi, e, indubitabilmente, li battiamo». Rincuorato il cliente risponde: «Bene, avvocato!». E l´altro, proseguendo nella lettura, «Qui hanno ragione loro e ti battono». «Ahia!» reagisce il cliente non senza preoccupazione finché il principe aggiunge «Qui, caro mio, abbiamo ragione noi e, indubitabilmente, li battiamo». «Meno male!» tira un sospiro di sollievo il committente. Finché «Ahia, ahia! Qui hanno ragione loro e ti battono» taglia corto il legale. È troppo, il cliente ha capito: «Avvocato, scusi, mi spieghi una cosa. Ma perché quando li battiamo stiamo insieme e quando vincono loro, battono solo me?».

A dire il vero il famoso avvocato non diceva "battere", ma usava una locuzione plebea che era praticata dopo aver frequentato certe scuole severe (sezioni maschili) o dopo il casermaggio della naja, impareggiabile apprendistato di maschio idioma. La locuzione si articolava sul verbo "mettere" (dove, s´intuisce) o sulla variante concettuale connessa di "fare un c. così" con accessorio di gestualità da bottiglieria. E, a seconda del torto o della ragione, l´avvocato individuava l´appartenenza del "c." Che, comunque, non era, mai suo.

La storiella riassumeva e, ch´io sappia, riassume la considerazione che in Italia si ha del rapporto con gli avvocati: un misto di ineluttabile fatalità che ci costringe a tenere con essi relazione e scetticismo rassegnato sull´efficacia della loro opera. Quando "si va dagli avvocati", è opinione indiscutibilmente popolare, si è già sconfitti. Mi viene in mente la opinione di Jerome, il celebre scrittore umoristico inglese che diceva: «Se un malnato mi ferma per strada e mi intima di consegnargli l´orologio, io tento di difenderlo anche colluttando e chiamando aiuto. Ma se un tale mi ferma per strada e proditoriamente mi impone di cedergli l´orologio, minacciandomi, in caso di resistenza, di ricorrere in tribunale e dagli avvocati, io glielo consegno immediatamente, ringraziandolo e scappo via, convinto d´essermela cavata a buon mercato».

Nella terra di Cicerone, si sono affermati troppi azzeccagarbugli. E, nei secoli, hanno affollato, costoro, le sale del potere, non solo i fori. Il sospetto c´è che lo sterminato giacimento di leggi in cui si smarrisce, con il cittadino, anche il senso della giustizia, sia sedimentato da una democrazia rappresentativa rappresentata da troppi avvocati e uomini di legge. I quali medesimi sono sbigottiti dall´immensità della fatica di interpretare le stesse leggi che hanno inventato. Per non parlare delle procedure e dei metodi che sembrano aver eretto una ciclopica armatura per sorreggere l´edificio della vita collettiva e che molti temono che tenga in piedi solo se stessa. Dio ne guardi, naturalmente, dalle critiche distruttive e a scopo di qualunquismo disperato: è solo la preoccupazione civile che ci fa allarmare. Questa s´allerta nel contemplare il mistero doloroso dell´interminabile lavorìo che implica il ricorso ai tribunali, la lunghezza del corso della giustizia, la presenza, spesso, invasiva di avvocati e studi legali in troppe marachelle politiche e amministrative e le frequenti vicende oscure in cui il cittadino si sente dire: «Qui ti battono loro». Loro chi?

Michele Mirabella
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