breve di cronaca
Nelle aule fredde in cerca di identità
Premessa al racconto: in questo momento mi trovo in Francia per motivi di studio. Qualche giorno fa, uscendo con dei ragazzi parigini, ho chiesto che cosa pensassero degli abitanti del Bel Paese, perché avevo la curiosità di sapere quali fossero gli stereotipi più diffusi. Ed è così che sono giunta ad una mirabolante scoperta: signori, noi italiani «esageriamo sempre». Sempre? In che senso? «Mais oui, quando parlate, in quello che fate...» Ora, non so se questo sia davvero il pensiero corrente dei francesi oppure no, però la cosa mi ha fatta riflettere. Sì, perché nel bel mezzo del mese di ottobre, mentre intrattenevo con i garçons questa interessante conversazione, a Como gruppi di liceali protestavano per il freddo nelle aule e per i caloriferi spenti; due pensieri, allora, mi hanno attraversata in sequenza. Il primo: Forse è vero che abbiamo la tendenza a estremizzare un po' le cose, la sede universitaria in cui mi trovo ora ha qualche problema legato all'amianto e nessuno sembra fare una piega. Il secondo: andiamo, il fatto che qui se ne infischino allegramente della propria salute non significa necessariamente che a Como i ragazzi non abbiano ragione, denota solo uno scarso senso civico degli studenti di Parigi. A questo punto, però, volevo approfondire la cosa; arrivata a casa, i prodigi della nuova tecnologia mi consentivano di contattare immediatamente gli amici. «Cioacomestaituttobene.. Senti ma è vero che a Como fa così freddo?» «Beh, sì, in effetti è davvero freschino..» (trionfante, sapevo che doveva esserci un buon motivo per protestare) «Cioè nemmeno indossando un maglione in più la situazione diventa sostenibile?» «No, beh, non dico questo.. Forse con un maglione in più...» Va bene, ho capito, è la solita storia; tutti gli anni, più o meno in questo periodo, arrivano le proteste studentesche; e tutti gli anni, più o meno in questo periodo, si riaccende il dibattito sul mondo giovanile, con schieramenti in un campo e nell'altro. Da una parte quelli che li appoggiano, dall'altra quelli che tirano in ballo «la scarsa attitudine ad affrontare la fatica del vivere». Che il fantomatico disagio giovanile sia reale, è evidente: l'Italia è uno dei Paesi con la più bassa natalità del mondo, e ne derivano delle famiglie con uno o al massimo due figli, defratellizzate. Il problema è che in questo modo si è persa la capacità di relazionarsi con gli altri, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: si resta in casa sempre più a lungo - sì, lo so che c'è tutta la questione della precarietà del lavoro e del costo del settore immobiliare, sono giovane anch'io - e quando si arriva al matrimonio, alle prime difficoltà c'è il rischio di divorziare. Si vive solo nel presente perché il futuro è troppo incerto, è qualcosa che non sembra potersi realizzare. I giovani hanno sempre avuto la necessità di formare dei gruppi, è una fase dell'adolescenza ed è cosa buona e giusta: ma oggi, forse, sono troppo soli, hanno bisogno degli altri e non riescono a dire "no". Anche perché, diciamocelo francamente, siamo in una società in cui il "no" è qualcosa di eccezionale. Allora, forse, il problema non è l'eccessivo freddo o caldo nelle aule: il punto è che, nell'unione, questi ragazzi cercano di creare una propria identità, con la quale possono permettersi il lusso di affermarsi, di fare quelli che non ci stanno. Non si tratta semplicisticamente di voler saltare qualche giorno di scuola, per quello ci sono le "bigiate"; è una questione di definizione di ruoli, di dire «sono un adulto e conosco i miei diritti». Compito del ragazzo è opporsi a quello che vede come un grigio mondo istituzionale. E compito degli insegnanti e dei presidi è far restare gli studenti a lezione, anche se per questo dovessero tutti essere costretti ad indossare il cappotto, così che lo scontro possa continuare. Continuate così: a ciascuno la sua parte.

Rachele Bianchi Porro

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