La mia scuola
Vincenzo Staiano - 22-10-2005

Davanti al liceo classico di Brescia, c'è una ringhiera. È posta proprio di fronte al portone principale di modo che l'entrata e l'uscita degli studenti e dei professori è possibile solo da destra e da sinistra, non per vie centrali; così fatta pare un ostacolo, ma la sua vera funzione è di proteggere gli studenti, che lì si accalcano, dal traffico delle auto della strada vicina.
Innumerevoli volte, finita l'ultima ora di lezione, mi sono ritrovato in quella confusione e mi ha sempre fatto pensare come tutti gli studenti una volta davanti a quella ringhiera risolvessero l'amletico dilemma di scegliere in quale direzione andare - destra o sinistra? - senza difficoltà. Certo la scelta sarà stata condizionata dalla meta da raggiungere: il pranzo pronto a casa, l'auto di qualche genitore in attesa parcheggiata sul marciapiede, le fermate degli autobus o delle corriere... tutti sembravano avere un posto da raggiungere e la ringhiera quasi ne facilitava il defluire delle persone.
Spesso e volentieri mi sono seduto proprio su quelle sbarre di metallo, perché per me avevano un significato maggiore. Durante gli anni del biennio erano il punto di ritrovo con i compagni di classe, che ci fosse caldo o freddo non aveva importanza. Ricordo ancora i compiti copiati o i ripassi di date e luoghi mai visti, prima di entrare nella classe-trincea. Le chiacchiere seduti in bilico su quella ringhiera davano la sensazione di essere diventati finalmente grandi: i tempi della scuola media, magici ed estremamente spensierati, erano finiti e la tensione quotidiana data dai voti, dai nuovi professori, ma soprattutto dalle nuove regole comportamentali - i rapporti formali e burocratici della scuola media superiore - facevano percepire la via verso la maturazione, l'ingresso nella società dei grandi. Ad ogni modo le cose erano cambiate.
Poi gli anni del triennio, sempre più desiderati dopo aver patito due anni di torture sotto forma di interrogazioni e verifiche a sorpresa. Con la fine del biennio questa costante volontà dei docenti di esaminare l'apprendimento dei loro allievi subiva una metamorfosi: la verifica rimaneva ma la si poteva programmare anche con largo anticipo, in base alle necessità sia della classe (come qualche corso di recupero o impegni extrascolastici) che del professore (settimane bianche o malattie di qualche sventurato figlio). Lì si era finalmente più liberi dalle pressioni della vita scolastica; come un elastico che a forza di tenerlo in tensione, si logora e perde la capacità di recuperare la forma di partenza, così gli studenti crescendo conoscono meccanismi di devianza e diventano meno sensibili a futili norme di disciplina.
I rapporti con i professori tendevano a mutarsi con il passare del tempo per diverse ragioni. Sta di fatto che ci si poteva persino fermare anche oltre il suono della campanella che annunciava la fine di una ricreazione, per non parlare di intere ore trascorse in cortile con qualche compagno durante le belle giornate. Alcuni professori lo permettevano e noi non ci lasciavamo sfuggire l'occasione. Le regole che al biennio condizionavano lo stare a scuola, al triennio venivano smascherate: tanti formalismi che a nessuno importavano realmente. Era così per la consuetudine di alzarsi in piedi all'entrata dei professori, o per il fatto che non si potesse gironzolare per i corridoi, come il non entrare e/o uscire mai da scuola senza autorizzazione o gli orari scanditi dalla campanella, suono che sembrava aver perso negli anni la sua capacità persuasiva sulle abitudini degli studenti. Tutto ciò aveva perso di senso, se non per pochi insegnanti conservatori e molto attenti alla disciplina, e quindi il mio impegno nel rispetto di tali norme era andato scemando, così come per gran parte dei miei coetanei.
Ma ogni piccola trasgressione, perché di questo si trattava, aveva origine da trasgressioni più grandi. Già dai primi anni ogni dicembre c'era la protesta studentesca incarnata in occupazioni, autogestioni, o in altre forme di contestazione negoziate con docenti e preside. È in queste situazioni che tutte le componenti della scuola entravano in conflitto tra di loro, in una sorta di riscoperta manichea del Bene assoluto per la Scuola. Il preside "don Abbondio" che si preoccupava solo di difendere il buon nome della sua scuola davanti ai genitori e alla cittadinanza ("in questa scuola c'è la crema della società" mi dissero quando mi iscrissi al primo anno), o più semplicemente si preoccupava di non aver problemi, di nessun genere. I professori, gran parte del collegio docenti almeno, che si davano pensiero solamente dei programmi da portare avanti -sempre indietro rispetto alla tabella di marcia - e delle valutazioni che con l'approssimarsi della fine del quadrimestre acquisiscono sempre un valore maggiore. Gli studenti nelle due varianti, i crumiri da una parte, che «a scuola ci andavano per studiare», e gli impegnati (nel vero senso della parola date le ore in più passate a scuola oltre a quelle - sempre minori - passate sui libri o in classe) che tentavano di risollevare le sorti della componente studentesca, «sbeffeggiata e senza voce in capitolo nelle decisioni del Consiglio d'Istituto». Infine i bidelli, o collaboratori scolastici, che con le contestazioni non volevano avere niente a che fare, perché aumentavano solo la mole di lavoro, dato che gli studenti sporcano e rompono tutto quello che gli capita sotto tiro. Tutti insomma avevano qualcosa di cui preoccuparsi.
Ma un dicembre fu straordinario nella mia scuola, perché la storia cambiò e fu percepita da tutti coloro che contribuirono a farla. Le cose furono radicalmente diverse: primo anno del governo Berlusconi e tutte (o quasi) le scuole della città si unirono alla contestazione nazionale. Era il 2001, le torri di New York erano state abbattute e gli Stati uniti minacciavano la guerra del Bene contro il Male, il ministro dell'istruzione (così osano chiamarla) una certa Letizia Moratti che aveva in serbo, come da programma elettorale firmato pubblicamente con gli italiani (!?), una ControRiforma che avrebbe sconquassato la Scuola pubblica italiana, a favore di quella privata: insomma, sembrava il dicembre del 999 ("Mille e non più di mille!"), la fine del mondo.
Sta di fatto che quell'anno si occupò la scuola, dopo trent'anni di autogestioni e proteste stentate. Ma non fu un'occupazione come quelle dell'immaginario comune: per noi che occupammo il nostro istituto, fu la massima trasgressione motivata e pianificata dopo tanti sforzi, sacrifici e pene di tutti quei ragazzi che da mesi, dalle ceneri di Genova, avevano creato un coordinamento cittadino tra tutte le scuole bresciane, la "Rete studentesca". Quell'occupazione lasciò in coloro che ne fecero parte un segno indelebile, così che ancora oggi molti la ricordano con nostalgia. Più volte ho riletto i documenti dei rappresentanti di allora al Consiglio d'Istituto, in cui si dichiaravano ufficialmente i motivi e le richieste che gli studenti avanzavano ai docenti. Quell'anno gli studenti provarono realmente ad autogestirsi e a fare Scuola in maniera rivoluzionaria.
Poi la Rete si sciolse, per motivi che non ho mai compreso e tutto il movimento che ne stava nascendo se ne andò a farsi benedire come se niente fosse successo.

Tante volte con un amico, compagno di classe, progettavo una vera occupazione: da scontri con la polizia, da barricate fatte di quelle stesse sedie e banchi dove la quotidianità scolastica ci opprimeva, da controffensiva reazionaria dei docenti sempre più schierati dalla parte dei programmi ministeriali piuttosto che dalla parte degli studenti, da passamontagna al portone per impedire l'entrata ai nemici dell'occupazione, manco fosse una rivoluzione in un piccolo Stato incarnato in quelle quattro mura del '700 che è la mia scuola. Quella era la mia Scuola. Una lotta permanente contro tutte le ingiustizie e le regole senza senso, contro tutti i soprusi che ogni giorno si nascondono dietro la porta di una classe e più in generale dietro il portone dell'ingresso della scuola. Da ciò ne sarebbe scaturito in tutti, studenti e professori, quel senso di appartenenza ad un unico genere dalle sorti comuni, che avrebbe posto i presupposti per cambiare la Scuola, in meglio naturalmente.
Erano sogni allora e lo sono tuttora, ma sempre meglio di una realtà anacronistica e sofferente, quale la mia scuola reale, che cercava di stare al passo con i tempi comprando computer o che, cercando di colmare lo scarto con realtà, si era abituata a convivere con una situazione di ingiustizia quotidiana. Confermata dal silenzio degli insegnanti alla domande degli studenti, dalle punizioni ridicole («niente gite!», così ci punirono per una protesta di alcuni studenti) per gli errori commessi da ragazzi che urlavano il loro malessere; dai tentativi di repressione all'unico mezzo di confronto politico degli studenti, il giornale studentesco (visto che le forme istituzionali erano ormai prive di valore da un pezzo: assemblee d'istituto poco sentite, collettivi inesistenti per non parlare dello stesso Consiglio d'Istituto morto e sepolto).
Insomma tutto ciò accadeva nel mio istituto, e questa invece era la mia scuola.


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