Il generale Messe
Giuseppe Aragno - 15-10-2005
La scuola superiore che ricordo da studente era un groviglio di contraddizioni. Classista e selettiva, privilegiava disciplina e nozione e poteva anche andar bene a chi aveva le carte in regola per frequentarla. Mi ci trovai per sbaglio - a quei tempi cominciava a capitare sempre più spesso a chi viveva di poco - per l'ostinazione appassionata di mia madre. Se n'era fatta una questione di vita o di morte che a scuola continuassi, lei, autodidatta, che per bisogno prima, per passione poi, aveva calcato con molto onore le tavole del palcoscenico e s'era ritirata, dopo aver rifiutato una "scrittura" del grandissimo Eduardo: mio padre riteneva che nella vita d'una donna stimabile il teatro non ci fosse posto per il teatro.
La preparazione per l'esame di ammissione - ce ne voleva uno perché ai proletari era riservato a spese dello Stato solo l'avviamento professionale - costò ai miei genitori una stretta di cinghia che arrotondò le entrate di un giovane procuratore legale. Cominciai che l'Armata Rossa entrava a Budapest e Che Guevara iniziava con Castro la rivoluzione cubana - mentre i computer a transistor si preparavano a mandare a casa le schede perforate - e me ne andai che il Sant'Uffizio - c'era ancora, ma chi se lo ricorda? - rinnovava la scomunica ai comunisti e la rivoluzione vittoriosa portava il guerrigliero Guevara alla testa della "Banca National": un Draghi rivoluzionario che poi sarà ministro. Ogni tempo ha gli uomini che merita.
Avevo la testa piena di declinazioni, recitavo D'Annunzio coi pastori d'Abruzzo e Omero, tradotto da Monti, mi aveva incantato per sempre con l'umanità del suo Ettore alle porte Scee. Devo dire che Achille non riscuoteva che rari consensi: operai o borghesi, venivamo da una guerra devastante, ferite dentro e fuori e il consumismo che s'annunciava non aveva ancora spento ricordi e umanità. Tranne i fascisti convinti e clericali codini, ognuno coltivava nell'anima una scintilla di solidarietà che faceva luce nel buio più profondo. Dei grandi dolori collettivi, la scia che più tarda a morire è la speranza.
Credo che Napoli avesse allora un solo liceo scientifico - il "Cuoco" si diceva in città - ma pochi sapevano che era intitolato al grande storico della rivoluzione del '99 - e non era affollato. Quella piccola parte di classe lavoratrice che aveva i figli a scuola nella élite del "superiore" puntava a "un titolo di studio finito" perché sperava di trasformare al più presto lo studio in lavoro. Era ad un tempo subordinazione di classe, problema di vita concreta e questione di censo. Geometri, ragionieri e periti era quanto di meglio si potesse sperare ed era un'impresa quasi impossibile. Posto perciò ne trovai subito, ma era un mondo chiuso e dentro - lo appresi a mie spese - si combatteva sordamente una battaglia di democrazia.
La scuola - ogni scuola - è figlia del suo tempo. Il mio fu tempo di conquiste della classi lavoratrici. E la battaglia passò anche per la scuola. Una volta si diceva: non è "portato" per la matematica. Mia madre, che aveva l'acutezza d'intuizione che hanno gli artisti, contestò subito la formuletta becera che mi bollava. Ma l'arte e la cultura non hanno ascolto nei palazzi del potere se non sono servili - "Cultura! Cultura! Ne avete paura! scandivano ieri i nostri teatranti fuori Montecitorio" - e il potere, nella scuola superiore che mi vide studente, era dalla parte degli insegnanti che contrabbandavano per scienza la storia delle intelligenze che sono "portate".
- Non è portato per la matematica!
Quante volte gliel'avrà detto, pace all'anima sua, l'ex gerarca ch'era in cattedra al Cuoco, e quante volte mia madre rintuzzò come poteva quella menzogna, ma Goebbels aveva ragione: una menzogna ripetuta mille volte diventa una verità. Fu vero, quindi, che io non ero "portato" per la matematica e falso che pagavo il prezzo di una battaglia politica. Troppi grilli per la testa con la tessera di giovane comunista in un liceo che riconosceva cittadinanza solo ai giovani missini del Fronte della Gioventù, che poi sono andati al governo della repubblica antifascista. Così, tra un'assemblea illegale per il "rappresentante di classe" e un rapporto con sospensione per ragioni di disciplina, mi trovai in un gruppo di teste dure che camminava in salita.
La scuola - ogni scuola - è figlia del suo tempo. Il mio fu tempo di conquiste della classi lavoratrici. E la battaglia passò per la scuola.
Attorno alla cattedre di italiano e di storia e filosofia ci raccogliemmo in un gruppo sparuto e, senza far retorica, demmo filo da torcere al campo avverso. Entrò nel liceo a vele spiegate il testo del comunista Salinari e tutta la letteratura che è stata, che è e che sarà io l'ho imparata in quegli anni; trovai le chiavi di lettura e l'animo di un giovane, per aprirsi, non chiede che questo: una chiave che lo aiuti a leggere il mondo come gli pare. A vele spiegate la lezione di Dante si levò veramente nell'empireo. Tecce era il mio professore - a Napoli la scuola ha conosciuto il sindacato andandogli appresso - ed aveva cultura gramsciana. I missini si sfaldarono e giungemmo persino a sentire sospiri ammirati. Benigni col suo Dante non stupisce chi fu in quella trincea.
La storia contemporanea non feci a tempo a studiarla. Il quinto anno di liceo non l'ho mai frequentato, ma tra il terzo e il quarto anno la storia ce la insegnò Mario Benvenuto, reduce dalla tragedia dell'Armir, socialista e studioso di Marx, che non aveva pari nell'aprire la mente d'un giovane.
- Se incontrate il generale Messe - ci disse a inizio dei suoi corsi - dategli un calcio in culo e ditegli che ve l'ha chiesto il vostro professore. Dite Benvenuto e il calcio se lo tiene.
Di più ideologico c'era solo l'insegnamento della matematica, impartito dal fascista, di cui ricordo bene il cognome e non lo faccio. Dico solo che era preparato e apertamente feroce. Provocava perché dalla sua parte stava il potere. Avrei potuto starmene zitto, ma non lo feci e sapevo che l'avrei pagata. Ferii così profondamente mia madre e feci molto male a me stesso, ma fu anche una grande lezione di vita.
A partire da Messe e dalla tragedia dell'esercito italiano in Russia, feci storia contemporanea per due anni, se parlammo di Serse o provammo e ragionare del Re Sole: storia contemporanea sempre e comunque. Ed io, che di storia del nostro tempo oggi un poco mi intendo, ho imparato da quel professore l'essenziale. Sono venuti poi maestri celebrati d'accademia, ma in quei due anni ho incontrato la storia.
Lasciai il liceo, perché non c'era voto alto nelle materie letterarie che potesse ribaltare la sentenza inappellabile della matematica: tra scritto e orale, la media del tre.
Ho odiato ed amato quella scuola, nella quale ho imparato persino la matematica dal professore fascista - sapeva insegnarla, anche se mi costrinse a lasciare - e ci ho riconosciuto un principio: una società esprime un modello di scuola. Quel modello e non altro. Entro il modello poi agiscono, con una fedeltà speculare a ciò che accade all'esterno, forze, istanze e bisogni.
Certo, gli attori sono quelli di sempre - ragazzi, insegnanti, il personale non docente, le famiglie - e si muovono come possono e sanno, con quanto può esserci di buono e di cattivo, le punte alte e quelle basse, ma il copione lo scrive il mondo nel quale essi vivono.
Oggi il mondo è quello che è: trionfa il neoliberismo e quando gli estremi si toccano, le differenze sono somiglianze. Come in ogni momento della storia, tuttavia, entro le istituzioni nate per la conservazione - e la scuola è tra queste - cresce fatalmente un'alternativa. Una generazione si forma, per le vie e con i mezzi che ha, entro la realtà che trova e se crede la cambia. Prima o poi i nostri ragazzi cambieranno la scuola, perché cambieranno il mondo. Lo faranno e ci chiederanno conto di quello che stiamo combinando. Quando accadrà sarà molto difficile parlar loro di governance, governement e autonomia. La "scuola del silenzio" troverà voce per urlare.
Vorrei avere un respiro ancora per poter sorridere.
interventi dello stesso autore  discussione chiusa  condividi pdf

 Remo Lipari    - 16-10-2005
Tu non sei certamente banale e sono d'accordo con te. Da questa classe dirigente c'è poco da sperare.

 ilaria ricciotti    - 17-10-2005
....abbiamo avuto, abbiamo e avremo soltanto guai,
ci si sente schiacciati, repressi. E liberi? Giammai!!!


 R B    - 19-10-2005
"Moratti e Berlinguer. gli estremi si toccano e le differenze sono somiglianze". Potrebbe sembrare incredibile, purtroppo è vero!

 paolo paolangeli    - 28-07-2007
Mi sono trovato a leggere questo articolo per caso, mi interessa la campagna di russia, e mi trovo sostanzialmente d'accordo, però, purtroppo nella vita c'è sempre un però, oggi nella vita ci troviamo a subire le verita di altri e, volente o nolente, dobbiamo accettarle non perche è oro che cola quello che dicono gli altri, ma perche la vita è una scuola che nessuno ti pùo cancellare, nel 68 il salto di qualità che ha fatto la sinistra è dovuto al fatto che c'èra il dialogo, bene o male, con il popolo, cosa che oggi manca.
Il fatto sarà perché la sinistra non era ancora forza di governo? oggi ci troviamo a, e non puoi immaginare quanto me ne duole, a dover accettare ciò che ci dicono i massmedia visto che il dialogo manca visto che le sedi opportune sono chiuseI
il linguaggio usato da chi ci governa, destra o sinistra, è incomprensibile alla maggior parte del popolo, mi sembra come nei vecchi tempi quando i medici scrivevano le ricette in latino per non fare capire al popolo ciò che c'era scritto, ora tutto sta scadendo nel qualunqusmo, cosa che serve solo alla borghesia, dato che più il popolo è ignorante e meglio loro governano, basta che la domenica c'è la partita.
La gente vuole capire, il sociale sta sparendo, il pubblico sta sparendo in favore del privato, e la scuola questo non lo dice.
Oggi mi trovo a dire che non mi importa se una cosa la fa la destra o la sinistra l'importante è che si faccia per il popolo senza mezze verità e bisogna spiegare il perché non si fa.