breve di cronaca
L'identità degli studenti e le amnesie dei professori
l'Unità - 04-10-2005
Mi capita qualche volta di dimenticare nomi e cognomi dei ragazzi. Non so perché. Li guardo, li riconosco, ma non so più in quell'istante che nome abbiano. Una dimenticanza per mia fortuna circoscritta, attribuibile forse alle nebbie del mattino presto o a un sovraccarico di stanchezza, quando certe parole appaiono straniere e irriconoscibili, o forse dovuta in parte alla loro arbitrarietà e inverosimiglianza: Matrisciano, Borgogelli, Massimiani, Monteferrante. Li dimentico perché non hanno una relazione di senso, almeno per me, con le persone che ho di fronte.

Ciò che io vivo come arbitrario, tuttavia, per i miei alunni è il luogo dell'identità, che faticosamente in questi anni si costruisce. Con i loro nomi, per quanto astrusi, intrattengono una relativa confidenza. Se per errore indico un ragazzo col nome di un altro, quindi, vedo dipingersi sul suo volto la delusione per la mia disattenzione inattesa, mista a un vago sentimento di poterla improvvisamente perdere, quell'identità che pensava salda.

L'anno scorso mi è capitato in più di un'occasione di confondere il nome di un ragazzo con un altro. Cattivo segno per me, certo. E infatti lui mi guardava come se fossi rimbecillito: «Professore io sono Andrea, non Daniele». Ma anche come se quel nome che gli assegnavo in qualche maniera lo contaminasse. Nel momento in cui lo chiamavo Daniele si sentiva precipitare in una condizione ibrida. Assimilato a un ragazzo che aveva forse delle caratteristiche che lo riguardavano, diversamente da ciò che lui pensava e desiderava.

Andrea ce la stava mettendo tutta per essere Andrea. Per essere uno simpaticissimo e terribile. La madre mi aveva rivelato: non è come le appare in classe, muto e invisibile, come cioè io lo descrivevo. No. Andrea è un compagnone, sempre disposto a scherzare, a fare baldorie, ad essere al centro dell'attenzione. Com'era possibile, si chiedeva lui, che potessi confonderlo con Daniele? Cosa c'era che lo rendeva simile all'altro? Già vedeva negli occhi dei compagni di baldorie aleggiare il dubbio: e se il professore avesse intuito ciò che cercava di tener nascosto? Poverino, si era voluto vestire dei panni di Andrea e sotto era rimasto un semplice Daniele. La sua identità, di colpo, si perdeva in quella dell'altro. Il quale invece, nel momento in cui sostituivo al nome del compagno il suo, si voltava verso di lui con fare amichevole e confidenziale, come per condividere quella insperata fraternità. L'uno arrossiva di sdegno e mi implorava con lo sguardo di correggermi, e capire in quale terribile equivoco fossi incorso, mentre l'altro, il tontolone abulico, si inteneriva e sorrideva. Quando non ricordi il nome di un ragazzo lui si sente un po' tradito. Non considera che ne hai centinaia in mente e che qualcuno, di tanto in tanto, può sfuggirti. Per te lui deve essere unico. Non puoi non riconoscerlo.

Una mia vecchia alunna, pochi giorni fa, è all'improvviso riemersa dal limbo dell'indefinitezza in cui l'avevo abbandonata. Cresciuta e cambiata, mi è apparsa di fronte sorridente, nella nuova veste di persona adulta, ma con delle caratteristiche che rimandavano alla ragazza di un tempo. Aveva un fare amichevole e una memoria di ferro. Conservava un ricordo nitido di me e degli altri insegnanti e sembrava addirittura che mi fosse riconoscente per qualcosa. Non c'era più nulla nel suo sguardo della repressa avversione con la quale a scuola accoglieva le mie valutazioni, quando pensava che gli preferissi l'altro, l'altra. Non diffidava più. Pronta ad aprirsi perfino a possibili confidenze e a raccontarmi ciò che era, ciò che aveva fatto nella vita. Ma io purtroppo non ricordavo il suo nome. Frugavo inutilmente nella memoria, e mi chiedevo come fosse possibile ricordare tanti episodi di quegli anni e aver dimenticato il suo nome. «Nomen omen». Nel nome, il destino. Imbarazzato, ho evitato la circostanza di doverlo pronunciare, provando un senso di disagio per quella che avvertivo come una colpevole trascuratezza.

Che cancellandone i caratteri suoi propri e trascinandola nel pozzo nero dell'anonimato, mi impediva di essere autenticamente partecipe delle sue confidenze, della sua vita.

Luigi Galella


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 Anna Pizzuti    - 06-10-2005
Nel mio terzo serale ho quest’anno una ragazza albanese, molto bella e dolcissima. Si chiama Edjola ed io ci tenevo molto a ricordare il suo nome. Impegno purtroppo disatteso già dal primo giorno di scuola. Alla mia incertezza risponde “Mi chiamo Edda; ho deciso così, perché nessuno ricorda il mio nome”. Mortificata dalla lezione, l’ho subito appreso – il nome vero - e lo pronuncio ogni volta che posso, come messaggio di riconoscimento per lei e come regola per gli altri.
Non solo con il nome esotico di Edjola, però, ho avuto problemi. In realtà sovrapporre, confondere è stata una mia caratteristica. Mi sono trovata di fronte reazioni simili a quelle descritte dall’autore dell’articolo, ma mi è accaduto anche qualcosa di diverso.
Per quattro anni ho chiamato Angela una Daniela. Analizzando il problema insieme a lei, le ho confessato che l’unica giustificazione per l’errore stava in un mio cortocircuito mentale: la forma del viso, i capelli, il colore degli occhi me la facevano associare ad uno degli angeli dipinti da Benozzo Gozzoli. Daniela ha accettato il suo nuovo nome, al punto che, quando ci siamo rincontrate, anni dopo, di fronte alla mia espressione persa : “Sono Dan … stava per dire, ma poi no Angela” ha scelto e mi ha fatto uno dei regali più belli – l’affettuosa accettazione - che ho ricevuto, da insegnante.
L'articolo di Galella, però, è stato per me come un sasso nell'acqua, che ad anelli aggiunge anelli.
Da quattro anni una delle mie principali occupazioni è quella di seguire l’affannoso ed affannato percorso della riforma Moratti, penetrandola – direi – come posso, in tutti i suoi meandri e smascherandola – sempre come posso - passaggio per passaggio, comma per comma.
Con passione, certo, ma senza potermi impedire di sentire l’aridità, la mancanza di anima che questo tipo di analisi finisce per contagiare, quasi per un effetto alone. Di avvertirle come un tradimento, che da linguistico rischia di diventare emotivo, della passione stessa.
Passione per la scuola, dico, e per i nomi/identità/destino di ciascun singolo alunno, ragazzo o adulto che sia.
La scuola reale la cui stessa identità/destino viene messa in discussione a partire dal nome che le si dà.
Identità/destino messe a rischio anche dalla confusione che regna tra gli oppositori alla riforma. Confusione, ambiguità, che nascondono un arroccamento per me incomprensibile, che leggo – e vivo - con una profonda rabbia (non uso mai questa parola, la detesto, ma ora è quella giusta).
Non cerco un appiattimento, un “dimenticarsi di sé” impossibile ed ingiusto. Ma avevo creduto che questi anni di lotta avrebbero creato ed insegnato un nuovo modo di stare insieme, fondando l’identità/complessità su una base comune: l’ascolto. Tra di noi. Conservare il proprio nome/identità, ma riconoscere anche quella dell’altro.
Una rete, mi sembrava dovesse e potesse essere la forma nuova di lotta: i cui nodi fossero i ruoli ed i luoghi – istituzionali o meno – di ciascuno,capaci di creare voci, non voce, comuni. Ciascuno risorsa per l’altro.
Mi chiedo – piuttosto disperata - se siamo ancora in tempo.

 giancarlo    - 29-11-2005
Caro Luigi, io mi trovo nella tua stessa situazione.non riesco a ricordare nè i nomi nè i cognomi dei miei alunni ma in più non sono per niente fisionomista.
Ricordo perfettamente,anche a distanza di anni la persona e tutto ciò di cui abbiamo parlato (se interessante) ma ASSOLUTAMENTE niente del suo viso a meno che non abbia una particolare espressione.
Ma questo mi accadeva anche da piccolino, pensa che io ricordo tutti i miei piccoli amici ma solo nelle loro espressioni ma non i volti.
Questa situazione mi crea problemi a scuola e per tutto quello che anche tu hai notato ma pensa che io da piccolino, a scuola, non ricordavo il cognome di quasi tutti i miei piccoli compagni.
Ti prego non pensare che magari sono un pò tonto, tanto per rassicurarti sonono laureato in matematica e anche in sociologia.
Io per ricordare dei numeri devo razionalizzarli ad esempio 80423 io lo ricordo in questo modo 8:4 =2 e dopo il 2 c'è il tre.
sembra complicato ma per me è l'unico modo di ricordare, ma questo non mi è possibile per i volti.
Che sia un problema psicologico visto che mi accompagna dall'età della ragione.