Milano, quella contesa sulla scuola araba
Alba Sasso - 28-09-2005
La vicenda della scuola araba di Milano parla di noi. Della miopia dell'occidente, della difficoltà di coniugare, qui e subito, l'emergenza quotidiana con la scommessa di "un altro mondo possibile", con i pensieri lunghi sul nostro futuro.
La questione dell'integrazione a scuola è la prima difficile prova degli slogan "felici": combattere le diseguaglianze, valorizzare le differenze. È l'esempio più immediato e concreto delle difficoltà più generali dell'integrazione dei migranti, del confronto e della convivenza possibile tra culture, valori, idee del mondo, comportamenti.
Perciò è questione da affrontare con delicatezza, arrendendosi al dubbio, rifiutando certezze affrettate e pensieri semplificati. Proprio il contrario di quanto fanno i dibattiti televisivi. E che non sia questione facile da affrontare, e risolvere, lo dimostra il fatto che ognuno sembra stare nella casella sbagliata, come in un impazzito gioco dell'oca.
Moratti e Pisanu a difendere la scuola pubblica, gli amici e compagni di "rete scuola" a sostenere la scelta, in questo caso, della scuola paritaria, gli enti locali divisi. Unica a non allontanarsi dal suo viscerale e agghiacciante razzismo la Lega.
C'è un'emergenza. Circa cinquecento bambini che rischiano per quest'anno di non andare a scuola. E dietro le scelte del Comune di Milano pensieri diversi dai nostri. Che nascono anzi da un'idea opposta. Quella di non permettere agibilità in nessun modo a una cultura che fa paura, che si vorrebbe cancellare o almeno allontanare dal sacro suolo della patria. Suggerendo il corto circuito tra scuola islamica, madrasse (scuole coraniche) e poi chissà, terrorismo o giù di lì.
E allora si decide di chiudere quella scuola con una scusa, i servizi igienici non a norma. Quante altre scuole in Italia sono in condizioni analoghe: dovrebbero chiudere tutte? Ma, non è colpevole solo di ipocrisia il Comune di Milano. È colpevole di aver permesso che, per anni, in quella zona, i bambini arabi evadessero la scuola. Perché la questione non è stata affrontata prima?
E come mai nessuno si è chiesto perché nasce così pervicace la scelta di una scuola separata, se tanti altri bambini islamici a Milano e in tante altre parti di Italia frequentano la scuola pubblica?
C'è un'opinione pubblica di buon senso che suggerisce una strada saggia. Si faccia una scuola paritaria, sottoposta al controllo del ministero, che si adegui ai programmi della scuola italiana. Ma allora - mi viene un pensiero che non condivido - si diano anche a loro i finanziamenti che si danno, impropriamente a tutte le altre scuole paritarie. Il Comune di Milano rispetti le leggi e trovi una soluzione. Si tratta di salvaguardare il diritto all'istruzione di bambine e bambini. E d'altra parte sono sempre esistite le scuole cattoliche e le scuole ebraiche. Che problema ci sarebbe. Ma, il problema, a mio modo di vedere, c'è. Nasce dalla consapevolezza che la strada dell'integrazione è impervia e che alle volte occorre arrendersi a soluzioni di emergenza, anche se sono fuori dagli schemi di pensiero che ci appartengono. Ma se da questa emergenza nascesse una consuetudine destinata a durare nel tempo?
Questa storia non può essere accantonata, non ci può essere tregua nell'impegno a costruire una cultura dell'interculturalità, della reciprocità, a trovare le strade, anche le più diverse, per praticarla. Per renderla possibile.
C'è un punto non negoziabile, una questione alla quale non mi rassegno: che l'integrazione possa avvenire per separazione. Secondo appunto l'idea del melting - pot. Dello stare accanto, come separati in casa. Come avviene in tanti paesi europei, come avviene negli Stati uniti.
Non è in questa direzione che hanno lavorato le scuole e gli insegnanti in questi anni. A Mazara del Vallo, per fare un solo esempio, i bambini tunisini nella scuola italiana incontrano anche la propria cultura e la propria religione. A Milano con pazienza gruppi di insegnanti ammorbidiscono le resistenze dei genitori migranti, la loro paura ad entrare nella scuola di un paese che sembra respingere, e in alcuni casi respinge, la loro cultura e traghettano tante bambine e bambini nella scuola pubblica. E gli esempi potrebbero continuare. È questa la strada su cui si dovrebbe continuare a camminare, con rigore e tenacia.
Qualcuno, invece, dovrebbe spiegare perché sono stati sottratti i fondi alle scuole per continuare questo lavoro e perché sono stati ridotti pesantemente di numero i mediatori linguistici (gli insegnanti) che svolgono questa funzione. Questo la dice lunga sui valori della destra, sulla loro idea di integrazione come gerarchia tra culture.
La verità è che questa vicenda è la punta di un iceberg e che parla di noi. Del sapere della scuola, spesso a una dimensione. Degli arroccamenti identitari. Della paura di perdere "quota". Della difficoltà di sapersi arricchire della cultura degli altri. Quando la finiremo di insegnare solo il risorgimento italiano a egiziani, cinesi, capoverdiani?
"Il sapere- dice Amartya Sen- è un bene molto particolare, più se ne dà, più se ne riceve. La crescita della democrazia, lo sviluppo del sapere, della scienza sono, in senso lato, lo sviluppo di quella condivisione"Non si tratta allora solo di accogliere. Anche se già sarebbe tanto, o di tollerare. Si tratta di virare. Di gestire le contraddizioni con pensieri nuovi. Con l'idea della reciprocità. Dello scambio e contaminazione di culture come condizione di crescita della cultura stessa. Con esercizi pazienti e miti, come direbbe Franco Cassano, di "approssimazione". "Mirati, se non ad abolire, a trasformare e mitigare l'azione dei meccanismi di difesa dell'identità" provando a riconoscere "la plausibilità" del punto di vista dell'altro. Pensieri deboli, pensieri forti? Non saprei dire. E se fossero pensieri lungimiranti, necessari e fecondi?

n.b.: il pezzo è presente su Aprileonline
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 da Corriere.it    - 30-09-2005
Troppi stranieri, toglie il figlio dalla scuola

La donna lamenta la composizione della classe in cui è finito il figlio: 8 extracomunitari e 9 italiani. Ha paura per l'integrazione

CEVA (CUNEO) - Su 17 bambini, 8 sono extracomunitari. E allora via, mio figlio lì dentro non ci può stare. È accaduto alle Elementari «Galliano» di Ceva, in provincia di Cuneo, dove una giovane madre ha trasferito suo figlio in un'altra scuola elementare dopo aver saputo della forte presenza di immigrati nella classe frequentata dal figlio. Il bimbo, iscritto alla seconda elementare è stato portato via dalla donna, che l'ha iscritto nella scuola di un paese vicino.

La madre tiene subito a precisare: «La mia non è stata una scelta dettata da motivi razziali, ma di contestazione al modo in cui sono state formate le classi seconde». Le sezioni A e la B della seconda elementare hanno tutti «allievi originari di Ceva», come li chiama la donna, e pochi ragazzi extracomunitari. «Mentre la terza, quella di mio figlio - spiega - è formata da otto stranieri e nove bimbi cuneesi».

La donna si è rivolta al dirigente scolastico: «Ho chiesto spiegazioni sul perché di tanto divario nella formazione delle tre classi e la risposta è stata che la composizione avveniva senza tener conto della provenienza dei bimbi» Temendo per l'integrazione, ha preferito spostare il figlio.

Il dirigente scolastico risponde così alla decisione della madre: «Dico solo una cosa: per me i bambini sono bambini e basta. Ribadisco che la formazione delle classi è avvenuta senza tener conto della loro provenienza o nazionalità».





 Pietro Digonzelli    - 02-10-2005
Bella storia quella che descrivi
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È colpevole di aver permesso che, per anni, in quella zona, i bambini arabi evadessero la scuola. Perché la questione non è stata affrontata prima?

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Vuoi nascondere cosa succede in alcune zone della nostra bella Italia?