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Verso lo stato totalitario
Giuseppe Aragno - 24-09-2005
Il premio che la Fondazione Buozzi ha pensato di assegnare al recente libro di Ferdinando Cordova - Verso lo stato totalitario, Soveria Mandelli, Rubbettino, 2005 - è ampiamente meritato non solo perché, come scrive la giuria, dal volume "emerge con forza la necessità della presenza, in uno stato democratico, del ruolo attivo e sollecito di in sindacato libero e non corporativo. Un sindacato in grado cioè di essere baluardo della democrazia ed anche interlocutore attivo di una politica attenta ai diritti dei lavoratori".
C'è ben altro e va detto. Intanto la scrittura, che è limpida e non ha sbavature; una scrittura convincente, che senza levare mai i toni e senza cedere a tentazioni polemiche, costruisce un saggio capace di tornare sul tema del "consenso" tanto caro a Renzo De Felice, mostrandone tutti i limiti e le forzature. Cordova - ed anche questo va detto - è stato allievo di De Felice, un allievo via via più indocile e insofferente che è giunto poi a contestarne apertamente la lezione. Gli rimane, dell'antico maestro, il rigore della ricostruzione, la ricchezza della documentazione, la finezza della lettura. L'insegnamento di De Felice, tuttavia, se lo è lasciato alle spalle - e questo volume ne è una chiara e lucida una testimonianza - quando la polemica revisionista con la "storiografia ideologica" dell'antifascismo militante si è fatta a sua volta ideologia; quando, per esser chiari, De Felice non solo ha preteso di narrare i fatti, senza offrire "chiavi di lettura" ma, quando ha preso a ricostruire eventi miserabili e, per dirla con Gaetano Arfè, non ha mai levato lo sdegno a "elemento del giudizio storico" quasi che mettere a tacere il momento etico sia testimonianza di scientificità.
Cordova non entra mai in polemica diretta col revisionismo, e tuttavia il suo saggio non solo ne scardina il sostanziale "giustificazionismo", ma ne rivela la natura ideologica alla luce di una documentazione inedita e rigorosa che chiude il presunto consenso nei limiti di iniziali speranze, di ambigue complicità e di ambizioni personali: a leggerla con attenzione, ne viene fuori una lezione che riguarda da vicino il presente ed è un monito per il futuro.
A partire dalle leggi fascistissime del 1926, lo stato totalitario è pensato e costruito come strumento di controllo e repressione delle classi lavoratrici; il partito e il sindacato, la Carta del Lavoro varata nel 1927, il progressivo svuotamento di ogni reale dialettica contrattuale, l'intero sistema insomma, sono elementi di un disegno finalizzato al conseguimento di un solo obiettivo: asservire le classi lavoratrici al padronato. Parlare di "consenso" di fronte ad un sindacato unico che è parte integrante dello stato totalitario è del tutto fuorviante. Eliminato il conflitto dalla dinamica delle relazioni sindacali, l'autorità dello stato, ma sarebbe meglio dire la forza dello stato, diventa uno spurio surrogato della "conciliazione", l'elemento di sintesi degli interessi contrapposti del lavoro e del capitale, che o trovano composizione nell'equilibrio prodotto dalla "lotta", o segnano la fine della contrattazione e, quindi, dei diritti dei lavoratori. Dietro l'implicita polemica storiografica col revisionismo, è impossibile non cogliere l'attualità politica del tema e i rischi reali ai quali è esposta la democrazia quando la filosofia del sindacalismo di classe cede terreno a logiche corporative.
Sono, però, e questo conforta, logiche perdenti, tant'è che Cordova può agevolmente smantellare il teorema defeliciano del "consenso", ricostruendo gli episodi di lotta - ma sarebbe forse meglio parlare di "resistenza" - dei lavoratori nell'arco del ventennio. D'altro canto, sul piano anche solo lessicale, consentire vuol dire soprattutto operare libere scelte in base ad elementi certi. Nell'Italia fascista, chi sceglie e sfugge allo squadrista e all'olio di ricino, conosce la galera e il confino. De Felice sembra dimenticarlo. Cordova ce lo ricorda e ci ricorda anche quanto peso abbiano, nel consolidare il regime e nel decidere della lotta per il potere al suo interno, la stampa totalmente asservita e ridotta a fare da cassa di risonanza delle scelte del capo: c'è di che riflettere in tempi di forte personalizzazione della politica e di rischiosa concentrazione di mezzi di informazione nelle mani di un presidente del consiglio. Emblematica, in questo senso, la vicenda personale di Edmondo Rossoni, ex socialista, che crede nel "sindacalismo" fascista, cerca di tenere insieme la camicia nera e la difesa degli interessi dei ceti subalterni, fidando sull'appoggio di Mussolini, e alla fine è sconfitto da Bottai, il cui disegno corporativo è, sul piano sindacale, un insieme di formule improvvisate, tutte profondamente illiberali e tutte finalizzate ad un unico obiettivo: cancellare ogni forma di sindacalismo dalla vita dello stato fascista. Svuotare di significato la vita sindacale è una condizione essenziale alla sopravvivenza stessa del regime, che ha la sua ragione d'essere nella repressione del dissenso operaio. Cordova dimostra che questo obiettivo non fu mai raggiunto: il dissenso, non il consenso immaginato dal revisionismo, sono la realtà che meno conosciamo della storia dell'Italia fascista.
Significative, ricche di spunti di riflessione e perfettamente contestualizzate nell'economia del saggio le pagine dedicate alla vicenda di quei leader del movimento operaio e socialista - Ludovico D'Aragona, Rinaldo Rigola, Gino Baldesi, per fare dei nomi - che non solo dichiarano impossibile ogni resistenza al fascismo, ma che il 4 gennaio 1927, nel giorno stesso in cui viene deciso lo scioglimento della CGL, mentre i prezzi salgono e si discute di salari da ridurre, danno vita ad un'associazione di studio destinata a fiancheggiare il regime. Su di loro si leva - qui il giudizio etico Cordova lo esprime a chiare lettere - la tragica ed eroica figura di Bruno Buozzi che, con le parole alte di chi parla alla storia, scrive ai compagni: "Io posso riconoscere che forza, strategia e tattica superiori alle mie mi hanno vinto, e negare, contemporaneamente, che sia stata vinta la mia ideologia. E però non abbandonarla. E però cercare di fare tesoro dell'esperienza per preparare la riscossa". E' questa senza alcun dubbio, la lezione più alta che promana da un libro che nulla concede alla retorica, ma ha il grandissimo pregio di ricavare dal passato domande cruciali per chi intenda comprendere il presente e lavorare alla costruzione del futuro.


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