Lettera aperta a Oriana Fallaci
Gianni Mereghetti - 17-07-2005
Carissima Oriana Fallaci,
mentre leggevo il suo testo dal titolo "IL NEMICO CHE TRATTIAMO DA AMICO" mi è corsa alla mente l'immagine di una studentessa mentre mostrava alla commissione degli esami di stato l'immagine di un crocifisso graffiato da un condannato a morte sul muro di una cella di Auschwitz. Una persona sconosciuta, come sottolineava quella studentessa, che con quel gesto ha affermato la forza incontenibile del Bene. E' con l'immagine di questa ragazza, certa della grandezza del bene e della sua permanenza nel mondo, che mi rivolgo a lei, ammirato per la lucidità della sua analisi, ma sconcertato per il fatto che ad essa segua come unica strada percorribile quella della guerra.
Mi spiace che ancora una volta la forza della sua analisi sia viziata da una intrinseca debolezza critica, tanto che lei fatica a capire che la domanda urgente in questo difficile tempo non è "che misure dobbiamo prendere contro il terrorismo islamico?", ma "chi siamo noi che viviamo in questo mondo preso d'assalto dalla barbarie e quale esperienza dell'umano facciamo?".
La questione seria di oggi non sono le pur giuste misure preventive e repressive da prendere, ma cercare un'esperienza dell'umano che lo abbracci totalmente, un'esperienza del bene così abbarbicata all'esistenza che nulla riesca a sradicarla. Questa è la speranza dell'Occidente, la certezza del Bene, non come idea filosofica, bensì come esperienza che metta insieme gli uomini e li renda capaci di costruire luoghi, dove l'umano rifiorisca come un di più di amicizia, di lavoro, di famiglia, di interessi, di cultura, di festa.
La speranza non sta nel futuro, quando non vi saranno più pericoli per nessuno - che ben venga questo futuro! -, la speranza è in un'esperienza che corrisponda oggi alle esigenze del cuore.
Come scriveva F. M. Dostoevskij "lo voglio vedere coi miei occhi il daino ruzzare accanto al leone e l'ucciso alzarsi ad abbracciare il suo uccisore. Io voglio essere presente quando tutti apprenderanno di colpo perché tutto sia stato così."
E' questa la speranza, un'esperienza in cui l'amico abbracci il nemico, un'esperienza però che non è possibile all'uomo, ma solo a Dio, e non ad un Dio qualsiasi, bensì a quello che si sporca le mani per coinvolgersi con noi e per salvarci dal nostro male.
Siccome lei è scettica a riguardo di questa speranza e trae invece dalla sua analisi il punto di forza per affrontare il terrorismo anche la sua razionalità alla fine si smarrisce, diventando rassegnata attesa della prossima mossa, che lei prevede contro l'Italia e una delle sue opere d'arte. Mi spiace che lei non arrivi al cuore della speranza; se portasse fino alle estreme conseguenze il percorso della ragione se ne convincerebbe, tant'è evidente che il nulla è vinto solo dall'essere, e l'essere è una positività che entra dentro l'umano. La Chiesa esiste solo per questo, per comunicare a tutti gli uomini che questa positività c'è, che l'uomo non è mai abbandonato al nulla grazie alla mano forte di un Dio che a lui si tende e lo trascina fuori dalle secche della disperazione. Il problema della Chiesa infatti non è come rapportarsi all'Islam e ai suoi fedeli, ma vivere in Cristo la positività della vita - il centuplo di cui parla continuamente il Papa. E' questa positività, tale perché corrisponde alle esigenze del cuore, ciò che la Chiesa offre ad ogni uomo, islamico compreso, ed è questa esperienza che libera dal male.
Grazie alla presenza della Chiesa la speranza non è né un sogno né uno sforzo moralistico, ma un cammino certo e dalla meta sicura.

17/7/2005
Gianni Mereghetti
Abbiategrasso

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