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Marie Therese, una che ha avuto fortuna
Repubblica.it - 30-06-2005
Fuggita dal Ruanda, ora aiuta i profughi


Quando il racconto di Marie Therese arriva al giorno in cui l'Italia le concesse l'asilo politico, resti sorpreso, come se quell'evento fosse un colpo di scena. Eppure era del tutto scontato: Marie Therese è una rifugiata ormai da sette anni, ha trasferito tutta la famiglia in Italia, svolge la sua attività d'assistente sociale con le vittime della tortura. Il fatto che alla fine le sia stato concesso l'asilo politico è, insomma, la ragione stessa per cui è qui da noi e può parlare e vivere.

Ugualmente sorprende. Perché ti rivela che quel punto d'arrivo, apparentemente scontato, è stato raggiunto per una serie di combinazioni del tutto casuali, per una serie di colpi della fortuna, o della provvidenza, per chi ci crede. Certamente non perché esiste un percorso istituzionale idoneo a dare ai perseguitati un futuro.

Marie Therese è una signora ruandese di cinquant'anni, vedova, madre di quattro figli il più grande dei quali, ventottenne, l'ha resa nonna tre anni fa. Nel 1994, quando il marito viveva ancora, era questa la sua famiglia. In più c'era quella d'origine: il padre, la madre e dodici fratelli. Una famiglia benestante e d'elevato livello sociale, tanto che Marie Therese, come molti dei suoi fratelli, aveva studiato all'estero, in Belgio, si era laureata, aveva imparato un paio di lingue. Vivevano a Butare, la sede dell'università, la capitale intellettuale del Ruanda.

Una famiglia mista: il padre hutu, la madre tutsi. Così quando scoppiò la guerra civile e cominciò lo sterminio dei tutsi, Marie Therese e i suoi si ritrovarono in un doppio incubo. Si trattava di combattere - e in guerra morirono il padre e tre fratelli - o di fuggire.

Coi quattro figli, attraversò il confine, raggiunse il Congo e, dopo sei mesi, il Kenia. Da Nairobi telefonò a Bruxelles e prese contatto con l'Unione cattolica internazionale dei servizi, l'istituzione dove aveva studiato da ragazza e per la quale aveva lavorato, come assistente sociale, in Ruanda. Le dissero di partire, di trasferirsi in Belgio. Le avrebbero garantito un lavoro e una sistemazione per lei e per i familiari.

Ecco, a questo punto si è portati a pensare che il racconto sia finito. C'era una famiglia di rifugiati che fuggiva ad uno dei più terrificanti massacri del secolo, e c'era chi, in Europa, era disposta ad ospitarla. Problema risolto? No: non funziona così. Non accadde, infatti.

Marie Therese non aveva documenti, né uno Stato cui chiederli. Dovette compiere un reato: una madre di tre figli, keniana, le diede il suo passaporto. C'erano le foto di una donna e di tre ragazzi neri. Difficilmente le guardie di frontiera occidentali avrebbero notato la differenza. Il figlio più grande avrebbe raggiunto l'Europa, come infatti avvenne, per conto suo.

Con un passaporto del Kenia la meta europea più facile era l'Italia, dove i keniani potevano entrare senza il visto. Ma poiché la polizia dell'aeroporto di Nairobi avrebbe potuto capire che il passaporto non era il suo, Marie Therese e i tre figli minori si trasferirono in Tanzania e da lì presero l'aereo per l'Italia.

Atterrarono a Fiumicino. Era il primo aprile del 1996. Non avevano alcun contatto, alcun punto di riferimento. D'altra parte l'Italia era solo una tappa nel viaggio verso il Belgio. Uscirono dall'aeroporto e salirono su un treno, si ritrovarono a Roma.

E anche a questo punto del racconto, si pensa che finalmente il viaggio di Marie Therese sia finito. No, invece, perché in una situazione come la sua, dopo un ingresso illegale, non si può chiedere come se niente fosse di andare in un altro Stato dell'Unione europea. Anche il Belgio, insomma, doveva essere raggiunto clandestinamente.

Il primo tentativo s'infranse subito, al confine svizzero. Fu un errore, una mancanza d'informazioni. I poliziotti svizzeri, alla vista del passaporto keniano, le dissero semplicemente che non poteva attraversare la frontiera, e la mandarono indietro. Il secondo tentativo finì nell'aeroporto di Francoforte: i poliziotti tedeschi s'accorsero della differenza tra il viso della donna della fotografia e quello di Marie Therese. Capirono, in definitiva, che il passaporto non era il suo.

Fu allora che Marie Therese cominciò a impratichirsi di quei regolamenti che oggi, nel suo lavoro d'assistenza ai rifugiati, incontra tutti i giorni. Le dissero che ce n'era uno, chiamato "il regolamento di Dublino", secondo il quale le richieste di asilo nei paesi dell'Unione europea vanno esaminate dallo Stato che per primo ha consentito l'ingresso del migrante. Marie Therese e i figli, così, furono rispediti in Italia.

E qua, nella storia, c'è un colpo di scena intermedio, che prepara quell'effetto-sorpresa finale. L'aereo decollò dall'aeroporto di Francoforte, atterrò a Fiumicino e Marie Therese si presentò al posto di polizia e finalmente chiese l'asilo politico.

Probabilmente fu per via di quel passaporto non suo (del quale i poliziotti tedeschi naturalmente avevano informato i loro colleghi italiani), forse per la fretta di un funzionario. Chissà. Certo è che Marie Therese e i suoi figli, sopravvissuti al genocidio del Ruanda, si videro notificare un foglio di via.

A volte, per fortuna, il sistema sa correggere i suoi errori. Il foglio di via, dopo un colloquio in questura, fu annullato. Ma che non si sognasse di andare in Belgio: il regolamento di Dublino parla chiaro. La sua nuova patria era l'Italia, e il fatto che lei non conoscesse nessuno, non sapesse parlare la lingua, era del tutto irrilevante. La domanda d'asilo fu accolta all'inizio del 1998. Nel frattempo Marie Therese, era riuscita a inventarsi una nuova vita italiana. La stessa di oggi.

Un giorno si presentò nella sede del Consiglio italiano dei rifugiati. Chiese di parlare con una funzionaria. Le raccontò la sua storia e le disse che aveva studiato da assistente sociale in Belgio. "Dove?", le domandò la funzionaria. "A Bruxelles - rispose Marie Therese - nella sede dell'Unione cattolica dei servizi sociali". Fece anche il nome di qualche suo insegnante. La donna dietro la scrivania davanti a lei era commossa e sorpresa allo stesso tempo: "Anche io, qualche anno prima di te, ho studiato là".

Quell'incontro casuale decise il futuro di Marie Therese, a renderlo felice. Fu assunta dal Cir, cominciò a occuparsi di quelli nella sua condizione. Di recente ha presentato un suo progetto, che è stato approvato, e gestisce una casa di accoglienza per minori a Sezze. Collabora anche al programma del Cir "vittime della tortura". Con pochi mezzi, molta fatica. "In Italia - dice oggi Marie Therese - non esiste una legge sul diritto d'asilo e i programmi di riabilitazione delle vittime delle torture sono affidati sostanzialmente al volontariato".

In definitiva il lavoro di Marie Therese è creare, per il prossimo, circostanze fortunate analoghe a quelle che l'hanno salvata.

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