Parlo il dialetto dei miei genitori...sarò un futuro delinquente?
Cinzia Crosali - 25-05-2005
Ringraziamo Cinzia per il suo nuovo contributo. La riflessione è stata pubblicata su Focus magazine dello scorso marzo. Le brevi traduzioni sono a cura della Redazione.


Parigi - Nell'ambito della preparazione di una legge sulla prevenzione della delinquenza annunciata da M. Dominique de Villepin, Ministro dell'Interno del governo francese, della sicurezza e delle libertà locali, un rapporto preliminare è stato consegnato al Ministro, lo scorso Ottobre, dalla Commissione preventiva del gruppo di studio parlamentare sulla sicurezza interna (GESI), di cui è presidente Jacques Alain Bénisti, deputato di Val de Marne.
Alcune parti di questo Rapporto hanno destato l'indignazione sia degli studiosi di linguistica, sia degli operatori psico-sociali. Io penso che prima di tutto è come cittadini che dobbiamo reagire a questo tipo di discorso e soprattutto come appartenenti a una comunità di persone che ha spesso parlato il dialetto di origine, senza per altro diventare delinquenti.
Ma vediamo in dettaglio che cosa propone il famoso Rapporto. Alla pagina otto leggiamo:

«Se le azioni di prevenzione vogliono essere efficaci, devono assolutamente iniziare dai primissimi sintomi di devianza, quindi dalla più giovane età. Tutti sono d'accordo nel sostenere che se i rimedi non vengono posti in questa precisa fase del comportamento deviante del bambino, la deriva non cesserà di accentuarsi ... »

Prima di specificare quale sarebbero i "rimedi" da adottare per impedire la tendenza antisociale del fanciullo, i redattori di questo Studio preliminare prendono in esame il percorso "tipo" del giovane delinquente, tappa per tappa, a partire dalla culla. Una immediata relazione (di causa-effetto) è stabilita implicitamente, ma in modo chiaro, tra il bilinguismo e la traiettoria deviante. Così il fatto di avere dei "genitori di origine straniera" che parlano in casa il dialetto del loro paese, costituirebbe nella catena delle cause, il primo fattore potenzialmente generatore di delinquenza. Sempre alla pagina otto del Rapporto leggiamo:

« Da 1 a 3 anni ( fase 1 ):
Solo i genitori, ed in particolare le madri, hanno un contatto con il loro bambino. Se queste ultime sono d'origine straniera dovranno costringersi a parlare francese in casa, per abituare i bambini a non avere una sola lingua per esprimersi. Le riunioni organizzate dalle associazioni di madri di famiglia straniere, finanziate dal F.A.S., possono indirizzare le donne in tale direzione. Nell'interesse del bambino, le madri accetteranno e si impegneranno. Ma se percepiranno resistenze da parte dei padri, che spesso esigono l'uso della lingua natale in casa, non lo faranno. Occorre allora prevedere azioni tarate sui padri per incitarli a procedere nella stessa direzione...

Da 4 a 6 anni:
Si tratta di anni normalmente passati alla scuola materna, ed è là che le prime difficoltà possono rivelarsi. Difficoltà dovute alla lingua, se la madre non ha messo in pratica le raccomandazioni della fase 1 »

Seguono quindi le misure messe in atto per "convincere" i genitori recalcitranti affinché si "costringano" a parlare francese e solo francese in casa loro davanti ai loro figli. Queste misure medicalizzano e quindi stigmatizzano le pratiche linguistiche non francesi.

Un folto gruppo di sociolinguisti si è già mobilitato e ha raccolto firme contro le proposte del Rapporto. Essi hanno ribadito che è evidente che la padronanza del francese sia indispensabile all'inserimento sociale del futuro cittadino francese, ma assimilare implicitamente il bilinguismo a una patologia e a metterlo in rapporto con la delinquenza è scientificamente infondato. Numerose ricerche realizzate in Francia e all'estero, da decine di anni, hanno dimostrato che la scelta della lingua nella comunicazione familiare non costituisce in sé un fattore di rischio. Sono piuttosto le condizioni di vita, la limitatezza delle risorse materiali e simboliche ad aumentare le probabilità di "carriera deviante" per i bambini e gli adolescenti che vivono in questi ambienti.
Personalmente, avendo incontrato nel mio lavoro moltissimi bambini bilingui, credo che il fatto di poter padroneggiare più codici comunicativi sia una risorsa innegabile che aumenta il potenziale cognitivo e accelera i processi evolutivi.
Destano stupore questi consigli ai genitori di non parlare la loro lingua di origine ai figli, stupore ancora maggiore se si pensa al fatto che lo stesso Stato francese incita invece, in altri contesti, a valorizzare le diversità linguistiche. Infatti nel B.O. (Bulletin Officiel de l'Education National Française) hors série n°1 del 14 febbraio 2002 si può leggere:
"A seconda delle risorse presenti nella classe, nella scuola o nell'ambiente circostante, le lingue parlate dagli alunni il cui francese non è la lingua madre vengono valorizzate. Si possono presentare enunciati, canti o filastrocche nelle diverse lingue, soprattutto in occasione di ricorrenze(il compleanno di un alunno, la festa della scuola...) e memorizzare le più semplici. L'intervento puntuale di un parlante lingua madre è da favorire. »
Ci si chiede come un insegnante potrebbe essere coerente rispettando queste direttive e contemporaneamente le proposte del Rapporto sopracitato.

Un articolo apparso su "Le Monde" del 5 febbraio 2005, ha messo in rilievo le reazioni suscitate dal Rapporto Bénisti, negli ambienti politici e la collera delle associazioni e dei sindacati.
Christophe Caresche, deputato (PS) e citato nello stesso articolo, ha dichiarato che questo Rapporto rivela un approccio totalmente primitivo e caricaturale della delinquenza dei minori.
Avendo io stessa lavorato per vari anni negli ambienti dei carceri minorili, condivido questo punto di vista e considero che ben diverse sono le cause della "devianza" e non assimilabili al semplice fatto di parlare il dialetto del paese di origine.
La stessa Francia ha rivalutato negli ultimi anni i dialetti regionali elevati alla dignità di Lingue: le bréton, l'alsatien, le corse, le catalan, le basque ... e i locutori di queste lingue, ancora considerate come "patois" fino a qualche anno fa, non hanno di certo riempito le carceri francesi.
Noi Italiani che difendiamo i nostri dialetti regionali, le commedie, le poesie, le canzoni dialettali, abbiamo una tradizione di "plurilinguismo" casalingo, a cui sappiamo dare tutto il valore e la ricchezza che effettivamente ha. Nessun emigrante italiano, neppure quelli degli anni cinquanta, è diventato "delinquente" solo perché in casa parlava in napoletano, in veneto o in milanese; e se mai a qualcuno è accaduto di finire nelle maglie della giustizia, è stato per ben altri motivi.
Dal punto di vista psicanalitico sottolineo inoltre il fatto che tutti i linguaggi familiari, intimi e particolari sono preziosi, sono essi che veicolano i principali potenziali affettivi dello sviluppo infantile, sono le riserve indispensabili della singolarità di ciascuno, del suo primo approccio alla parola e quindi alla sua relazione con l'Altro e con gli altri.
Questo attuale dibattito ci interessa e ci tocca, sia nella nostra memoria storica di popolo emigrante, sia come difensori dei diritti sociali e del rispetto delle differenze.


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