Croci e delizie della traduzione
Cinzia Crosali - 20-05-2005
Psicologa e psicanalista, Cinzia ha lavorato e lavora con bambini e con adulti, in realtà bilingui che spaziano dalla scuola italiana all'estero alle carceri minorili. La ringraziamo per averci messo a disposizione alcune sue riflessioni, pubblicate anche sulla rivista Focus magazine, nate da anni di ricerca e di sperimentazione intorno alle problematiche psicosociali dell'emigrazione e della comunicazione (Red)


Per noi italiani che viviamo in Francia, l'equilibrismo tra le due lingue è quotidiano. Anche se la conoscenza del francese è perfetta, accade sempre che una parola, un'espressione, un modo di dire italiano si imponga nella frase e ci risulti intraducibile. A volte invece è un'immagine linguistica francese che non trova un suo corrispondente nella lingua italiana. Cerchiamo allora il corrispettivo meno lontano, quello che si adatta di più, ma restiamo scontenti, qualcosa non ci soddisfa, ci lascia con un senso d'incompletezza e di frustrazione. Non è propriamente il significato a deludere, quanto la tonalità, il colore, la materialità stessa della scelta linguistica.
Ne sanno qualcosa i traduttori, che, quando fanno in modo appassionato il loro lavoro, vivono momenti di profonda indecisione, sempre sul bordo di un tradimento nei confronti della lingua da tradurre. L'analogia che avvicina l'atto del "tradurre" con quello del "tradire" è largamente conosciuta. Qualcosa di passionale e intimo è, infatti, all'opera. Un'amica traduttrice che lavora con un gruppo di colleghi professionisti, mi raccontava recentemente quanto siano accese le discussioni tra i traduttori del suo gruppo di lavoro. Quando non si trova l'accordo su una scelta linguistica facilmente si arriva a litigare anche in modo aspro. Nessuno vuole cedere o fare concessioni all'altro; a volte le dispute sulla scelta delle parole, sulla sintassi e sullo stile diventano così violente da rendere impossibile la continuazione del lavoro. Pare proprio che qualcosa di molto intimo e prezioso sia messo in gioco. Di che cosa si tratta? A che cosa non si vuole rinunciare? Quale punto insopportabile viene toccato?

Lo psicanalista Jacques Lacan aveva chiamato questo qualcosa di intimo e prezioso: "la lalangue" e diceva che essa non ha niente a che vedere con il dizionario. Essa è più vicina al balbettio iniziale del soggetto parlante, alla lallazione del lattante, alla primordiale forma ed emozione che la lingua madre ha assunto per ciascuno di noi quando siamo entrati nel linguaggio, all'inizio della nostra vita.
Se la traduzione è così difficile e dolorosa è perché ogni parola deve essere estirpata dalla "lalangue" della prima lingua per trovare un corrispondente nella seconda lingua della traduzione. Una parola della lingua materna deve essere lasciata andare, lasciata cadere, deve essere strappata alla sua familiarità, al fascino e alla consolazione che dà questa familiarità. Una separazione da un'intimità è allora in atto. E' questa l'operazione difficile della traduzione, si tratta di un'operazione in cui devo rinunciare all'intimità rassicurante di una parola della mia lingua, devo separarmi da essa, e questo quando la parola corrispondente della seconda lingua non è ancora a mia disposizione: tante parole si affacciano e mi si propongono, ma nessuna per un breve momento è utilizzabile. E' questo un istante di vacillazione, un impercettibile momento di assenza di "bordo". Ci si stacca da una riva, ma l'altra riva non è ancora a portata di mano. C'è dunque un istante vuoto, che implica una separazione, un taglio, una vertigine. Poi la parola della seconda lingua prende forma, s'impone, s'iscrive: l'altra riva è toccata. Ho cercato di descrivere al rallentatore un processo mentale che avviene in modo automatico, quasi inconsciamente, ma che non è indolore. Chiunque abbia cercato di tradurre una poesia, o una canzone sa quanto grande sia l'impotenza, frustrante, di rendere con fedeltà la materialità e la sonorità di un verso o di un'immagine poetica. Quando poi riusciamo ad approdare ad una traduzione che ci piace c'è una vera giubilazione, non si tratta di una semplice traslazione da dizionario, ma di un vero atto di creazione con tutto il piacere che ogni creazione comporta.

Nelle sedute psicanalitiche con persone italiane che vivono in Francia le due lingue spesso si sovrappongono, alcune parole si contaminano, altre fanno "a pugni" per imporsi. La fatica di imparare il francese al momento della migrazione o del trasferimento, è ricordata da tutti come un'intima sofferenza.
Un paziente venuto in Francia all'età di 30 anni, negli anni cinquanta, mi raccontava come gli fosse penoso allora non accedere al motto di spirito nella nuova lingua. Al suo paese, in Italia, era considerato un brillante umorista; animatore di serate e convivi, sapeva raccontare barzellette e storielle con estrosità e brio. Arrivato in Francia tutti i suoi tentativi di tradurre in francese il suo repertorio di battute umoristiche fallivano miseramente e la sua stessa posizione e identità nel gruppo dei pari ne risultavano compromesse e frustrate. Il motto di spirito, infatti, è talmente cementato alla materia linguistica di cui è costruito, da opporsi ad ogni tentativo di traduzione, salvo a cadere nel ridicolo.
Un altro elemento che resiste alla traduzione automatica è l'atto del contare: anche dopo molti anni di vita in Francia, continuiamo quasi tutti a contare mentalmente in italiano, ritrovando nel numero e nella quantità il nocciolo duro e indistruttibile della forza della lingua madre.
Alcuni miei pazienti che parlano preferibilmente in francese, ricorrono istintivamente all'italiano per rievocare un ricordo d'infanzia, una scena familiare o un sogno remoto. E' soprattutto nei sogni che si formano i neologismi più interessanti; il lavoro della "condensazione" e dello "spostamento" non vale solo per le immagini oniriche ma si gioca, attraverso formidabili creazioni, anche sulla lingua, creando sorprese e giochi di parole rivelatori delle verità intime del soggetto.
Siamo noi i creatori dei nostri sogni, essi dovrebbero almeno insegnarci a recuperare le capacità inventive che, quando l'inibizione è addormentata, ci permettiamo. Questa libertà ci servirebbe forse a trovarci un po' più a nostro agio non solo nella lingua straniera, ma nella lingua tout court, nell'atto di parola, che, per ogni soggetto, in qualsiasi lingua si produca, è sempre un momento straordinario di rischio e di emozione.

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