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Lasciate la Storia agli storici
Corriere della Sera - 10-05-2005
La doppia memoria - Lo scontro Bush-Putin su Yalta e la Seconda guerra

Dopo la fine della guerra fredda e una lunga pace incerta fra il crollo del muro di Berlino e il peggioramento dei rapporti russo-americani dopo l'invasione dell'Iraq, gli Stati Uniti e la Russia sono ancora una volta in guerra. Il conflitto è scoppiato ieri in una capitale del Baltico, alla vigilia della grande manifestazione che si terrà domani a Mosca per il «giorno della vittoria». Non sappiamo ancora come verrà combattuto e quali saranno le sue ricadute sugli equilibri europei.

Ma le dichiarazioni di Bush a Riga aprono un duello della storia e della memoria che avrà, è inevitabile, ripercussioni politiche. Mentre Vladimir Putin si appresta a celebrare la fine della Seconda guerra mondiale in stile sovietico, George W. Bush non esita, per meglio denunciare la politica staliniana, a mettere in discussione quella di Roosevelt alla conferenza di Yalta. Tutto comincia apparentemente nel momento in cui il leader russo decide di conferire una particolare solennità alle celebrazioni per la fine della Seconda guerra mondiale. Qualche giorno fa, su questo giornale, Franco Venturini ha sostenuto che Putin, nel ricordare i grandi meriti dell'Urss dopo l'invasione tedesca del giugno 1941, avrebbe dovuto scusarsi pubblicamente per il modo in cui il regime sovietico si servì della vittoria nei Paesi occupati dall'Armata Rossa. Se avesse dato retta agli appelli che giungevano da qualche Paese ex satellite e dalle repubbliche del Baltico, Putin avrebbe probabilmente evitato molte critiche e reso l'evento meno contestabile.

Ma in questa circostanza il presidente russo e i suoi maggiori collaboratori hanno preferito rivendicare, senza distinguo, le glorie della «guerra patriottica» e hanno dato la sensazione, in tal modo, di accettare tutto il passato sovietico dal 1939 al 1989: cinquant'anni nel corso dei quali l'Urss ingoiò mezza Polonia, tre Paesi baltici, la Bessarabia, un pezzo di Finlandia, ed estese la sua egemonia politica, dopo la guerra, su tutti i territori conquistati. Nella storia della Russia post-sovietica questo è un fatto nuovo a cui occorre dedicare qualche riflessione. Dopo la soppressione del partito comunista dell'Urss nell'agosto del 1991 e la morte dello Stato sovietico nel dicembre di quell'anno, Boris Eltsin adottò verso il passato un atteggiamento prudente e ambiguo. Lasciò la mummia di Lenin nella Piazza Rossa, ma scoraggiò le manifestazioni di omaggio. Lasciò che i monumenti abbattuti nel corso dell'estate dormissero nei parchi e nei depositi dove erano stati abbandonati; ma lasciò che gli altri continuassero a decorare le piazze e i palazzi pubblici. Alzò sulle guglie del Cremlino il tricolore della rivoluzione democratica del febbraio 1917, ma non intentò mai un processo al bolscevismo, al leninismo e allo stalinismo. La prudenza fu suggerita da due ragioni. In primo luogo Eltsin era stato segretario del partito negli Urali e «federale » del Pcus a Mosca nella prima fase della perestrojka.

Con quale credibilità si sarebbe potuto atteggiare improvvisamente a giudice e censore del passato? In secondo luogo le colpe del comunismo erano state condivise da una larga parte del Paese. In una recente intervista a Francesca Sforza de La Stampa, lo storico Jurij Afanasev ha detto che «la gente non ha voluto criticare lo stalinismo perché ognuno avrebbe dovuto riconoscere la propria personale responsabilità, dalla piccola delazione alla collaborazione con la polizia segreta». Accadde in Russia dopo il 1991, in altre parole, ciò che era accaduto in Spagna dopo la morte di Franco. Nell'interesse della pace civile fu deciso di stendere sul passato nazionale una coltre di silenzio.

Ma oggi Vladimir Putin vuole che la Russia sia orgogliosa di se stessa e ritrovi nelle pagine più eroiche della sua storia il sentimento della propria grandezza. L'orgoglio serve a compensare gli scacchi subiti dalla sua politica negli scorsi anni: l'ingresso delle Repubbliche baltiche nella Nato, la rivoluzione in Georgia, la sconfitta del candidato della Russia nelle elezioni ucraine, la presenza di basi americane in Asia Centrale, la guerra irachena. Putin non è soltanto un nazionalista sovietico e un leader autoritario. È anche un riformatore e un modernizzatore, deciso ad affrontare i grandi problemi del Paese. Ma sa che i prossimi anni saranno difficili e che il sentimento della passata grandezza può aiutare i russi a entrare nel futuro. Di queste attenuanti Bush, nella sua conferenza stampa di Riga, non ha tenuto alcun conto. Ha denunciato i tirannici regimi comunisti imposti da Mosca all'Europa centrorientale, ha predicato la democrazia a tutti gli Stati post-sovietici, fra cui la Russia, e si è spinto sino ad affermare che gli accordi di Yalta appartengono, con il patto di Monaco del 1938 e i protocolli tedesco-sovietici del 1939, a una stessa condannabile famiglia: quella delle intese che ignorano la sorte delle piccole potenze. Non si è limitato a criticare Stalin e, indirettamente, Putin.

Ha dato un duro colpo all'immagine storica di Roosevelt e Churchill, i due uomini di Stato occidentali che incontrarono il leader sovietico a Yalta nel febbraio 1945. Ha giustamente ricordato che la fine della guerra non fu, per l'Europa dell'Est, una liberazione, ma l'inizio di una nuova e più lunga servitù. E ha condannato Yalta senza neppure accennare alle speranze e agli ideali con cui il presidente americano, a torto o a ragione, aveva cercato di costruire, insieme a Stalin, un migliore ordine mondiale.

Qualche commentatore sostiene che ha detto tutto questo per non lasciarsi imprigionare dalla manovra «sovietica» che Putin stava preparando per le celebrazioni del 9 maggio. Ma avrebbe fatto meglio, in tal caso, a declinare l'invito. La Russia, un Paese che oggi si considera accerchiato e umiliato, leggerà il suo discorso come una nuova Operazione Barbarossa: l'invasione democratica del territorio nazionale e della sua area d'influenza.
Fra la posizione di Putin e quella di Bush vi è un parallelismo. L'una e l'altra piegano la storia agli interessi di un obiettivo politico. Non è la prima volta. In un'era in cui la diplomazia del perdono è diventata la prosecuzione della guerra con altri mezzi, sono pochi gli Stati e i gruppi etnico-religiosi che non si servano della storia per raddrizzare i torti subiti nel passato. Ma quando il gioco della memoria coinvolge due grandi potenze la partita diventa rischiosa. Mai come oggi conviene supplicare, per l'ennesima volta: lasciate la storia agli storici.

Sergio Romano
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