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Mentre il bel paese affonda...
Ma non si era parlato della fine delle ideologie, non si era forse parlato anche della scomparsa delle classi sociali?
Ed il governo quasi defunto dell'egoarca di Arcore, non ha pensato forse di dedicare con legge dello stato una giornata al ricordo del muro di Berlino abbattuto?
E se le classi sociali sono scomparse in un indistinto quanto mai " ceto medio " più o meno riflessivo, a seconda dei punti di vista sociologici, e se ciascuna classe sociale si è come disciolta all'interno di un corpo sociale onnicomprensivo, perché mai allora le classi, anzi la classe, ritorna in auge nel momento supremo dell'accaparramento delle ricchezze residue del bel paese?
E mentre le altre classi sociali si affidano alla " concertazione ", ovvero alla rinuncia alle proprie rivendicazioni in nome dell'interesse superiore del paese che affonda, gli altri della classe dei " padroni " riescono bene a lucrare nel momento del massimo disagio degli abitatori del bel paese.
Usare la parola " padroni " è forse fuori dal tempo e dalla storia? E' un ritorno ai cosacchi in piazza San Pietro, a fare la gioia dell'egoarca di Arcore?
Non mi pare, almeno dalla lettura della testimonianza di Alberto Statera " Chierici sempre più ricchi in una chiesa più povera ", pubblicata sull'ultimo numero del settimanale " Affari & Finanza ".

« La Chiesa è povera, i chierici sono ricchi, diceva un adagio citato spesso da un vecchio trotzkista come Rino Formica quando doveva occuparsi delle allegre finanze del partito socialista al potere.
Oggi, al quinto anno di stagnazione economica, l'Italia è più povera, le imprese faticano a competere, perdono quote di mercato, non riescono ad adattarsi alla rivoluzione tecnologica, soffrono la globalizzazione, la Cina, i trapassi generazionali, la crisi di idee e di capitali.
Ma i celebranti in basilica sono ricchi. Molto più ricchi di quelli che fecero il boom italiano del dopoguerra, l'acciaio, l'auto, le banche, il made in Italy.
Ci ha stupefatti la classifica stilata da Ettore Livini di un centinaio di manager e imprenditori per i quali il 2004 è stato un anno ben più che finanziariamente prospero, a prescindere dall'andamento e dalle prospettive delle loro aziende.
Potete immaginare che c'è un manager la cui azienda non si è segnalata per particolari performance, che si è portato a casa in un anno 17, 4 milioni di euro, pari a circa 34 dei vecchi miliardi di lire ?
E un altro, a capo di un'azienda in piena crisi, che ne ha incassati 16,8? Trentacinque del manipolo monitorato da Livini hanno messo insieme più di due milioni di euro di stipendio. Molti, oltre agli stipendi debordanti, si sono attribuiti bonus d'ingaggio, buonuscite, patti di non concorrenza, stock option, più pacchi di benefit di ogni natura.
Ci scuserete se per questa volta non faremo nomi. Sarebbe qualunquista accomunare manager inventivi che hanno fatto grandi le loro imprese a carneadi con buoni avvocati contrattualisti che sanno approfittare di proprietà deboli o incapaci, di conflitti generazionali, di congiunture infauste, di sponsorizzazioni politiche, di relazioni giuste o di fame usurpate.
Segnaliamo comunque che la classifica di Livini si può aggiornare di giorno in giorno spulciando le cronache finanziarie.
Nell'ultima settimana abbiamo saputo che un manager assicurativo italiano, titolare di risultati non eclatanti, ha lasciato tempestosamente il gruppo di proprietà tedesca e nel giorno delle dimissioni, mentre trattava con un altro gruppo italiano un cospicuo premio d'ingaggio, ha incassato 828 mila euro soltanto di plusvalore sulle stock option della sua compagnia.
Un altro amministratore delegato, transfuga da una società che ha perso in Borsa quasi il 26 per cento in due anni, si è ristorato con una personale plusvalenza da stock option di 4,6 milioni di euro.
Il denaro non è sterco del diavolo e i moralismi vanno lasciati ai chierici veri, quelli con la tonaca.
Ma è singolare che al tanto evocato declino dell'impresa italiana corrisponda un tripudio di arricchimenti manageriali.
Su venti dirigenti europei superpagati, otto sono italiani, ma tra le prime cinquanta aziende europee soltanto cinque sono italiane.
Si dice: in Italia un alto dirigente d'azienda guadagna centocinquanta volte più di un operaio, in America tra le quattrocento e le cinquecento volte di più.
E infatti i gruppi americani, dopo le ultime esperienze, cercano di correre ai ripari, rivedendo logica e regolamenti degli emolumenti e delle stock option. Spesso vere follie retributive. Condannate senza perifrasi dal premio nobel John Kenneth Galbraith, che sull'argomento ha scritto un pamphlet nel quale sostiene che "nelle società di capitale il potere è ormai del management, una burocrazia che ha il controllo dei suoi compiti e dei suoi compensi. Compensi al limite del furto. Compensi che basano ormai il sistema della grande impresa sull' "illimitata facoltà di arricchimento".
Parole di Galbraith non inascoltate dai grandi gruppi americani. Mentre noi restiamo in attesa del conteggio di buonuscita, bonus d'ingaggio, liquidazione, patto di non concorrenza, stock option, premio aggiuntivo per togliere il distrubo del prossimo superricco di un "paese in declino"
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 Paola    - 29-04-2005
Mentre loro diventano sempre più ricchi, noi, uomini comuni, diventiamo sempre più poveri. Con la flessibilità del lavoro si è giunti ai contratti a tempo determinato. Ecco un episodio come tanti.
Una volta finito il contratto... a casa... finchè il Pignone non decide di ridare lavoro alle piccole imprese che dipendono dall'umore degli americani. Intanto quei pochi che rimangono devono lavorare con straordinari non pagati, per paura di perdere il posto. Ma non serve ugualmente, perchè ti puoi ritrovare da un giorno all'altro, senza lavoro con un mutuo per la casa di 950€ mensili, come è successo a mio marito.