Liberazioni incompiute
Grazia Perrone - 14-04-2005


"(...)Attraverso queste maglie del decreto di amnistia noi abbiamo visto uscire non soltanto coloro che dell'amnistia erano meritevoli, cioè coloro che avevano commesso reati politici di lieve importanza, ma anche gerarchi: Sansonelli, Suvich, Pala; abbiamo visto uscire propagandisti e giornalisti che si chiamano Giovanni Ansaldo, Spampanato, Amicucci, Concetto Pettinato, Gray. Costoro, per noi, sono più responsabili di quei giovani che, cresciuti e nati nel clima politico pestifero creato da questi propagandisti, si sono arruolati nelle brigate nere ed in lotta aperta hanno affrontato i partigiani e ne hanno anche uccisi (...) Attraverso queste maglie abbiamo visto uscire coloro che hanno incendiato villaggi con i tedeschi, che hanno violentato donne colpevoli solo di aver assistito i partigiani (...) Abbiamo visto uscire una parte della banda Kock, la Marchi, la Rivera, Bernasconi (...) Ricordiamo che l'epurazione è mancata: si disse che si doveva colpire in alto e non in basso, ma praticamente non si è colpito né in alto né in basso. Vediamo ora lo spettacolo di questa amnistia che raggiunge lo scopo contrario a quello per cui era stata emanata: pensiamo, quindi, che verrà giorno in cui dovremo vergognarci di aver combattuto contro il fascismo e costituirà colpa essere stati in carcere ed al confino per questo. (...)". (Sandro Pertiniintervento all'Assemblea Costituente all'indomani dell'amnistia ai fascisti avvenuta il 22 giugno 1946).

La storiografia resistenziale e di sinistra per troppo tempo ha cercato di arginare il dilagare dei vari "revisionismi" orchestrati dalla destra, cercando di negare il fatto che nella guerra partigiana non sempre le cose andarono secondo regole del "bon ton" oppure sottolineando il valore morale di quella violenza; in altre parole, al revisionismo storico si è voluto dare delle risposte etiche invece che storiche. La mitizzazione della Resistenza era peraltro iniziata mentre ancora divampava il conflitto, quando per un complesso di ragioni politiche e propagandistiche da più parti questa venne definita come un "secondo Risorgimento" e presentata quale continuazione ideale della guerra '15-'18 contro gli Imperi Centrali. In questa rappresentazione convergevano infatti diversi interessi e preoccupazioni politiche: gli antifascisti cattolici e liberali temevano che la guerra di liberazione nazionale si sviluppasse in senso sociale divenendo guerra di classe, i monarchici da parte loro speravano in questo modo di non veder messo in discussione il loro potere dinastico, dato che i Savoia erano stati protagonisti dell'Unità d'Italia, mentre il Partito Comunista di Togliatti che intitolò a Garibaldi le sue formazioni partigiane, preferiva ricollegarsi alla retorica staliniana della "guerra patriottica" avendo ben presente che, dopo la storica conferenza di Yalta, i comunisti italiani avrebbero dovuto rinunciare alla rivoluzione socialista.

L'analisi più lucida di quel periodo storico è formulata dal settimanale inglese The Economist (5 maggio 1945) il quale dopo aver riferito degli strepitosi successi conseguiti dalle "bande" partigiane nel Nord del paese afferma (testuale):

"(...) Il governo Bonomi ha già accettato che i Comitati di Liberazione di Roma e del Nord si incontrino, e si parla di convocare un congresso di tutti i comitati provinciali. I comitati domanderanno certamente un rimpasto di governo, con un Primo Ministro che appartenga alla Resistenza attiva. (...) Il problema del futuro dell'Italia è questo: (...) potrà il nuovo governo, che rappresenta una forte coalizione di Sinistra, guidare il popolo italiano verso quella società libera e progressiva che gran parte dei cittadini indubbiamente desidera? In seguito alla liberazione si sono avute "primavere del popolo" in altri paesi, specie in Francia. Ma in ogni caso dopo qualche mese si è visto l'indebolimento e la delusione delle forze popolari, ed il ritorno dei vecchi gruppi screditati e di torbidi interessi. In Italia c'è, forse, una maggiore probabilità di successo per un'evoluzione politica. Il movimento di Resistenza non è una mescolanza eterogenea di gruppi uniti da fedeltà ad un solo uomo. I partiti che lo compongono hanno dimostrato di essere capaci di azioni di massa su una scala non raggiunta altrove – solo nell'Italia settentrionale gli scioperi sono stati impiegati con successo come strumenti di resistenza al nemico. (...) Sarebbe però assai stolto il menomare l'opposizione. I fascisti sono sconfitti ma non distrutti. Poco tempo fa la fuga del gen. Roatta turbò profondamente il popolo di Roma, che ebbe prova della diffusione del movimento clandestino fascista. (...) La base per una coalizione di gente spaventata e screditata esiste in Italia come in ogni altro paese liberato (...)".

Rispetto al Risorgimento - e per i motivi già brevemente esposti - la Resistenza ha goduto almeno nei primi dieci o quindici anni di vita repubblicana, di scarsa fortuna. I governi dell'Italia democristiana (molto più ipocriti, sotto questo aspetto, di Berlusconi) erano "costretti" a celebrarne le ricorrenze ma pur adottandone una versione moderata erano scarsamente interessati a rinfocolare la memoria storica impegnati, com'erano, soprattutto nel combattere i comunisti il cui contributo alla Resistenza era stato determinante. Un atteggiamento (ed un approccio) sensibilmente diverso emerse sul finire degli anni '60 caratterizzati da una vigorosa ripresa delle lotte sociali che videro l'apparizione sulla scena politica di due nuove forze: i giovani e, soprattutto, le donne. E' in questo periodo che sulla Resistenza si ripropone, prepotentemente, il contrasto tra quanti ne esaltavano i valori dell'unità antifascista e della solidarietà nazionali e quanti, al contrario, vi leggevano una ferma volontà di rottura con il passato e un momento di scelte radicali. Considerando, dunque, la Resistenza un'esperienza traumatica che aveva diviso più che unito gli italiani determinando schieramenti nettamente contrapposti e costringendo ciascuno a prendere posizione. In questo contesto storico la (ri)scoperta della Resistenza diventa (da parte di consistenti gruppi di giovani che daranno vita alla, cosiddetta, "nuova sinistra") l'occasione per una serrata critica dei comportamenti e delle scelte politiche operate dalla sinistra tradizionale (PCI in particolare) a cui si rimprovera di aver smorzato, per ambigue aspirazioni di potere (peraltro regolarmente frustrate e deluse), o per servilismo ideologico con l'URSS, le spinte emancipatrici provenienti dal basso.

Lasciando perdere la tentata riabilitazione di personaggi come Bottai, Ciano, Gentile, Evola e dello stesso Mussolini o della monarchia, magari contrabbandata come rivalutazione umana o culturale ed affidata all'ambigua penna di personaggi non-fascisti, e non approfondendo le polemiche sul consenso di massa verso il regime o sulle leggi razziali del '38; sicuramente il terreno prediletto dal revisionismo più aggressivo è stato quello delle "stragi rosse", attraverso la riesumazione spettacolare dei morti per mano partigiana, la loro decontestualizzazione storica e la richiesta per essi del riconoscimento di eguale dignità politica in quanto anch'essi "italiani caduti per la Patria, combattendo l'invasore".
Così di volta in volta, si assiste ad un rovesciamento delle parti, in cui i fascisti finiscono per avere tutte le giustificazioni possibili per le loro scelte più nefande, mentre a chi li combattè non è concessa neanche un'attenuante generica: ecco quindi il "Triangolo della morte" in Emilia cancellare il ricordo dell'assassinio dei 7 fratelli Cervi, le Foibe quello della Risiera di San Sabba, Via Rasella quello delle Fosse Ardeatine [1], Piazzale Loreto quello di quanto avvenuto nella stessa piazza il 10 agosto del '44.

Contro questa strategia, da tempo perseguita anche in Italia, che sistematicamente si prefigge di smantellare la memoria dell'antifascismo, è necessario sviluppare una puntuale critica del revisionismo che, attraverso l'indagine storica, ne smascheri le mistificazioni e smonti pezzo per pezzo il meccanismo.
Però a questo punto converrà fare un passo indietro, per meglio comprendere come nella società italiana dopo la parentesi resistenziale non solo non fu possibile punire la maggioranza dei criminali fascisti, ma neppure allontanarli dalle posizioni di potere.

Avvenuta la liberazione di Roma il 5 giugno del '44, il re Vittorio Emanuele trasferì i poteri costituzionali al figlio Umberto, nominato luogotenente, e Badoglio presentò le dimissioni da capo del governo provvisorio sorto al Sud. A sostituirlo, alla presidenza del Consiglio, venne chiamato Ivanoe Bonomi, personaggio che aveva avuto non poche responsabilità nell'avvento del fascismo ma ben visto per la sua moderazione dagli anglo-americani. Nella formazione del nuovo governo, fu bocciata la candidatura, sostenuta dal C.L.N., a Ministro degli Esteri di Carlo Sforza, l'unico ambasciatore che a suo tempo si era dimesso per non essere complice del regime fascista.
Questo primo governo Bonomi rimase in carica quattro mesi, durante i quali i contrasti fra il fronte dei partiti di sinistra (comunisti, socialisti e "azionisti") e lo schieramento di centro-destra (democristiani, liberali, demolaburisti) resero problematica ogni decisione sulle prospettive politiche ed economiche da attuarsi nei territori via via liberati della penisola, sull'atteggiamento nei confronti degli Anglo-americani e sulla partecipazione alla guerra contro i nazi-fascisti. Tali divergenze in sostanza riguardavano questioni politiche, ovvero la radicalità e l'irreversibilità delle misure antifasciste da prendere, non esclusa la verifica dell'identità antifascista delle personalità politiche che pretendevano di guidare l'Italia post-Mussolini.
Le questioni centrali erano due: la prima riguardava le misure di epurazione contro i fascisti, e la seconda la funzione e i poteri che dovevano esercitare i Comitati di Liberazione Nazionale riunitisi - in assise plenaria - a Bari nel gennaio 1944.

Per il primo punto, a parole ogni forza politica andava affermando che si doveva procedere in modo rapido ed energico all'epurazione ma forti erano le resistenze ad attuare quanto previsto già dalla "Dichiarazione sull'Italia" formulata a Mosca nell'ottobre '43 da una conferenza interalleata che aveva affermato la necessità che "tutti gli elementi fascisti o filofascisti fossero rimossi dall'amministrazione e dalle istituzioni di carattere pubblico", come specificato dal Decreto Legislativo "Sforza" del 27 luglio '44 che stabiliva tutta una serie di sanzioni contro il fascismo che citiamo testualmente:

Art. 1. Sono abrogate tutte le disposizioni penali emanate a tutela delle istituzioni e degli organi politici creati dal fascismo. Le sentenze già pronunciate in base a tali disposizioni sono annullate;
Art. 2. I membri del governo fascista e i gerarchi del fascismo, colpevoli di aver annullate le garanzie costituzionali, distrutte le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesse e tradite le sorti del Paese condotto alla attuale catastrofe, sono puniti con l'ergastolo e, nei casi di più grave responsabilità, con la morte (...);
Art. 3. Coloro che hanno organizzato squadre fasciste, le quali hanno compiuto atti di violenza o di devastazione, e coloro che hanno promosso o diretto l'insurrezione del 28 ottobre 1922 sono puniti secondo l'art. 120 del Codice penale del 1889. Coloro che hanno promosso o diretto il colpo di Stato del 3 gennaio 1925 e coloro che hanno in seguito contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore il regime fascista sono puniti secondo l'art. 118 del Codice Stesso. Chiunque ha commesso altri delitti per motivi fascisti o valendosi della situazione politica creata dal fascismo è punito secondo le leggi del tempo;
Art. 5. Chiunque, posteriormente all'8 settembre 1943, abbia commesso o commetta delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato, con qualunque forma di intelligenza o corrispondenza o collaborazione col tedesco invasore, di aiuto o di assistenza ad esso prestata, è punito a norma delle disposizioni del Codice penale militare di guerra. Le pene stabilite per i militari sono applicate anche ai non militari (...);
Art. 8. Chi, per motivi fascisti o avvalendosi della situazione politica creata dal fascismo, abbia compiuto fatti di particolare gravità che, pur integrando gli estremi di reato, siano contrari a norme di rettitudine o di probità politica, è soggetto alla interdizione temporanea dai pubblici uffici ovvero alla privazione dei diritti politici per una durata non superiore a dieci anni. Qualora l'agente risulti socialmente pericoloso può esserne disposta l'assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro per un tempo non inferiore ad un anno n, superiore a dieci (...);
Art. 9. Senza pregiudizio dell'azione penale, i beni dei cittadini i quali hanno tradito la patria ponendosi spontaneamente ed attivamente al servizio degli invasori tedeschi sono confiscati a vantaggio dello Stato (...)


Il secondo punto, altrettanto dirimente, di disaccordo riguardava i poteri, le funzioni e la durata dei Comitati di Liberazione e, nel dopoguerra, sarà proprio sull'esistenza o sulla scomparsa di queste strutture che si giocherà la carta principale della ristrutturazione sociale fra destra e sinistra politica. Intanto già con Bonomi liberali e democristiani si opposero ai C.L.N., vedendoli come l'embrione di una repubblica dei Soviet e ravvisandovi il pericolo maggiore per la continuità del sistema capitalistico; i liberali, in primo luogo, insistevano perchè i Comitati non proliferassero nelle aziende, nei quartieri, nei paesi, ecc. e che, dopo la lotta partigiana, si ritornasse alle strutture prefasciste, temendo che questa seppur limitata esperienza di autorganizzazione andasse oltre l'obiettivo della liberazione nazionale, trasformandosi in movimento anticapitalistico e di sovversione sociale. Analoga posizione avrebbero assunto anche i democristiani che, per bocca di Giulio Andreotti, individuavano nei C.L.N. "un pericolo grave per la rinascita democratica dell'Italia e un mezzo che può essere sfruttato per tentativi rivoluzionari".

Sui due punti delineati le posizioni all'interno del governo divennero sempre meno compatibili, tanto da determinare la rottura e le dimissioni di Bonomi; la classica goccia che fece traboccare il vaso fu la richiesta avanzata da Scoccimarro, membro comunista dell'Alto Commissariato per l'epurazione, che aveva chiesto l'allontanamento di alcuni funzionari dei ministeri del Tesoro e della Marina, denunciandone i trascorsi fascisti.
Bonomi successe quindi a se stesso, con un governo appoggiato dal P.C.I. ma senza socialisti e Partito d'Azione che erano stati i più intransigenti sostenitori dell'epurazione e della centralità dei C.L.N. (e sull'ambiguità del partito di Togliatti in quei mesi cruciali ci sarebbe molto da dire); soltanto dopo la completa Liberazione, il 12 giugno '45, Bonomi fu costretto dalla spinta insurrezionale a dimettersi e venne soppiantato da un governo "d'ispirazione resistenziale", presieduto da Ferruccio Parri, uomo del Partito d'Azione e candidato del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, con il socialista Nenni alla vicepresidenza, il democristiano De Gasperi agli Esteri e Togliatti alla Giustizia.
Nonostante però che i Comitati di Liberazione Nazionale avessero fin da subito diramato rigide disposizioni contro la pratica delle esecuzioni sommarie e che l'effimero governo Parri avesse avviato l'epurazione nella massima legalità, le forze alleate - USA in prima luogo - d'intesa con la maggioranza dei partiti antifascisti (D.C., Liberali ma anche P.C.I.) chiusero il capitolo dell'appena avviata de-fascistizzazione della società italiana e in questo modo un gran numero di alti gradi militari, magistrati, funzionari di polizia, giornalisti, docenti universitari, fucilatori, spie, aguzzini e collaborazionisti della Repubblica Sociale Italiana poterono impunemente "riciclarsi" nelle istituzioni e nei partiti della neonata Repubblica al quale ne seguì subito un altro: l'ordine di disarmo dei partigiani secondo le direttive delle autorità politico-militari anglo-americane.

Così in nome della legalità e della civiltà si fermò la giustizia popolare e quindi, dopo averli processati e anche condannati, la giustizia di Stato rimise in libertà i fascisti repubblichini in nome della riconciliazione nazionale; Togliatti, nella sua veste di Ministro di Grazia e Giustizia del governo Parri aveva firmato il Decreto Presidenziale di amnistia e indulto del 22 giugno '46 rimettendo in libertà migliaia di assassini fascisti e torturatori repubblichini, tanto da sollevare appena un mese dopo la protesta all'interno dell'Assemblea costituente del socialista Sandro Pertini .

La protesta antifascista contro la mancata epurazione e la non concessione di provvedimenti legislativi ed economici in favore degli ex-internati nei campi di concentramento giunse anche trasformarsi in rivolta armata. Il 27 agosto a Milano in viale Monza, presso la sede della Federazione Libertaria Italiana, si riunirono i comandanti di 77 formazioni partigiane per prendere posizione in favore dei gruppi di loro compagni tornati sui monti e negare fiducia alla politica dell'A.N.P.I., costituendo su proposta dei militanti della F.L.I. un autonomo Movimento di Resistenza Partigiana. Il punto più alto della ribellione fu toccato, con grave proccupazione del governo, quando 28 formazioni partigiane presero posizione sulle Prealpi, informando carabinieri ed autorità civili che, se attaccati, non avrebbero esitato ad usare le armi, mentre persino la Federazione Nazionale Combattenti e Reduci dei campi di sterminio solidarizzava pubblicamente con il neonato Movimento.

Da parte sua De Gasperi, appena succeduto a Parri nella guida del governo, provvide a seppellire definitivamente l'epurazione e consentì anche che gli "epurati" potessero appellarsi contro le sentenze emesse nei loro confronti facendo ricorso proprio a quel Consiglio di Stato e a quella Corte di Cassazione che non erano stati neppure sfiorati dall'epurazione e per questo capaci di assolvere dei carabinieri che avevano fucilato dei partigiani "perchè prostrati nell'animo e fiaccati nella volontà".
Contemporaneamente nella società, erano invece i sindacati e il PCI a rendersi garanti della "riconciliazione" permettendo, ad esempio, il reinserimento alla Fiat di 1.200 capireparto filofascisti già allontanati dagli operai.
A completare il quadro, nel dicembre del '53 sarebbe intervenuto un indulto presidenziale "per i reati politici e quelli ad essi connessi, e per i reati inerenti a fatti bellici commessi da chi avesse appartenuto a formazioni armate dall'8 settembre 1943 al 18 giugno 1946". La foto che - più emblematicamente - rappresenta gli anni della Restaurazione è quella di Almirante che - protetto da imponenti forze di polizia tiene un comizio nella primavera del 1947. Un'immagine che stona vistosamente ... se rapportata a quella di Sandro Pertini
che arringa la folla nella Milano liberata appena 24 mesi prima.






[1] La disputa storiografica su via Rasella andò fin dall'inizio oltre l'episodio specifico, per diventare una condanna od un'assoluzione in blocco della Resistenza, delle sue finalità, dei suoi obiettivi. Nelle memorie dei protagonisti è da un rifiuto, morale prima ancora che politico, dell'occupazione tedesca, del nazismo e del fascismo repubblicano che nasce la Resistenza, della quale i protagonisti tendono a sottolineare prevalentemente l'aspetto di guerra di liberazione e l'alto valore etico: la violenza tedesca e fascista è il punto di partenza, il resto viene di conseguenza, e come combattenti volontari essi hanno scelto la guerra, ed i pericoli connessi, in nome di ideali di libertà e giustizia. In quest'ottica il tema delle rappresaglie viene messo decisamente in secondo piano: se la risposta è giusta, non possono certo essere le rappresaglie a fermarla. Rosario Bentivegna, uno dei gappisti di via Rasella, nella quale riferisce quanto spiegava ai suoi giovani compagni il professor Gioacchino Gesmundo: "Badate, ci diceva Gesmundo, che la nostra azione non è l'azione isolata di un gruppo di terroristi, i cui effetti e i cui risultati non hanno eco fra le masse: noi siamo gli elementi più avanzati di una lotta cui partecipa la stragrande maggioranza del popolo...Anche i nemici sanno questo: ecco perché ricorrono, e non solo in Italia, alle rappresaglie" . (cfr. Rosario Bentivegna, Achtung banditen! Roma 1944, Milano, Mursia, pp. 92-93.) Il prof. Gesmundo e don Pietro Pappagallo saranno, entrambi, tra le vittime della rappresaglia tedesca avvenuta il 24 marzo 1944 alle Fosse Ardeatine.

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