Salvador 25 anni fa
Peacereporter - 27-03-2005
Riceviamo e pubblichiamo

Perché tutto cambi
Sono passati 25 anni dall'omicidio di monsignor Romero, ma l'impunità regna ancora sovrana


Venticinque anni fa moriva, freddato ai piedi dell’altare da cui stava celebrando la messa, l'alto prelato simbolo dell’emancipazione dei poveri e della lotta per la giustizia: Oscar Romero, vescovo dell’arcidiocesi di San Salvador. A ucciderlo, con due colpi di pistola in pieno petto, due sicari armati dal regime di destra che ha oppresso il Paese per decenni.

Era il 24 marzo 1980. Un periodo nero della storia del piccolo Paese del Centro America. Gli omicidi di poveri contadini e di oppositori al regime erano all’ordine del giorno. Tutti massacri compiuti da organizzazioni paramilitari di destra, protette e sostenute dal governo. Un’era oscura, che vede al potere il generale Carlos H. Romero, il quale vince le presidenziali grazie a eclatanti brogli elettorali. Nel paese dilaga la repressione sociale e politica.
Quando viene nominato vescovo dell’arcidiocesi di San Salvador è il febbraio 1977, ma il suo arrivo non allarma chicchessia: è considerato un “uomo di studi”, un conservatore, non impegnato socialmente né politicamente, quindi non un personaggio scomodo. Da lui ci si aspetta una pastorale aliena dai problemi sociali, una pastorale concentrata sullo “spirito” e sulla salvezza eterna. Ma in poco tempo ogni previsione è smentita.

Con i poveri. Monsignor Romero inizia a lavorare con passione accanto ai più poveri, spendendo azioni e parole in nome della giustizia sociale, dei diritti umani, contro la corruzione, la disonestà, la repressione. I fatti tragici che piegano la società, il sangue della povera gente versato in nome della violenza e del potere, coinvolgono il vescovo conservatore, che si trasforma in aiuto e sostegno per l’intero popolo salvadoregno. Continui gli attestati di riconoscimento che gli arrivano dall’estero, per la sua strenua attività vicino ai bisognosi, tutti accettati in nome del popolo del Salvador.

Poi un evento tragico, l’ennesimo. Il gesuita Rutilio Grande viene assassinato per mano dei sicari del regime. Il vescovo reagisce con decisione: vuol sconfiggere l’impunità. Apre un’inchiesta e chiude per tre giorni scuole e collegi. Nelle sue omelie accusa direttamente il potere politico e giuridico. Istituisce una commissione permanente in difesa dei diritti umani. Sono trasmesse anche alla radio. Vengono pubblicate sul giornale “Orientación”. Arrivano alle orecchie di migliaia di persone. Una parte della Chiesa comincia a lasciarlo solo, additandolo come un “istigatore della lotta di classe e del socialismo”. Ma Romero invita a riflettere, a prendere coscienza dei propri diritti e ad agire prontamente per cambiare le cose.
Principi che continua a proferire fino alla fine. Ogni giorno. Senza tregua.

Nonostante le minacce. Dal ’77 all’80 cambiano i volti al potere ma il risultato è sempre quello: dittatura, violazioni, sangue. E Romero non accetta di desistere nelle sue denunce, nemmeno sotto minacce di morte. “Se mi uccideranno, risorgerò nel popolo salvadoregno”, commenta ogni volta. Poi, in quel caldo marzo tropicale, mentre eleva il calice nell’Eucarestia, viene ucciso. Queste le sue ultime parole: “In questo Calice il vino diventa sangue che è stato il prezzo della salvezza. Possa questo sacrificio di Cristo darci il coraggio di offrire il nostro corpo e il nostro sangue per la giustizia e la pace del nostro popolo. Questo momento di preghiera ci trovi saldamente uniti nella fede e nella speranza”. E i due colpi sordi rimbombano nel silenzio.

Da allora poco è cambiato. L’Associazione per i diritti umani in America Latina ha appena lanciato una denuncia affinché venga meno l’impunità che ancora regna sovrana nel Salvador. Lo fa, prendendo spunto dall’anniversario di un altro omicidio commissionato dal regime, quello di Marianella García Villas, la giovane fondatrice dell’Aldhu, nonché vicepresidente della Federazione internazionale dei diritti umani e grande collaboratrice di monsignor Romero. Fu torturata, violentata e assassinata dagli esponenti del battaglione Atlacatl, nel cantone Las Bermudas de Suschitoto, il 13 marzo del 1983.

Il movente. Impedirle di denunciare l’uso di Napalm, fosforo bianco e altre armi chimiche da parte dell’esercito salvadoregno nei massacri di contadini e indigeni che erano soliti susseguirsi in Salvador. Un omicidio, l’ennesimo, rimasto avvolto nel silenzio e nel mistero, nonostante gli anni e i governi democratici o presunti tali.

La lettera. “Il Presidente si è impegnato di fronte al suo popolo e davanti alla comunità internazionale a rispettare e a far rispettare i diritti umani – spiega il segretario generale dell’Aldhu, Juan De Dior Parra – Ecco, in nome di questo compromesso lo invitiamo e porre fine all’impunità che continua a proteggere i criminali che assassinarono Marianella. Lo invitiamo a rendere omaggio alla verità e alla giustizia, rompendo la catena dei governi indolenti che si sono susseguiti in questi 23 anni e a dare una svolta drastica alla storia salvadoregna, ordinando la detenzione e il rinvio a giudizio degli assassini”. Per questo è stata inviata una lettera intestata direttamente a Elias Antonio Saca González, presidente della Repubblica di El Salavador. “E con la stessa fermezza pretendiamo giustizia per l’omicidio di monsignor Oscar Arnulfo Romero, di Herbert Amayo Sanabría e di molti altri salvadoregni che sono caduti nell’olocausto della repressione militare”. Quindi un appello alla comunità internazionale: “Aiutateci in questa nostra missione. Aiutateci affinché tramonti l’impunità”.

In silenzio. Il Salvador ricorda oggi il suo vescovo con un pellegrinaggio silenzioso dalla Basilica del Sacro Cuore alla Cattedrale. Schiere di fedeli, provenienti da molti Paesi, sono già nella capitale. Tanti stanno visitando la piccola casa per malati di cancro che monsignor Romero fece costruire nel cortile di un ospedale.

Stella Spinelli


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 da Peacelink    - 27-03-2005
El Salvador: a 25 anni dal martirio di Mons. Oscar Romero: profezia di una morte

Assassinato ai piedi dell'altare nel 1980, il ricordo del vescovo salvadoregno rimane ancora vivo tra la sua gente. La sua vita e la sua morte, una sfida per tutta la chiesa.

El Salvador, una minuscola nazione dell'America Centrale, fine anni '70, inizio anni '80. Alla guerriglia di sinistra risponde la repressione indiscriminata dei governi di destra. Colpiti non sono solo i guerriglieri, ma anche ogni espressione popolare che cerca un miglioramento della situazione di miseria cronica in cui versa la stragrande maggioranza della popolazione (sindacalisti, politici di sinistra, leader di quartiere, sacerdoti e suore). Nel mezzo, un pastore, mons. Oscar Romero, arcivescovo della capitale San Salvador, che nelle sue omelie domenicali denuncia ogni violenza, ogni ingiustizia.
24 marzo 1980, vigilia della festa dell'Annunciazione. Ore 18:25. Nella cappella di un ospedale per malati incurabili l'arcivescovo sta celebrando la messa. È il momento dell'offertorio. Si odono due spari e il prelato cade morto. A sparargli, sicari armati dalla destra.
Sono passati 25 anni da quella sera e tante cose sono cambiate. Ma quella morte appare sempre più come il segno paradigmatico di una svolta nella coscienza dell'umanità, che orienta e illumina il cammino nel terzo millennio. Si comincia a prendere coscienza che il problema più profondo da superare non è la sfida Est-Ovest (comunismo-capitalismo), ma lo squilibrio tra il Nord e il Sud, cioè tra paesi ricchi sempre più ricchi e paesi poveri sempre più poveri, e che la via da seguire non è quella che stiamo percorrendo (violenza, terrorismo, guerra), ma quella della non violenza e della forza della coscienza dei singoli individui e dei popoli. Forse questo spiega perché, a ogni anniversario della morte di mons. Romero, ci siano celebrazioni, manifestazioni e pubblicazioni che ricordano l'evento e ne danno interpretazioni.

Persecuzione

24 marzo 1981, Milano, piazza del duomo. C'è una manifestazione promossa dalla Federazione sindacale unitaria (Cgil, Cisl, Uil) per commemorare mons. Romero. Dentro la cattedrale, il card. Martini celebra la messa della vigilia dell'Annunciazione; durante l'omelia, parla anche di mons. Romero.
Esco e mi dirigo verso il centro della piazza, dove, su una tribuna, siedono le autorità che prenderanno la parola. M'hanno telefonato per chiedere la presenza di un sacerdote: «Non troviamo nessuno disposto a venire». Un invito a un incontro un po' insolito, ma da non trascurare. E ci sono venuto.
Verso il tramonto, ecco il corteo da Piazzale Cadorna: circa 6.000 lavoratori e simpatizzanti. La piazza si riempie di bandiere rosse. Come se le sinistre volessero fare anche di mons. Romero una loro bandiera. Ma non è così. E cerco di spiegarlo, con le parole stesse del vescovo ucciso, schierato né a destra né a sinistra, ma al fianco del popolo.
Leggo un brano del discorso che mons. Romero ha tenuto all'Università di Lovanio (Belgio), meno di due mesi prima di essere ucciso: «Negli ultimi tre anni, la chiesa di El Salvador è stata perseguitata. È importante chiederci perché. Notate: non è stato perseguitato un sacerdote qualsiasi, né attaccata una qualunque istituzione; si è perseguitato e attaccato quella parte di chiesa che si è posta al fianco del popolo povero e ne ha preso le difese. La persecuzione è la conseguenza di questa scelta di assumere il destino dei poveri. La vera persecuzione è diretta contro il popolo povero, che oggi è il Corpo di Cristo nella storia. Popolo crocefisso come Cristo, perseguitato come il Servo di Jahvè. I poveri completano nel proprio corpo ciò che manca alla Passione di Cristo. Quando la chiesa si organizza e si riunisce attorno alle speranze e alle angosce dei poveri, essa subisce la stessa sorte di Cristo e dei poveri: la persecuzione».
Dico ai 6.000 presenti in piazza che mons. Romero ha condiviso il calvario dei poveri in piena consapevolezza. Una settimana prima di essere ucciso, parlando con un giornalista dell'Excelsior, un giornale messicano, ha detto: «Sono spesso minacciato di morte... Come pastore, sono obbligato, per mandato divino, a dare la vita per coloro che amo - che sono tutti i salvadoregni - e anche per coloro che mi vogliono uccidere».

Primato della coscienza

Aggiungo che l'arcivescovo ha sempre fatto appello alla coscienza di chi l'ascoltava. Non ha mai detto ai poveri e alle organizzazioni popolari: «Armatevi»; ai soldati, agli ordini dei potenti di turno, ha ripetuto: «Disarmatevi». Nella sua ultima omelia, il giorno prima della morte, si è rivolto ai militari: «Fratelli, voi appartenete al nostro stesso popolo. Voi uccidete i vostri stessi fratelli contadini. Di fronte all'ordine di uccidere dato da un uomo, deve prevalere la legge di Dio che dice: "Non uccidere!". Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine che va contro la legge di Dio. Una legge immorale non obbliga nessuno. È tempo che recuperiate la vostra coscienza e obbediate a essa, non a ordini peccaminosi. In nome di Dio, dunque, e in nome di questo popolo martoriato, i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno, vi supplico, vi prego, vi ordino: "Che la repressione finisca!"». Un chiaro invito all'obiezione di coscienza. Fu la firma della sua condanna. È stato il suo ultimo testamento.
E concludo così: «Mons. Romero ci ricorda che il solenne giuramento che i soldati fanno - in America Latina come nel resto del mondo - non deve essere più di fedeltà agli ordini di un generale, ma ai dettami della propria coscienza. E la coscienza vieta di sparare su inermi; impone la scelta di porsi al fianco dei poveri e non dei potenti che li opprimono. L'invito all'obiezione di coscienza fatto da mons. Romero 24 ore prima di essere ucciso è un messaggio profetico che la chiesa dovrà meditare. Perché forse è l'unica alternativa alla violenza fratricida».

Scaltri per il Regno

Marzo 2005. A 25 anni da quella morte violenta, s'intravede un'obiezione di coscienza ben più vasta e generalizzata: un'obiezione non solo alle armi usate male, ma anche a un mercato, a una finanza, a un voto che sono privi di etica, perché contrari al bene comune.
Dovremmo meditare di nuovo l'amara conclusione che Gesù ha tratto dalla parabola dell'amministratore disonesto: «I figli di questo mondo, verso i loro pari, sono più scaltri dei figli della luce» (Luca 16:8). I "figli di questo mondo" sono coloro che cercano solo i propri interessi; i "figli della luce", coloro che, avendo saputo che Dio ha un progetto di comunione per tutta l'umanità, hanno accettato di collaborare alla realizzazione di tale progetto. Gesù definisce i primi "più scaltri" dei secondi, perché riflettono sul modo di gestire i loro beni per garantirsi un futuro. Noi, che vogliamo collaborare con Dio perché "venga il suo Regno", per secoli non ci siamo chiesti se l'uso che facevano del denaro garantiva il futuro di tutti, la pace, la comunione. Nel commerciare, nel risparmiare e nel votare, abbiamo cercato i nostri interessi immediati, badando soltanto a non fare imbrogli. E non ci siamo accorti che, così facendo, abbiamo costruito e rafforzato meccanismi commerciali e finanziari che, a livello internazionale, «hanno prodotto ricchi sempre più ricchi, a spese di poveri sempre più poveri» (Giovanni Paolo II a Puebla, nel 1979), con il conseguente terrorismo della disperazione.
Oggi, si tentano nuove vie per servire Dio anche nell'ambito economico, sottraendoci alla cieca logica del denaro, che domanda di crescere sempre, non importa come. È apparso un settore dell'economia - il cosiddetto "terzo settore" - che si definisce "non profit": commercio equo e solidale, banca etica, ecc. Sono piccole cose, quasi insignificanti nel contesto della macroeconomia, ma tali da far crescere una presa di coscienza nelle masse, una simpatia verso forme di economia e di politica meno aggressive e più responsabili del bene comune. Anche perché non ci sono molte alternative: o questa presa di responsabilità a tutti i livelli, o il caos sempre più grande.
Questa presa di coscienza non è facile. Più che di manifestazioni (pure importanti), c'è bisogno di testimoni seri, disposti a pagare di persona. Perché non si tratta di cambiare un governo o un sistema economico: va cambiata la cultura consumistica dei popoli.
I primi cristiani non cambiarono un imperatore con un altro (sarebbe servito a poco): mutarono la cultura violenta dei popoli. Da spettatori di giochi circensi sanguinari, si passò a essere le vittime delle fiere nel circo. Finirono i giochi e il sadico divertimento di decidere della vita o della morte del vinto. Cambiamento difficile, sì, ma è accaduto varie volte nella storia. Ed è destinato ad accadere ancora. Perché non è soltanto il nostro sogno, ma anche quello di Dio. Perché un vescovo come Romero ha saputo vincere le paure e dare la vita per questo sogno.
Sapremo vincere le paure di spostare un deposito da una banca amorale a una etica? Sapremo scegliere sul mercato il prodotto meno nocivo, che non danneggia, non sfrutta né l'uomo né l'ambiente? Mons. Romero (lo proclameranno santo un giorno?), il vescovo ucciso sull'altare, ci dia la gioia di vivere in un mondo migliore, un mondo che crediamo possibile e che possiamo iniziare, già da oggi, con le nostre scelte di tutti i giorni.

Giulio Battistella
24 marzo 2005

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