breve di cronaca
Miracolo del Concilio: la Messa di tutti
Repubblica - 22-02-2005
Ero a Roma la prima domenica di Quaresima, 7 marzo 1965, quando Paolo VI vestì i paramenti per celebrare la prima messa in italiano. Con spirito missionario e il gusto intellettuale di chi ama legare visivamente le novità ad un simbolo, papa Montini non celebrò il rito in San Pietro, ma scelse una parrocchia sull´Appia Nuova, la chiesa di Ognissanti.
«Questa domenica - annunciò durante l´omelia - segna una data memorabile nella storia della Chiesa, perché la lingua parlata entra ufficialmente nel culto liturgico». La Chiesa, aggiunse, «ha sacrificato tradizioni di secoli per arrivare a tutti».
La messa in italiano rappresentò il primo, rivoluzionario frutto del concilio Vaticano II. Ma fu anche - ricordano i protagonisti di quella stagione - una forzatura, incoraggiata sotterraneamente da Paolo VI. «Un salto della quaglia! - racconta monsignor Gaetano Bonicelli, già segretario aggiunto della Cei, che a ottant´anni non ha perso il piacere del parlar vivace e figurato - Infatti il documento del concilio diceva che la messa era in latino con alcune parti in italiano». L´archivio dà ragione al vescovo. La "Sacrosanctum Concilium", la costituzione sulla liturgia approvata nel dicembre del 1963 (primo documento del Vaticano II), era molto prudente. «Si possa concedere nelle messe celebrate con partecipazione di popolo - afferma il testo non senza contorsioni - una congrua parte alla lingua volgare. Si abbia però cura che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme anche in lingua latina le parti dell´Ordinario della messa che spettano ad essi».
Eppure già per arrivare a questo primo, parziale obiettivo vi furono aspre resistenze tra i padri conciliari. Il professor Alberigo, all´epoca accanto a Dossetti teologo dell´arcivescovo Lercaro, impegnatissimo nella riforma liturgica, racconta di aver incontrato nei primi mesi del Vaticano II lo stesso Lercaro affranto per le difficoltà. «Mi raccontò piangendo che c´era un´opposizione durissima, temeva di non riuscire a superarla». In prima linea a sbarrare la strada a novità percepite come pericolose stavano i vescovi italiani e quelli spagnoli. L´argomento utilizzato dai conservatori era che bisognava salvaguardare la tradizione e il mistero dei riti. «Dicevano che il latino racchiudeva più il senso del sacro e del mistero - dicevano che così si capiva la messa da New York all´Africa!», afferma il gesuita Giacomo Martina, grande esperto della storia della Chiesa italiana.
L´intuizione di papa Montini, una volta approvato il documento conciliare, fu di affidare a Lercaro e ad un altro serio riformatore, padre Bugnini, l´incarico di guidare una commissione per preparare il nuovo messale. L´opera fu eseguita con successo. Nell´arco di un quinquennio furono pronti il nuovo messale, il nuovo calendario, i nuovi riti dei sacramenti. E intanto aveva cambiato direzione anche il celebrante, collocato all´altare in modo da guardare i fedeli.
A quarant´anni di distanza resta nell´animo di chi visse il passaggio un´emozione speciale. «Era un godimento celebrare così - esclama Bonicelli - perché il bello della lingua parlata era di avvicinare tutti di più ai misteri dell´eucaristia. I fedeli da spettatori diventavano protagonisti». Fu anche un bell´aiuto, soggiunge, «per formare religiosamente le nuove generazioni. Un fatto provvidenziale. Se oggi non fosse così, dove saremmo?».
Anche monsignor Antonio Riboldi, che in quegli anni era parroco nel Belice a Santa Ninfa, rievoca quei giorni come «svolta miracolosa». Da un lato la sensazione che «la gente capiva cosa dicevi» e dall´altro anche l´emozione per il celebrante: «Dire in italiano alla consacrazione "Questo è il mio corpo" coinvolgeva ancora di più, proprio per l´enormità di quelle parole. Era come una scossa a interrogarsi: ma cosa sto dicendo?».
Fino a prima della riforma tutto si svolgeva in un´atmosfera che oggi non è nemmeno immaginabile. «In Brianza dove sono nato e cresciuto - spiega Riboldi - il novanta per cento dei parrocchiani veniva alla messa, ma per loro il latino era un mistero. Durante il rito la gente pia recitava il rosario e gli uomini, parlo degli anni Trenta, stavano fuori della porta attendendo la fine della predica. Poi entravano per l´offertorio, la consacrazione e la comunione. In Sicilia, poi, di uomini in chiesa non ne venivano tanti. La messa era roba da donne, vecchi e bambini. Non per l´uomo».
La nuova messa portò con sé anche l´accesso dei laici a funzioni mai svolte in precedenza. Uomini e donne cominciarono gradualmente a leggere i brani biblici prima del vangelo e a creare i testi della "preghiera dei fedeli". Cominciò anche la stagione dei nuovi canti e di nuove musiche. Riboldi non ne ha un bel ricordo: «Arrivarono le batterie, i tamburi - roba da far rizzare i capelli. Mentre la gente comune si ritrovava nei vecchi canti popolari».
Come in tutte le rivoluzioni anche la riforma liturgica era stata preceduta da una lenta incubazione. Al Nord, in Francia e in Germania, le lingue nazionali erano già state inserite parzialmente nella messa per concessione papale sin dai tempi di Pio XII e comunque erano già in uso i messalini bilingui. Certi monasteri, come Maria Laach in Germania, registravano un afflusso eccezionale di giovani la domenica proprio perché il rito era capito nella lingua quotidiana. Ma l´idea sacrale del latino rimaneva nonostante tutto fortissima. Padre Martina confessa che vedendo un giorno alla televisione una messa a Parigi, in cui la consacrazione veniva detta in francese, esclamò: «Qui si sta esagerando!».
Su questo mito si basò il contrattacco del vescovo francese Marcel Lefebvre, che definì la riforma liturgica «massimo errore» del concilio, accusando praticamente di eresia i testi conciliari e i papi che li avevano promulgati. L´antica messa post-tridentina di Pio V, naturalmente in latino, divenne il vessillo del suo movimento tradizionalista in rottura aperta con il Vaticano. Lefebvre stesso fu scomunicato nel 1988 per aver ordinato vescovi per il suo movimento. Da allora, sebbene Giovanni Paolo II abbia accordato il permesso di celebrare messe anche con il vecchio rito, la rottura non si è mai sanata.
Giovanni XXIII, che aveva messo in moto la valanga del concilio, non poté più assistere agli enormi cambiamenti che si produssero. Ma Loris Capovilla, il suo antico segretario, ci apre uno spiraglio sul modo profetico con cui sapeva introdurre delle novità. «Stava in Turchia nel 1936 e pensò che sarebbe stato bello dire una preghiera anche nella lingua del posto. Così decise che alla benedizione del santissimo sacramento nella cattedrale di Santo Spirito a Istanbul avrebbe detto "Dio sia benedetto" in turco. Apriti cielo! Non era un rito, si badi bene, era soltanto una devozione. L´ambasciatore francese protestò presso la Santa Sede, dichiarando che "Roncalli stava sovvertendo la liturgia". Una protesta ufficiale».
E come andò a finire? «Dopo un po´ Roncalli venne a Roma, chiamato da Pio XI, e durante l´udienza aspettava continuamente di essere rimproverato. Visto che il papa non affrontava l´argomento, disse lui stesso: "Ho sentito che Sua Santità si è lamentata per certe mie iniziative - ma era un pensiero per il paese che ci ospita". Pio XI lo guardò ed esclamò in latino: "Qualcuno semina e qualcun altro farà la mietitura". Così».
Andò a finire che Roncalli divenne pontefice e, quando il presidente della Turchia giunse in visita ufficiale nel 1960, Giovanni XXIII ricordò quell´episodio commentando: «Ma Pio XI non fu profeta. Perché io ho seminato e io faccio la mietitura».
È proprio vero, i mulini di Dio macinano lenti.

MARCO POLITI

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Polemica e curiosità in un articolo del ´65 di Mauro De Mauro

Nella West Point degli eredi di Lefebvre


E finì il "requie e schiatta in pace"

«Palermo prima della riforma deliberata dal Concilio Ecumenico, il sacerdote diceva, nell´aprire il rito: "Introibo ad altare Dei" e molti dei fedeli non capivano il significato di quelle formule astruse. A Napoli, le donnette in chiesa recitavano l´orazione dei defunti in latino e interpretavano il "requiescant in pace" - riposino in pace - come requie e schiatta in pace. A Milano ho sentito trasformare il "nunc et in hora mortis nostrae" (adesso e nell´ora della nostra morte) in incantinora nostra morte. Da domani tutto questo è finito, i feticismi, i riempitivi d´origine medioevale con cui si era soliti colmare i vuoti che si stabilivano fra officiante e fedeli durante la celebrazione della Messa sono banditi dalle chiese. Resta sola e scarna la preghiera di chi crede».
Così Mauro De Mauro, il giornalista coraggioso che verrà ucciso per il suo lavoro a Palermo, annunciava la riforma del rito della Messa. Ed il suo articolo era la strada con cui il giornale l´Ora, un quotidiano divenuto sinonimo della voce libera di Palermo in quegli anni pesanti, tentava di aprire il dibattito a Palermo.
Non a caso, perché proprio Palermo rappresentava una delle roccaforti della resistenza alle aperture del Papa. De Mauro parlava ai cattolici che si aprivano ai "segni dei tempi", mentre l´influente cardinale Ernesto Ruffini non nascondeva i toni anticonciliari. È lo stesso cardinale che fu accusato di passività nei confronti del problema-mafia. De Mauro non può certo dimenticarsene. Sceglie di mettere in mostra la resistenza su tutti i fronti del cardinale al cambiamento, raccontando con ironia il suo intervento su un altro aspetto della riforma: «La nuova liturgia prevede modifiche di struttura all´interno di ciascun tempio, che devono essere approvate da varie Commissioni - scrive ancora -. Ma anche per le chiese non soggette ad alcun vincolo conservativo il cardinale Ruffini ha consigliato ai parroci una certa ponderatezza nell´affrontare le necessarie trasformazioni». E infine, con semplicità all´inizio dell´articolo: «Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo - salirò all´altare di Dio. Così, da domani, diranno i sacerdoti aprendo il rito della Messa».

FABRIZIO RAVELLI
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