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Nel paese delle tre T
La rilettura proposta è quasi un’appendice al post del 9 febbraio dal titolo “ Quanto costa diffidare della scienza “, là dove si denunciavano le miopie di un sistema politico-economico-finanziario che tarda, o di già ha perso l’occasione storica, di rivitalizzare il settore scientifico del bel paese e la ricerca di base, che ne costituisce un aspetto non secondario, anche se spesso non remunerativo all’istante.
In questa rilettura di una intervista di Giuseppe Turani all’imprenditore Zamperini apparsa sul settimanale “ Affari & Finanza “, l’attenzione si sposta su aspetti sinora impensati ma che sembrano assumere un importante rilievo per il progresso scientifico e tecnologico delle società moderne e tecnologicamente avanzate.
E qui si sconta il ritardo anche culturale e di costume del bel paese, in fatto di accettazione del diverso, dello straniero-migrante, delle nuove associazioni familiari, allorquando esso si fa rappresentare nell’ambito internazionale da personaggi alla Tremaglia Mirko, quello proprio dei “ culattoni ” di recente memoria, o di uno alla Calderoli Roberto che, per via forse del mestiere esercitato nella sua libera padania, si sente autorizzato di pensare sempre “ fuori dai denti “, con una completa sconnessione con ben altri organi pensanti del suo corpo. Ha solennemente dichiarato in data recente:

“ ( … ) Dopo aver creato, con la sentenza del giudice di Milano, un’area franca per terroristi-guerriglieri, il pronunciamento del giudice di pace di Torino sta creando il paradiso dei gay irregolari. Povera Italia, un tempo terra di santi, di poeti e di navigatori, e oggi, terra di terroristi e di finocchi irregolari ( … ).

E se questi sono gli illuminati governanti preposti al benessere sociale, economico e culturale del bel paese, la speranza, sempre ultima a morire, così come recita un detto molto popolare, è più che morta.
Ed è pur vero che essendo essi, dico i governanti del bel paese, fermi ancora alla realizzazione delle tre “ I “, occorreranno secoli affinché arrivino alla realizzazione delle tre “ T “.

«In certi ambienti ormai non si fa altro che parlare delle tre T, al punto che rischia di diventare una cosa banale. Invece le tre T sono importanti e bisognerebbe rifletterci sopra sul serio».

Marco Zamperini, capo dei laboratori di ricerca di Etnoteam e guru dell'informatica italiana, non nasconde di essere affascinato dalla questione delle tre T. Cerchiamo, allora, di spiegare intanto che cosa sono le tre T.

«E' molto semplice: si tratta di Tecnologia, Talento e Tolleranza. La storia nasce da un libro del ricercatore Richard Florida ( … ). Si tratta di una teoria che è venuta fuori facendo ricerche in America. Nel tentativo di spiegare perché alcune città che apparentemente avevano tutto (grandi laboratori, grandi università), poi non sono decollate) dal punto di vista scientifico e economico».

E quale è stata la risposta di Richard Florida?

«La teoria, appunto, delle tre T. Non basta la tecnologia, ci vogliono anche i Talenti e la Tolleranza. Ognuna di queste tre condizioni è necessaria, anche se poi da sola non è sufficiente».

Se Tecnologia e Talento sono requisiti abbastanza ovvi, che cosa c'entra la Tolleranza?

«E invece si tratta proprio della Tolleranza, anche se capisco che la cosa può non piacere a molti. Florida ha studiato le grandi città americane e, fra le altre cose, per misurare la Tolleranza, ha preso come indicatore l'indice di concentrazione dei gay nelle varie città. Non ha fatto giri di parole, insomma. E' andato dritto sul problema. E ha scoperto, ovviamente, che le aree in cui, insieme al Talento e alla Tecnologia, c'è molta Tolleranza, sono quelle che sono cresciute meglio».

Si è chiesto perché?

«Se lo sono chiesto in tanti, a partire da Richard Florida. E la questione sembra avere questa risposta: è proprio la Tolleranza che ti consente di mischiare il tutto e di far decollare l'area».

Ma perché?

«Perché Tolleranza significa che in quell'area c'è una mentalità aperta, significa che il nuovo non fa paura e che non si guarda tanto a come uno è vestito. In termini più sofisticati potremmo dire che quando un'area è Tollerante in quell'area non c'è paura di ciò che "ancora non è", non c'è paura quindi nella ricerca, nella sperimentazione».

E forse è anche un modo per attirare i Talenti.

«Certamente. Non sappiamo da dove sbucano fuori i Talenti. E non è affatto detto che abbiano tutti il nostro stesso colore di pelle, la nostra stessa religione, la nostra stessa cultura. Possono essere anche molto diversi (nel senso che magari sono indiani, africani, ecc.). E i diversi sanno, naturalmente, di essere un po' diversi: quindi andranno nelle aree in cui la Tolleranza è maggiore, in cui sanno che saranno apprezzati per quello che fanno e non discriminati per quello che sono».

E le cose funzionano veramente così? Lei è a capo dei laboratori di ricerca Etnoteam, un migliaio di persone che lavora sull'informatica. Da voi c'è Tolleranza?

«C'è sempre stata, sin dalla nascita della società. Che si chiama Etnoteam, da team e da etno, perché si pensava di fare un'operazione etnologica, cioè di mescolamento delle culture. Quando la società è partita, diciotto anni fa, non c'erano nemmeno gli informatici e allora si accettava chiunque, purché sapesse fare le cose».

( … ) A proposito di Tolleranza e quindi di non discriminazione, da voi lavorano molte donne?

«Circa il 35 per cento. E, mi creda, non sono tutte segretarie».

Lasciando stare per un momento l'America, in Europa come siamo messi con le tre T?

«Hanno fatto calcoli e ricerche. E il risultato, come forse era prevedibile, è che quelli messi meglio sono i paesi nordici».

Ma come, l'Italia non è un paese creativo?

«Non molto. Anzi, nelle classifiche messe a punto per valutare le tre T siamo messi piuttosto male, per la verità».

Cioè?

«Come Talento siamo al tredicesimo posto in Europa, come Tecnologia all'undicesimo, e come Tolleranza siamo al decimo posto».

Vuol dire che siamo un paese intollerante?

«Non arrivo a questo, dico che dalle ricerche fatte non usciamo molto bene. E’ un fatto che i paesi nordici sono molto davanti a noi».

Dove sbagliamo, secondo lei?

«Le posso fare un paio di esempi. Il primo riguarda i paesi emergenti che stanno intorno a noi, nel Mediterraneo. Il nostro atteggiamento è quello di vederli più come un minaccia che come un'opportunità. C'è più la paura dell'arabo che potrebbe farci chissà che cosa, piuttosto che l'idea che in quei paesi si può giocare parte del nostro futuro. E questo è un errore che nasce da paure antiche, irrazionali, sbagliate. Si basa su falsi ragionamenti, sulla cultura dell'intolleranza».

Il secondo esempio?

«Questo attiene all'esperienza quotidiana. Se incontriamo un giovane indiano spesso siamo portati a pensare che il suo destino, qui da noi, sarà quello di stirarci le camice. Non pensiamo che potrebbe essere un bravissimo ingegnere».

Ma lei crede davvero che la Tolleranza giochi un ruolo importante nello sviluppo di cose, ad esempio, come l'informatica?

«Le posso fare l'esempio di Milano. Altre città hanno esattamente quello che ha la capitale lombarda. Qui però l'informatica cresce meglio. Probabilmente perché, rispetto a altre città, c'è un rimescolamento maggiore delle culture, c'è più Tolleranza».

Però, dice lei,non è così tutta l'Italia.

«No. Sappiamo tutti che ci sono città molte chiuse. Dove integrarsi risulta difficile anche per uno che è nato solo a qualche centinaio di chilometri di distanza».

Secondo la sua personale esperienza, dovendo dare una pagella con voti da zero a 100, come siamo messi?

«Ripeto: non benissimo. I dati delle ricerche internazionali li abbiamo visti prima. La mia valutazione personale è questa. Come Tecnologia abbiamo il 70 per cento di quella che ci servirebbe, come Talenti siamo al 50 per cento, e come Tolleranza saremo al 30 per cento».

Quindi per andare avanti bisogna cambiare?

«Le cifre del nostro sviluppo (modesto) sono lì a dimostrarlo. Probabilmente è vero che le tasse sono troppo alte, che la pubblica amministrazione non fa questo e non fa quello, ma dietro a tutti questi limiti c'è anche il fatto che non siamo ancora un paese aperto, tollerante, fiducioso. Non siamo ancora un paese dove uno, se sa fare qualcosa, sa che questo è l'unico metro in base al quale verrà giudicato. Contano ancora una serie piuttosto lunga di pregiudizi. Pregiudizi che diventano qualcosa di più quando arriva uno da un altro paese, da un'altra cultura. E questo è un errore».




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