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I nuovi ghetti del mondo di Boutros Boutros-Ghali
Aldo Quagliozzi - 01-01-2005
Disturba forse la rilettura che si propone in questa occasione e che fa un tutt’uno con le drammatiche vicende del sud-est asiatico?
Disturba forse questa rilettura nell’imminenza della conclusione dell’anno, il quinto del nuovo millennio, ma che caparbiamente ripercorre le strade degli anni del millennio precedente, quello della bomba atomica, delle guerre mondiali, delle tragedie dovute alle contaminazioni ambientali, quello che ancora non era divenuto avvezzo alle guerre preventive, quello del terrorismo non ancora globalizzato, quello della fame per la stragrande maggioranza degli uomini, degli uomini per l’appunto, e non della fame degli altri?
Se tutto ciò può continuare a “ disturbare “ le coscienze dei tanti, non ancora addormentate al beato sonno mediatico, lo scritto di Boutros Boutros-Ghali, segretario generale dell’Onu dal 1992 al 1996, potrebbe essere un momento di vissuta riflessione sulle sorti del pianeta Terra e dei suoi più sfortunati e reietti abitanti.


“ Nuovi ghetti spuntano in tutto il mondo. Differiscono dai vecchi ghetti per natura e dimensioni e il loro numero cresce di giorno in giorno. Possono avere le dimensioni di un quartiere periferico, di una nazione, di una regione o di un continente.
Si trovano, per cominciare, nei 49 cosiddetti Paesi meno avanzati, la maggioranza dei quali dislocata nell’Africa sub-sahariana.
Ci sono poi gli “Stati in disarmo” il cui numero fluttua in ragione dell’accendersi e dello spegnersi di conflitti violenti sia tra Paesi che all’interno dei Paesi stessi: ad esempio, Afghanistan, Somalia, Sierra Leone e Liberia. In questa stessa categoria troviamo i campi per i profughi e gli sfollati, alcune popolazioni indigene e le minoranze oppresse.
Infine vi sono le aree povere delle megalopoli, migliaia di sacche di miseria che si sviluppano non solo nei Paesi poveri, ma anche in quelli molto ricchi e che taluni definiscono il Quarto Mondo.
Ma solo nel Terzo Mondo questi diversi fenomeni si sommano e si stratificano uno in sopra all’altro.
A prescindere dalle loro differenze, i nuovi ghetti sono simili in quanto ospitano centinaia di milioni di persone che soffrono e che debbono lottare ogni giorno solo per sopravvivere.
La diffusa convinzione secondo cui la miseria nel mondo sarebbe diminuita, è sbagliata. La riduzione della povertà evidenziata dagli ultimi dati ufficiali è da mettere in relazione in larga misura alla notevole espansione dell’economia cinese cresciuta mediamente del 9% l’anno nel corso degli anni ’90.
Ma nel medesimo periodo molti Paesi in via di sviluppo hanno conosciuto una fase di stagnazione o persino di recessione. Oggi 54 Paesi in via di sviluppo sono più poveri di quanto fossero nel 1990.
Le cause di questa regressione sono svariate. Quando la ragione era politica era per lo più il prodotto del fallimento dello Stato: in Somalia, Sierra Leone e Liberia dove il potere era diventato sinonimo di cleptomania e la corruzione si era andata diffondendo come una cancrena nella macchina dello Stato o dove, come nei territori occupati palestinesi, l’autorità nazionale era stata distrutta o smantellata.
In altri casi il conflitto violento è stato il principale ostacolo allo sviluppo. Tra il 1990 e il 2001 ci sono stati 57 grossi conflitti in 45 aree diverse, 13 nei Paesi più poveri della terra.
L’Africa è stata la più duramente colpita anche se non è stata risparmiata nessuna delle zone in via di sviluppo.
Nel campo dell’economia va osservato che nel medesimo decennio il debito estero dei Paesi poveri è aumentato mentre i prezzi delle materie prime esportate da questi Paesi è crollato.
Inoltre i Paesi industrializzati hanno tagliato gli aiuti, sebbene l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite abbia adottato la Risoluzione n. 2626 che invitava tutti i Paesi a destinare all’aiuto allo sviluppo almeno lo 0,7% del Pil. A trenta anni di distanza i Paesi più ricchi del mondo destinano agli aiuti allo sviluppo appena lo 0,22% del Pil mentre gli Stati Uniti vi destinano soltanto lo 0,1%. Tra le cause connesse alla salute c’è l’Aids che in alcune parti del mondo ha di fatto rovesciato negli ultimi decenni il processo di sviluppo.
Nel 1990 le persone contagiate erano 10 milioni; oggi sono quasi 42 milioni. L’Aids ha causato la morte di 22 milioni di persone e ha creato 13 milioni di orfani.
Ci sono poi le cause sociali come l’esclusione di alcuni gruppi etnici – ad esempio in Ruanda – o il controllo del territorio da parte di organizzazioni di tipo mafioso, come in Birmania o in Colombia.
Non propongo soluzioni nuove per questo flagello che è uno dei maggiori scandali del nuovo secolo.
Penso tuttavia che dovremmo muovere da un principio molto chiaro. Dobbiamo comprendere che la lotta alla povertà non consiste nel seguire pedissequamente un qualche modello importato o imposto dall’estero e che non è possibile conseguire lo sviluppo sacrificando la propria identità.
Obiettivo di questa lotta deve essere quello di raggiungere un livello minimo di prosperità, di dignità e di libertà tutelando e mantenendo, al contempo, il rispetto per la storia, la cultura, la lingua e le tradizioni.
È necessario prendere in considerazione la profonda diversità di situazioni tra quanti hanno disperato bisogno di assistenza.
Le richieste degli abitanti di Monrovia durante la guerra civile, degli abitanti di una favela e di un gruppo di rifugiati non possono essere affrontate allo stesso modo. Ogni situazione ha le sue caratteristiche e richiede una risposta specifica.
Analogamente, e senza sottovalutare l’importanza degli aiuti di emergenza, sono del parere che questo tipo di intervento vada evitato in quanto è efficace solo sul breve periodo.
Sempre più frequentemente ci accorgiamo che, una volta passata la crisi e ristabilita la pace, la zona in oggetto viene abbandonata al suo destino e quindi è destinata con quasi assoluta certezza a precipitare di nuovo nella miseria.
La lotta alla povertà deve consistere in una politica di lungo periodo e deve essere attentamente e continuamente controllata. “



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