breve di cronaca
I topi che salvarono il Canto di Natale
Repubblica - 25-12-2004
Un organo infestato dai topi, così nacque la Canzone delle feste
Il segreto del successo della melodia è nella semplicità, ma anche nel caso
Il mastro chiamato a riparare lo strumento sentì il motivo e lo diffuse

di TIMOTHY GARTON ASH

La vigilia di Natale del 1818, Josef Mohr, curato del villaggio di Oberndorf in Austria, fece visita al secondo organista, Franz Gruber, insegnante del paesino vicino.
Ho scritto un canto natalizio, gli disse, me lo musicherebbe per coro con accompagnamento di chitarra? Quando le serve?. Oh, per stasera. Il coro dovrebbe cantarlo alla messa di mezzanotte. Così Gruber si sedette e buttò giù alla svelta un brano. "Stille Nacht, Heilige Nacht".
Il punto è che domani sera non potremmo ascoltare la melodia di Stille Nacht ("Astro del ciel") in centinaia di migliaia di chiese, cappelle e case in tutto il mondo, in trecento lingue diverse, dal catalano al Tagalog, né sorgerebbe presso il Bronner´s Christmas Wonderland di Frankenmuth, Michigan (gigantesco store dedicato al Natale n.d.t.) una copia alta 17 metri della cappella che, a Oberndorf, ricorda la chiesa originale di S. Nicola, e neppure potremmo acquistare un modellino della cappella versione carillon con la melodia di Silent Night come "regalo aziendale" per 29,99 dollari, nulla di tutto ciò accadrebbe se non fosse stato per i topi nell´organo della chiesa di S. Nicola.
Per via dei topi annidati nell´organo - almeno così dice la storia, ma forse erano ratti, o magari solo polvere - lo strumento doveva essere riparato. Fu questo il motivo che portò Karl Mauracher, mastro costruttore di organi, dalla valle di Ziller alla chiesa di Oberndorf. Udì il canto e ne portò una copia con sé nella sua valle. Lì suonò o cantò la melodia alle sorelle Strasser, che dovevano essere qualcosa di vagamente simile alla combriccola di Julie Andrews in "Tutti insieme appassionatamente". Le sorelle Strasser inserirono Stille Nacht nel repertorio di canzoni che gorgheggiavano in giro per i paesi di lingua tedesca dell´Europa centrale vendendo guanti. Sembra che un altro gruppo di sorelle canterine, le Rainer, abbia eseguito il brano, ormai un successo popolare, al cospetto degli imperatori di Austria e Russia, e lo abbia portato in America nel 1839. (Pare proprio che in Europa centrale non si potesse attraversare la strada senza cadere nell´agguato di un banda di sorelle canterine austriache).
Così Stille Nacht iniziò il viaggio che l´ha portata a diventare il canto natalizio più famoso del mondo. La melodia è senz´altro gradevole, e neppure le parole sono male, almeno la prima strofa, anche se personalmente nutro una lieve preferenza per questa versione taiwanese.
Peng-an mi! Seng-tan mi!
Ching an-cheng! Chin kng-beng!
Kng chio lau-bu chio Eng-hai,
Chin un-sun koh chin kho-ai,
Siong-te su an-bin,
Siong-te su an-bin.

Ma è la melodia che crea l´incanto. Gran parte del suo fascino nasce dalla semplicità. Fu perché Franz Gruber aveva a disposizione solo poche ore per buttarla giù e farla provare al coro, oltre che per tagliare la legna per il fuoco, mungere la capra e spennare l´oca per il pranzo di Natale? O perché l´organo si era rotto e la musica doveva essere necessariamente semplice per la chitarra? Oppure perché era consapevole delle limitate capacità musicali di quel coro di paese? Qualunque sia la causa, la semplicità la rende universale.
Esistono probabilmente centinaia di altri canti altrettanto belli e sicuramente altrettanti inni di natale composti da dilettanti di pari qualità. Che cosa ha fatto di Stille Nacht uno straordinario successo mondiale, un brano forse ancor più universalmente noto di Yellow Submarine dei Beatles? Risposta: i topi nell´organo. In altre parole: il caso, la sorte, la fortuna. O meglio, come è consuetudine in questi casi, tutta una serie di fortunate coincidenze ? ammesso che, nello spirito di generosità che caratterizza questo tempo, nella vostra definizione di buona sorte rientri il finire come regalo aziendale sugli scaffali del Bronner´s Christmas Wonderland.
Napoleone ne era consapevole quando, riferendosi ad un alto ufficiale che gli era stato raccomandato pose il famoso quesito : «È fortunato?». Machiavelli sostiene ne Il principe la tesi che la fortuna sia arbitra solo per metà delle cose umane e lasci al controllo dell´uomo l´altra metà. Eppure per lo più agiamo come se la quota del nostro destino che siamo in grado di controllare fosse assai più ampia. Ci sembra che il successo e la ricchezza dipendano dalla particolare abilità delle persone, il fiorire di un´impresa dalla buona gestione. E soccombiamo costantemente a quelle che Henri Bergson definisce «le illusioni del determinismo retroattivo». Dal momento che una cosa è accaduta, giocoforza doveva accadere. Ci dovevano essere delle buone ragioni. È come se non riuscissimo ad accettare l´idea che tanta parte è frutto del caso. Se così è, perché spendere energie?
Anche la religione che Stille Nacht esalta esprime questo concetto: «non è degli agili la corsa, né dei forti la guerra e neppure dei sapienti il pane e degli accorti la ricchezza e nemmeno degli intelligenti il favore, perché il tempo e il caso raggiungono tutti». Tuttavia il cristianesimo indica un altro modello di più ampio respiro in cui lo sforzo in questa vita viene ripagato in quella che verrà. Una lapide nella cappella di Oberndorf mostra Josef Mohr intento ad ascoltare da una finestra del Paradiso i bimbi che intonano il suo canto sulla terra.
E se accettassimo la semplice, comprensibile verità che in fin dei conti per metà tutto dipende dal caso? È davvero così intollerabile? Consola di più pensare che la tragedia colpisca per un motivo o senza motivo? Per colpa di un gene vagante, di un demone, di una causa socioeconomica o semplicemente per caso? Sapere che la buona sorte di ciascuno può essere attribuita per metà esatta al caso, facilita o peggiora le cose?
Ovviamente la buona sorte non prescinde dall´altra componente. Bisogna anche agire. Quindi, con la serena consapevolezza che metà di ciò che sarà è affidato al fato, intanto scrivete la canzone. Andate da un amico e chiedetegli di buttar giù una melodia in tempo per poterla eseguire la sera. Poi mettetevi comodi ad aspettare i topi nell´organo. In ogni caso, vi resterà il canto.

(Traduzione di Emilia Benghi)
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 Pierangelo    - 25-12-2004
Riporto da Edumus.com - 5.12.2004

Tu scendi dalle stelle

di Carlo Delfrati
da 'ScuolAmadeus' di dicembre 2004

“Non farò più cantare Tu scendi dalle stelle nella mia scuola, che è una scuola statale – scrive un insegnante - perché nella mia classe ci sono due musulmani, una shintoista, un ebreo, una testimone di Geova e tre atei, e non intendo calpestare i loro diritti: Natale è una festa cristiana, e non è giusto farla celebrare con musiche e canti anche a loro”.
La questione affiora improvvisa in questi tempi di forte immigrazione, e assume toni a volte polemici. Dall’altro fronte si risponde che così ragionando si calpestano i diritti della maggioranza: Natale è una delle ricorrenze più importanti della tradizione italiana ed europea, e non è giusto rinunciarvi solo per rispetto verso i nuovi arrivati; è l’ospite che deve adattarsi alle norme dell’ospitante...
Con l’avvicinarsi del Natale, sono in effetti molte le scuole che si preparano alla ricorrenza con letture, disegni, canti, musiche da ascoltare. Il repertorio delle musiche e dei canti natalizi è uno dei più ricchi e vari che si conoscano nella tradizione europea, dal gregoriano a Messiaen e oltre, e c’è solo l’imbarazzo della scelta.
La maggioranza dei nostri insegnanti continua come sempre. Ma si vede insidiata da una minoranza crescente che intende farsi portavoce dei gruppi non cristiani presenti nelle nostre scuole...
Diritti calpestati, dunque, quelli dei non-cristiani? Credo che si debba far chiarezza sulla questione, togliendo di mezzo certi equivoci.

Il canto come atto di culto
Se in chiesa canto Tu scendi dalle stelle in atteggiamento devoto, sto pregando con la parola cantata invece che semplicemente parlata: la parola scritta da Sant’Alfonso de’ Liguori, che prendeva a prestito un motivo popolare preesistente, già presente nel Messia di Händel pochi anni prima. L’intero repertorio gregoriano nasce con questa intenzione: pregare Dio, la Madonna, i santi del cristianesimo. Cantando si prega meglio. San Giovanni Crisostomo attribuisce l’intuizione a Dio stesso: “Dio, visto che la maggioranza degli uomini erano indifferenti, poco disposti a leggere le cose spirituali e a sopportarne volentieri la fatica, volle rendergliela più piacevole: aggiunse la melodia alle parole profetiche, di modo che, attratti dal ritmo del canto, tutti gli rivolgano con ardore i santi inni”. Il canto in questi casi è un vero e proprio atto di culto. E lo è sia che lo si canti in chiesa, o che lo si canti in classe.
Ma la stessa canzone potrebbe essere cantata in un contesto e con una motivazione completamente differenti.

Il canto come oggetto di studio
Vediamone alcuni. L’insegnante potrebbe aver messo in programma una lezione su influssi, derivazioni, citazioni in musica. Può scegliere una melodia che ha avuto speciale fortuna, come la sequenza medioevale Dies irae e mostrare come abbia attraversato i secoli, da Ockeghem a Lully, da Berlioz a Liszt, da Eugène Ysaïe a Luigi Dallapiccola. Una lezione di storia della musica, della musica europea s’intende, come momento insostituibile per una riflessione sul concetto stesso, più astratto, di influsso culturale. Un altro insegnante può ricostruire la trama che collega in una medesima costellazione semantica il concetto cristiano di Gesù pastore delle anime; il pastore mitologico che fa visita alla capanna; lo strumento del pastore, la zampogna; il ritmo dondolante della pastorale; arrivare alla melodia natalizia napoletana Quanno nascette Ninno, diventata He shall feed his flock nel Messia handeliano, e Tu scendi dalle stelle nel libro di preghiere di Sant’Alfonso: un’altra lezione di storia della musica. Un altro ancora, più semplicemente, si serve di quel canto nell’ora di grammatica musicale, per spiegare il tempo composto e sperimentare cosa diventerebbe un canto come il nostro se fosse trasformato da tempo composto a tempo semplice.
Non occorre essere cristiani per svolgere una lezione del genere. L’insegnante può anche essere un mangiapreti, come si usa dire. Sceglie Tu scendi dalle stelle perché in classe molti la conoscono già e gli facilitano il compito. Quel che vale per l’insegnante perché non dovrebbe valere per l’alunno? Anche perché la volta dopo lo stesso insegnante potrebbe illustrare il concetto di derivazione lavorando in classe sul CD contenente i raga indiani; oppure mostrare come la “scala araba” sia presente un po’ in tutta l’area mediterranea dell’Europa (con quei caratteristici intervalli di seconda eccedente); oppure potrebbe approfondire il concetto di tempo e metro utilizzando un canto sefardita o una danza sacra musulmana. Cose un po’ più complicate solo perché non è detto che l’insegnante ne abbia competenza sufficiente, e poi perché per niente familiari non solo ai suoi ragazzi italiofoni ma anche agli immigrati (e non è detto che la ben più conosciuta Avril Lavigne – che sembrerebbe appartenere alla koiné dei gusti adolescenziali - non incontri le stesse resistenze ideologiche di quelle suscitate da Sant’Alfonso).
In tutti questi casi l’obiettivo dell’insegnante non è far pregare i ragazzi; è istruirli sul linguaggio musicale: sia nei suoi aspetti formali/grammaticali, sia nei suoi aspetti simbolici/semantici, questi ultimi a forte valenza interdisciplinare. Non si studiano nelle nostre scuole le conquiste di Maometto e l’espansione dell’Islam? Non si studiano le religioni del mondo? Cosa succederebbe allo studio della storia della musica europea se si dovesse cacciarne fuori il repertorio sacro? A cominciare dai Conservatori, che sono scuole statali!
Dopo l’atto di culto, ecco dunque un secondo uso possibile dei canti di Natale: come esperienza storica e linguistica. E questa è un’esperienza squisitamente laica: non ha niente a che vedere con le fedi. Musulmano o indù o ateo, se vuoi diplomarti in Conservatorio devi anche conoscere e avere ascoltato e praticato, Palestrina e Bach, Pergolesi e César Franck, Messiaen e Gorecki.

Il canto come rappresentazione
Ma laico è anche un terzo modo di usare i canti natalizi, e riguarda l’uso rappresentativo. Il teatro è un’altra incresciosa lacuna della nostra scuola, mitigata di quando in quando dallo spettacolino di fine anno. Di solito in questi saggi la musica non manca. Lo spettacolo può prendere ispirazione dalla tela di Penelope, o dal viaggio di Gilgamesh, dalla vita di Gandhi, o dai riti dei Bacanghi centroafricani. Perché non dovrebbe prendere ispirazione dalla vita di Gesù, o da uno qualunque degli episodi biblici, così ricchi di storie avventurose e affascinanti? L’attore che recita Mefistofele sa di avere i piedi ben al di qua dei mondi, non nell’aldilà. In un racconto di Natale anche la preghiera è propriamente “rappresentazione della preghiera”. Chi canta “Dio di Giuda” dal Nabucco o “Nume custode e vindice” dall’Aida sa che non sta pregando ma “rappresentando” una preghiera. La ragazza che impersona Maria piangente alla croce non sta pregando, sta interpretando la parte. Nessuno le chiede di essere cristiana, può anche essere taoista o atea. Sacre rappresentazioni dunque: che se nelle loro origini europee erano veri e propri “drammi liturgici”, quindi “atti di culto”, già nel XV secolo avevano perso quel carattere ed erano diventati spettacoli, tout court, da recitare in piazza, magari dagli stessi giullari che a carnevale allestivano lo spettacolo osceno e anticlericale.
Una quantità di canti natalizi è di questo tipo. Nascono sì in ambienti cristiani, certo non in ambienti indù o musulmani. Ma potrebbe benissimo averle inventate un ateo. Così come tante Messe e Avemarie sono state composte da musicisti atei: come sempre, Parigi (in questo caso il guiderdone per uno che tiene famiglia) val bene una messa! Non ho bisogno di essere scintoista per progettare un bel tempio per la comunità giapponese di Kyoto (sempre che ne sia capace e che la parcella sia invitante).

Educare alla tolleranza
Che poi sia facile far accettare queste cose a chi ha difficoltà ad ammettere la distinzione, questo fa parte del problema più grande della integrazione culturale, nel crogiolo di etnie e di mentalità anche religiose nel quale sta ribollendo e riplasmandosi la nostra società. Per la scuola, la capacità di cogliere le differenze non può essere considerata un presupposto, un “prerequisito” come si dice nel gergo, bensì un obiettivo da raggiungere. Si parla normalmente di Maometto nell’ora di storia (e magari di religione) delle nostre scuole: l’insegnante sa che non è più il tempo di essere manichei e di dipingere il profeta tra i dannati, come faceva il pittore del Duomo di Bologna. Al bimbo e alla sua famiglia musulmana, o buddista o indù, si parlerà allo stesso modo di San Giovanni e San Pietro. Come i riti, le immagini e le preghiere stesse possono diventare oggetto di confronto, di studio multiculturale, così possono entrare nel progetto educativo i canti religiosi di ogni civiltà: magari per scoprire che come le raffigurazioni pittoriche di Dio (fossero anche solo i simboli geometrici dell’islam o degli ebrei) ci fa capire molto di come pensano Dio i fedeli che le creano e le riveriscono, così i canti religiosi del confucianesimo, del buddismo, dell’islam, dell’animismo, del cristianesimo hanno tanto da farci capire delle rispettive credenze.
Certo, un compito impegnativo. Ma è forse l’unico che permetta di educare alla pacifica convivenza. L’intolleranza è l’avversario che le nostre democrazie si trovano a dover disarmare: un avversario duro se si pensa che ad essere rifiutati a volta come “canti di Natale” sono anche canzoni che col Natale c’entrano ben poco: c’entrano solo o perché a Natale fa freddo e nevica anche, almeno quando le preghiere degli sciatori vanno a buon fine; o perché è convenzione che ci si scambino regali. Cosa che anche a un ateo fa di solito molto piacere. We wish you a merry Christmas, auguri di buon Natale, lo può cantare ai suoi compagni cristiani anche un brahmano (e loro lo ricambieranno con un canoro OM il giorno di nascita del guru Vajasanayeva) ; Klingelingeling (“chi ci vuole bene coi regali viene”) lo può cantare in italiano o in tedesco anche un taoista: pro domo sua stavolta. E Jingle bell? Curiosa “cristianizzazione” di un canto gioiosamente laico. Che ogni lettore di Amadeus, cristiano o musulmano, buddista o taoista, confuciana o ateo, è invitato a cantare, liberato dalle manipolazioni natalizie, nella versione che gli regaliamo qui: autentica, sia pure nell’adattamento italiano.*

Jingle bell ©

1. Com’è bello andar sulla slitta via con te
sopra i campi candidi ridendo sai perché.
Festoso è il tintinnar che ci accompagnerà:
ci suonano i sonagli un inno di felicità. Oh!
Jingle bell, jingle bell, suona ancor per me,
com’è bello correre sulla slitta insieme a te. Oh!
Jingle bell, jingle bell, suona ancor per me,
com’è bello correre sulla slitta insieme a te.

2. Qualche giorno fa ho pensato di slittar,
ho invitato una ragazza a sedersi accanto a me.
Il cavallo era un po’ giù, andava via a zig zag,
finì dentro una buca, e noi tutti a gambe in su. Oh!
Jingle bell…

3. Successe giorni fa, lo devo raccontar,
andavo sulla neve finché presi a ruzzolar.
Passava lei di lì, sopra una slitta blu,
rideva a crepapelle, non lo scorderò mai più. Oh!
Jingle bell…

4. La neve è bella assai: finché tu lo puoi far,
invita le ragazze (i ragazzi) a slittare insieme a te.
Attaccaci un cavallo, e non fermarti mai,
sulla neve candida tu fila più che puoi. Oh!
Jingle bell…

* Le parole originali inglesi e la musica sono riprodotte nei testi scolastici I colori della musica per la scuola media (Milano, Principato, 2004) e MusicAmica 2 (Milano, BMG-Ricordi, 2005) per la scuola elementare.