Un altro natale
Sara Menafra - 22-12-2004
Dal Manifesto

Uranio: muore un carabiniere e un'inchiesta di Rainews24 rilancia l'allarme nei poligoni sardi

Picchetto d'onore ieri mattina a Genova per il funerale di Emilio Di Zazzo, brigadiere in servizio al battaglione Piemonte stroncato a 46 anni da un tumore alle tonsille, probabilmente collegato all'esposizione ai proiettili di uranio impoverito durante i conflitti nei Balcani. Di Zazzo era stato uno dei primi a partire, nel 1999, per la missione italiana in Kosovo voluta dal governo D'Alema. Da allora era stato più volte anche in Albania e in Bosnia. L'ultimo incarico all'estero nel novembre del 2003: tre mesi a Nassiriya. La malattia, scoperta solo nell'agosto di quest'anno, ha avuto un decorso rapidissimo. Anche se la moglie del brigadiere ripete a tutti che «L'Arma ha spiegato che tra le missioni in Kosovo e la malattia non c'è nessun collegamento», secondo l'Osservatorio militare, quella di Di Zazzo è la trentatreesima morte da uranio impoverito nelle nostre forze armate.

Le prove del rapporto tra l'esposizione alle esplosioni e alcuni tumori e malformazioni diventano di giorno in giorno più evidenti. Intervistata da Rainews 24 giusto ieri sera (in un servizio trasmesso da Primo piano), la professoressa Antonietta Gatti di Modena ha spiegato di aver trovato le stesse nanoparticelle di metalli pesanti nelle interiora di un agnello deforme nato nei pressi del mega-poligono sardo di Salto di Quirra (Nuoro) e nello sperma di un militare diventato sterile al ritorno dai Balcani. Non materiale radioattivo, e quindi non uranio, ma «antimonio». E' la prova che l'uranio non c'entra nulla? «No, dimostra solo che il passaggio è più complesso. Le bombe all'uranio - spiega ora la professoressa Gatti - esplodono a 3000 gradi. Questa temperatura causa la fusione di materiali pesanti, che si trasformano in nanoparticelle capaci di superare le barriere del corpo. Una ricerca dell'Università cattolica di Leuven dimostra che, se respirate, queste microsfere entrano nel sangue dopo 60 secondi e in un'ora arrivano al fegato». Si spiegherebbe così perché, anche se le ricerche fatte fin ora non hanno mai dimostrato che le aree colpite dai proiettili all'uranio rimangono contaminate, in queste zone morti e malattie aumentano. Sono le stesse conclusioni contenute nel rapporto della base Usa di Eglin del 1978. Anche allora i militari che sperimentavano i primi proiettili all'uranio impoverito non trovarono il territorio contaminato dalle radiazioni, ma nanoparticelle di sostanze mai trovate prima dell'esplosione e soprannominate «airborn», nate nell'aria.

Tenere il punto su morti e malattie all'interno dell'esercito è difficile, soprattutto da quando, nel marzo scorso, l'Esercito si è attrezzato con un «Compendio» delle procedure da seguire con i militari ammalati. La circolare ad uso interno diffusa dallo Stato maggiore ha un prontuario di raggelante cinismo, che va dal sostegno economico agli auguri per le festività da inviare ai malati. In caso di decesso, si legge a pagina 12, l'Unità di appartenenza deve «inviare alle famiglie un ufficiale che illustri i benefici previsti» e le procedure per accedere al «sostegno morale e materiale». Da quando questa circolare è attiva le informazioni sul numero di militari ammalati sono sempre più scarse. Anche il nome di Di Zazzo mancava nel conto tenuto dall'Osservatorio militare. «Nell'Esercito - denuncia Domenico Leggiero, presidente dell'Osservatorio - il clima di omertà su queste questioni è diventato insopportabile». Ora le aspettative sono concentrate soprattutto sulla commissione parlamentare d'inchiesta, istituita a novembre ma non ancora in funzione. I lavori dovrebbero cominciare entro il prossimo febbraio.

S.M.
Il Manifesto
21 dicembre 2004



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