breve di cronaca
Vedi alla voce Scuola Pubblica
L'Unità - 04-12-2004
Idee per la sinistra
di Paolo Prodi


Un punto di partenza efficace penso possa essere l'episodio che ci racconta Carlo Maria Cipolla nel suo magnifico libro sul declino dell'analfabetismo nel mondo occidentale: nel 1338, la città di San Gimignano decise di assumere a spese pubbliche un insegnante perché, come è detto nella delibera del Consiglio, “sine magistro qui doceat pueros stari non possit”.
Una società moderna che vive sulle botteghe, sul lavoro e sui commerci non può sopravivere senza un sistema d'istruzione adeguato per i propri figli. Nei secoli tra il medioevo e l'età moderna assistiamo ad una trasformazione che investe tutte le regioni dell'Occidente: da una società fondata sugli ordini (sacerdoti, guerrieri, contadini) non certo immobili come le caste indiane ma in cui l'ideale di vita era quello di aderire allo “stato” di appartenenza come modello ricevuto per trasmissione orale di generazione in generazione passiamo ad una società sempre più mobile fondata sulla cultura scritta e l'apprendimento. Le istituzioni educative dell'Occidente moderno sono nate da questa sfida. Mentre nel medioevo feudale la povertà è un macigno che tiene l'uomo imprigionato, alla fine del Rinascimento il sistema d'istruzione è cresciuto per il moltiplicarsi delle istituzioni educative e costituisce già una scala per mezzo della quale anche il povero può ascendere, per la sua preparazione culturale e professionale, ai gradini più alti della società.
Si tratta di un sistema pubblico di istruzione, sottoposto naturalmente ai condizionamenti dei privilegi nobiliari e della ricchezza, ma che ha il punto di riferimento nella città e nella Chiesa e a poco a poco in apposite strutture create dai sovrani per l'istruzione pubblica.
Solo dopo le secolarizzazioni del Settecento, con la rivoluzione francese e soprattutto con i processi di costruzione degli Stati nazionali si arriva nell'Ottocento all'obbligatorietà dell'istruzione primaria elementare e alla costruzione di un sistema statale di istruzione a monopolio statale. Lo Stato ha teso ad ottenere il monopolio dell'istruzione in vista del progetto di plasmare il cittadino nei valori della nuova società liberale e democratica e nella nuova religione della patria. Contro questo monopolio lottano i difensori della scuola privata sulla base di motivazioni distinte anche se spesso concretamente intrecciate tra di loro: la motivazione economica (la scuola come impresa redditizia, riorganizzata come servizio a pagamento per i ceti benestanti) o confessionale (per mettere al centro l'istruzione religiosa).
La scuola tradizionale, statale e privata, ha esercito egregiamente la sua funzione di formazione e selezione della classe dirigente e professionale e la raggiungeva con un sistema concorrenziale delle classi e dei voti messo a punto dal Rinascimento al XX secolo, potenziato e non abolito con la rivoluzione industriale. Questa funzione è stata anche alla base della crescita italiana e della promozione sociale per molto tempo: mio nonno era contadino, mio padre ha studiato e noi figli ci siamo affermati attraverso il conseguimento di traguardi scolastici e universitari. Questo è stato il grande processo di modernizzazione dell'Italia con grandi successi e grandi costi.
Ma ora questo mondo non esiste più. La crisi dello Stato-Nazione ha portato negli ultimi decenni anche alla fine del monopolio statale dell'istruzione e dell'educazione per le nuove tecnologie che non si fermano ai confini politici degli Stati, per il flusso enorme di informazioni e formazioni che raggiungono i giovani al di fuori delle strutture scolastiche. La selezione viene fatta al di fuori della scuola e il potere economico è in grado di deformare qualsiasi percorso educativo al di là dei meriti. Non si tratta soltanto di forme “ingiuste” di selezione ma di una selezione spesso rovesciata, destinata ad aggravarsi se si persegue questa politica scolastica: fa un po' ridere pensare che le “scuole”, così come sono oggi, possano misurarsi con questi ostacoli: e proporre modelli di vita diversi da quelli che dominano la nostra quotidianità. Come si può ora dimostrare a un ragazzo che applicandosi nello studio può realizzare se stesso o semplicemente acquistare prestigio sociale?
Le discussioni sul finanziamento della scuola privata a cui assistiamo in Italia sembrano paurosamente vecchie, ancora mortificate dallo scontro confessionale tra laici e cattolici. In realtà il problema non è più quello della difesa dell'insegnamento statale da una parte e della difesa della libertà delle famiglie dall'altra. In questa nuova età della globalizzazione rischiamo di rimanere intrappolati nella prospettiva pericolosa di una contrapposizione tra una scuola statale secolarizzata, come contenitore sempre più omologante e privo di valori da trasmettere, e scuole private in cui si esprimono identità religiosi, culturali od e anche etniche, come mondi diversi non comunicanti fra di loro. Questo problema, già aperto da decenni, diventa ora drammatico nella misura in cui non si tratterebbe semplicemente di scuole private confessionali ma di scuole organizzate sulla base di religioni diverse, con grave pericolo di perdita del dialogo tra le identità collettive che è necessario per la sopravvivenza e la convivenza dei gruppi umani.
La soluzione a cui dobbiamo tendere se vogliamo guardare in avanti, scelta che può incontrare molte difficoltà ma che può anche aprire davanti a noi panorami nuovi e affascinanti è quella di una scuola non statale né privata ma pubblica in cui le diverse scelte formative e culturali possano convivere intorno ad alcuni punti fondanti - come la difesa dei diritti umani - e nella quale le diverse comunità identitarie possano portare i loro valori culturali e spirituali. Il pericolo, in caso contrario, è lo svuotamento sempre maggiore di una scuola statale priva di valori e il moltiplicarsi di scuole non più private in senso individualistico-libertario (perché questo oggi è letteralmente impossibile) ma come espressione di comunità culturali e religiose che tendono a difendere una propria identità separata. Si può pensare e sperare che anche la cristianità, sulla base del principio della doppia cittadinanza (del dualismo tra la sfera del potere e la sfera della coscienza che costituisce il nucleo dinamico inserito nella storia dal messaggio evangelico) sappia accettare questa nuova sfida e proporre nuove strutture educative come “cosa pubblica”, frutto di una dialettica in cui le diverse religioni e visioni del mondo possano non soltanto coesistere ma costituire l'anima in un nuovo umanesimo.
Mi sembra che il discorso possa forse ripartire da don Lorenzo Milani, troppo dimenticato: in questi giorni ricorre proprio il cinquantenario della fondazione della scuola pubblica, né statale né privata, di Barbiana. La sua intuizione - pur nella diversa situazione storica di allora impregnata dell'ideologia della lotta di classe - sembra ora rivelare un contenuto profetico in relazione alla situazione attuale della scuola e al dominio del consumismo a tutti i livelli sociali. Due cose ci preme almeno ricordare di quella esperienza anche se necessiterebbero ben altri approfondimenti.
Don Milani puntava sull'acquisizione del linguaggio, sia quello letterario ed artistico che quello matematico ed informatico ai massimi livelli possibili come partenza del riscatto dei ceti meno abbienti e più in generale dell'umanità. Su questo punto mi pare che non vi possano essere compromessi ed è su questo (non su altre linee) che si misura la differenza tra progressisti e conservatori, tra destra e sinistra. Necessità non della meritocrazia ma della riaffermazione della fatica dello studio e merito come base di ogni progetto scolastico per la massima espansione delle potenzialità dei giovani.
In secondo luogo non può esistere nella situazione attuale una difesa delle singole identità collettive basata sulla scuola come linea di difesa e come recinto; tanto meno una scuola per la difesa di un'identità nazionale o statale. Come diceva lo stesso don Milani solo coloro che “sono rosi dal terrore che non si sia proprio vero ciò che insegnano” possono pensare di difendersi erigendo barriere protettive scolastiche: “Ecco perché - egli scriveva in una sua bellissima lettera a Giorgio Pecorini - la mia scuola è assolutamente aconfessionale come quella di un liberalaccio miscredente”. Oggi possiamo aggiungere che se si finanziano le scuole cattoliche si devono poi finanziare le scuole islamiche ecc. Il problema è quello delle identità collettive, dei valori comuni che la scuola pubblica deve trasmettere. E che oggi possono consistere ed essere sviluppati soltanto nel confronto concreto sul territorio.
In conclusione se il problema si pone ancora in base al rapporto tra la scuola statale e quella privata siamo in un vicolo cieco. Anche il richiamo all'art. 33 della Costituzione sembra datato, da qualsiasi parte esso venga evocato. Il problema è come progettare un sistema pubblico di istruzione integrato in cui siano chiaramente fissati gli scopi ed i traguardi, gli “standards” che si vogliono raggiungere a livello di comunità nazionale, mentre la gestione sia lasciata il più possibile alle realtà locali nelle quali più facilmente possono esprimersi la pluralità e la ricchezza delle comunità presenti sul territorio. Trent'anni fa fu persa, a mio parere, una grande occasione quando il Parlamento e il governo rifiutarono il progetto dei distretti scolastici sul modello anglosassone, come vero autogoverno della scuola su base locale: si perse allora, nel 1974, con i cosiddetti “decreti delegati”, un occasione storica per non aver colto i tempi e per un certo conservatorismo sindacale che concepiva i problemi scolastici più come problemi degli addetti ai lavori che degli studenti e del paese. Spero che questo discorso possa essere ancora ripreso.
Non è mai troppo tardi, come si diceva una volta quando la scuola è stata per qualche tempo al centro dell'attenzione del paese e dei grandi mezzi di comunicazione. Forse.
  discussione chiusa  condividi pdf

 Pierangelo    - 14-12-2004
da l'Unità del 14.12.2004

Gli studenti-cittadini di Don Milani

di GIORGIO PECORINI


A cinquant'anni della cacciata di don Lorenzo Milani nell'esilio di Barbiana in punizione di quelle stesse scelte "classiste" per le quali mezzo secolo dopo alcuni cattolici vorrebbero farlo santo, Paolo Prodi (l'Unità del 4 dicembre) esorta a uscire dallo scontro frontale scuola statale-scuola privata. E, da storico scientificamente rigoroso e da cittadino socialmente impegnato, auspica "una scuola non statale né privata ma pubblica in cui le diverse scelte formative e culturali possano convivere intorno ad alcuni punti fondanti, come la difesa dei diritti umani, e nella quale le diverse comunità identitarie possano portare i loro valori". E suggerisce di ripartire proprio da Lorenzo Milani, un prete che ha fatto una scuola "assolutamente aconfessionale come quella di un liberalaccio miscredente".
Poiché questa frase di don Milani è in una lettera a me del 10 novembre 1959, mi sembra doveroso rendere testimonianza di come, in concreto, una scelta così all'apparenza contraddittoria venisse vissuta. Testimonianza di un miscredente laico, non convertito né convertendo nonostante il privilegio dell'incontro e dell'amicizia col priore di Barbiana e della frequentazione della sua Scuola.
Per profittare nel modo più corretto e insieme più utile della lezione di Milani, conviene partire da un'altra sua lettera: quella del 9 marzo '61 a Lanfranco Mencaroni, il più stretto collaboratore di Aldo Capitini nella sperimentazione di un Giornale Scuola. Capitini vi aveva scritto un articolo in difesa della scuola pubblica dello stato contro quelle private cattoliche, che "impongono le proprie idee reazionarie".
La replica di Milani (è a pagina 97 di I care ancòra edito nel 2001 dalla Emi) pare scritta apposta per mettere in confusione tutti quanti gli si avvicinano: "Scandalose sono le scuole clericali di lusso di Firenze, ma mai quanto la scuola di stato che non solo da quando la Dc è al potere, ma fin dal lontano 1860 quando guardava in cagnesco i preti, è stata sempre una fogna di propaganda padronale per nessun rispetto migliore delle equivalenti fogne ecclesiastiche".
Una cuccagna, per chi, in malafede o con l'aggravante di una buona fede inconscia fondata su ignoranza e pigrizia, in ogni testo scritto o parlato di Milani cerca argomenti in appoggio alle proprie tesi preconcette. E immancabilmente li trova, con l'antica tecnica delle estrapolazioni e citazioni monche.
Chi al contrario s'avvicina a Milani per la voglia di intenderne meglio gli obiettivi, può sconcertarsi al primo impatto, per le tante contraddizioni. Ma presto scopre quanto esse siano tutte consapevolmente paradossali, provocatorie e strumentali.
Quanto alla scuola, il problema non è per Milani (né a suo parere dovrebbe esserlo per ogni altro cittadino) di schierarsi aprioristicamente e ideologicamente pro o contro quella pubblica dello stato o quella privata della chiesa. Il problema è misurare, sul metro dell'onestà intellettuale e della lealtà civile, quali scuole pùntino a costruire sudditi docili e quali invece a educare cittadini-sovrani capaci di giudicare con la propria testa e con la propria coscienza il mondo in cui vivono, per decidere se quel mondo va bene com'è, o se va cambiato, in quale direzione e con quali strumenti.
Quel che conta, per Milani, non è il padrone-gestore della scuola ma chi giorno per giorno la fa, nel rapporto diretto coi ragazzi, e come e perché la fa: il maestro. Poco gli importa che il maestro sia prete o laico, credente o laico. Che professi e dichiari o no una fede. Che sia o non sia iscritto a un partito. La differenza la vede tutta e soltanto nel suo modo d'essere e di lavorare:
"Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola e come faccio a averla piena. Insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter far scuola. Bisogna essere ... Non si può spiegare in due parole come bisogna essere [...] Bisogna aver le idee chiare in fatto di problemi sociali e politici. Non bisogna essere interclassisti, ma schierati. Bisogna ardere dall'ansia di elevare il povero a un livello superiore. Non dico a un livello pari a quello dell'attuale classe dirigente. Ma superiore: più da uomo, più spirituale, più cristiano, più tutto". (Esperienze pastorali, pagina 234. I puntini fuori parentesi quadre sono suoi).
Quel che preme, a Milani, è il modo in cui gli allievi vengono fuori dalle mani del maestro. I suoi escono così dalle sue mani, perché lui così li ha voluti e fatti:
"Alcuni vivono in grazia di Dio, altri vivono in grazia di Satana, altri servono due padroni. Di comune hanno poco (neanche l'amicizia fra tutti) fuorché un bel progresso che han fatto nel cercar di rispettare la persona dell'avversario, di capire che il male e il bene non son tutti da una parte, che non bisogna mai credere né ai comunisti né ai preti, che bisogna andar sempre controcorrente e leticare con tutti e poi il culto dell'onestà, della lealtà, della generosità politica e del disinteresse politico. Insomma bravi figlioli!". (Lettera del 25.6.'51 a Gian Paolo Meucci)
Il solo consiglio che si sente di dare agli amici è conseguentemente di mettersi a far scuola popolare. E aggiunge: "La scuola sarà evidentemente intitolata a Socrate e non al Sacro Cuore (…). Non consegneremo (agli allievi, ndr) le cose che abbiamo costruito e che stanno cadendo da tutte le parti, ma solo gli arnesi del mestiere perché costruiscano loro cose tutte diverse dalle nostre e non sotto il nostro alto patrocinio né paterna compiacenza". (Lettera del 2 marzo '55 ancòra a Meucci)
Né una scuola, per essere buona cioè vera fabbrica di cittadini-sovrani, deve essere per forza "cattolica, cristiana o religiosa. Può essere anche ... Può venir fuori un buon comunista dalla mia scuola. È evidente" (intervento al convegno fiorentino dei direttori didattici del 3 gennaio 1962). E altrettanto evidente è che mai sarebbe potuto uscirne un fascista, essendo costituzionalmente antifascisti i suoi valori, i suoi obiettivi, perfino i suoi strumenti didattici. Questo è il senso di una scuola "assolutamente aconfessionale" nonostante a farla sia un prete che per sè la tiene addirittura "sacra come un ottavo Sacramento" (Esperienze pastorali, pagina 203):
"In sette anni di scuola popolare non ho mai giudicato che ci fosse bisogno di farci anche dottrina. E neanche mi son preoccupato di far discorsi particolarmente pii o edificanti. Ho badato solo a non dir stupidaggini, a non lasciarle dire e a non perder tempo. (...) Quando ci si affanna a cercare apposta l'occasione di infilare la fede nei discorsi, si mostra di averne poca, di pensare che la fede sia qualcosa di artificiale aggiunto alla vita e non invece modo di vivere e di pensare". (Esperienze pastorali, pagina 238)
È un punto su cui batte e ribatte a ogni occasione, e all'occorrenza le occasioni se le crea, perché vuole che si "metta il dito su questo aspetto profondo e imprevisto del confessionalismo scolastico: i suoi più accaniti difensori sono i cattolici di più vacillante fede". (nella stessa lettera a me del 10.11.1959)
Uno fra i primi e più assidui allievi della sua prima scuola, quella di San Donato di Calenzano, Giorgio Pelagatti, testimonia:
"Don Lorenzo arrivò a togliere il crocifisso (dalla scuola, ndr), a metterlo sull'armadio di un'altra stanza. Se lo immagina che cosa generò con un gesto simile? Tra l'altro, quello era il locale dove si tenevano anche le riunioni dell'Azione cattolica, delle figlie di Maria eccetera. Tolse il crocifisso perché non doveva esserci neppure un simbolo che facesse pensare che quella era una scuola confessionale. Lì c'erano solo uomini che studiavano e discutevano per la propria elevazione civile e morale". (Dalla parte dell'ultimo di Neera Fallaci, pagina 155)
Gira e rigira, il problema resta sempre lo stesso: "come bisogna essere per poter far scuola":
"Finora si diceva che la scuola statale è un progresso rispetto alla privata. Ora bisognerà ripensarci e rimettere la scuola in mano d'altri. Di gente che abbia un motivo ideale per farla e farla a noi (respinti dalla scuola pubblica dell'obbligo, ridotta a "ospedale che cura i sani e respinge i malati" - Lettera a una professoressa, pagina 89)". Attenti però a non cadere nel trabocchetto di rimettersi nelle mani dei preti:
"Una volta c'era la scuola confessionale. Quella un fine l'aveva e degno d'essere cercato. Ma non serviva gli atei. Tutti aspettavano che (voi, parlamentari e governanti laici) la sostituiste con qualcosa di grandioso. Poi avete partorito il topolino: la scuola per il tornaconto individuale. Ora la scuola confessionale non esiste più. I preti hanno chiesto la parificazione e danno voti e diplomi come voi. Anche loro propongono ai ragazzi il Dio Quattrino".
Padre Ernesto Balducci, scolopio, condivide e spiega:
"Chi dinanzi a questa funzione della scuola ancòra si preoccupa dello "specifico cristiano", non è in grado di comprendere la testimonianza di Milani, anzi di comprendere il senso profondo del vangelo. (...) Che senso ha, allora, la distinzione tra scuola laica e scuola cattolica? Se nei fatti la distinzione sopravvive è perché ambedue ritagliano la loro diversità in un dogmatismo ideologico di diverso segno, in cui il ragazzo è visto come un soggetto da acculturare, insomma come preda di caccia". (L'insegnamento di don Lorenzo Milani, a cura di Mario Gennari, Laterza 1995)
Digressione lunga forse, ma necessaria a non fraintendere il senso della lettera-replica a Capitini del 9 marzo '61. Chi vuol distorcerla e usarla a vantaggio della propria bottega laicista o integralista, s'accomodi: lo ha già fatto e seguiterà a farlo. L'essenziale è lasciargliene la responsabilità piena. Gli altri scopriranno il rigore della sua coerenza e ne rimarranno affascinati.
Perché l' obiettivo di Milani, dichiarato e perseguito caparbiamente con ogni mezzo, è dare ai suoi ragazzi, e insieme proporre a tutti, gli strumenti utili ad acquisire consapevolezza critica, autonomia di giudizio, responsabilità di scelta e di decisione, l'orgoglio della dignità di cittadino-sovrano. L'opposto esatto dell'imbonimento e del rimbambimento mediatico volto a fabbricare consumatori acritici, elettori obbedienti.
L'accenno di Milani, trascritto sopra, ai guai recati alla scuola italiana "da quando la DC è al potere", cioè da una quindicina d'anni, è del 1961. Paolo Prodi, che se ne intende anche per essere stato chiamato un'altra quindicina d'anni dopo a dirigere l'ufficio studi del ministero della pubblica istruzione e venirne quasi sùbito cacciato per "eccesso di autonomia", aggiunge oggi: "Trent'anni fa nel 1974 fu persa una grande occasione (…) con i cosiddetti "decreti delegati" per non aver colto i tempi e per un certo conservatorismo sindacale che concepiva i problemi scolastici più come problemi degli addetti ai lavori che degli studenti e del paese".
Testimone esterno, da cronista impuntigliato anche di quel tempo e di questa realtà, io aggiungerei che il fallimento dei decreti delegati più che un'occasione persa fu un premeditato, lucido e perverso disegno dei governi e dei ministri di allora quasi ininterrottamente democristiani o comunque, nei brevissimi intervalli liberal-repubblicani-socialdemocratici, allineati senza riserve alle scelte e agli interessi della DC: il disegno di svuotare il nuovo strumento di qualsiasi contenuto e potenzialità democratica.
Campione dell'impresa, il ministro Franco Maria Malfatti, dc.
Infine, al sacrosanto accenno di Prodi alle responsabilità sindacali, vanno aggiunte quella dei partiti storici della sinistra, il vecchio PCI in testa, preoccupati allora più di frenare le "fughe in avanti" di una parte delle proprie basi che di tutelare autonomia e libertà della scuola, di difenderne l'insostituibile funzione di stimolo alla maturazione civile ancor prima che culturale dei cittadini.