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C'è più amianto che spiaggia
Repubblica - 03-12-2004
IL CASO BARI

Quindici chilometri di costa sigillati. È l´ultima eredità della Fibronit, bomba ecologica in mezzo alle case

Bari, la spiaggia sotto chiave
"C´è più amianto che sabbia"


Duecentouno vittime accertate, un numero di tumori cento volte più alto della media
Ma i veleni sotterrati sotto la città e nella baia sono destinati a uccidere ancora
Omicidio colposo plurimo: dopo otto anni la prima condanna per un ex dirigente

ATTILIO BOLZONI

BARI - È ancora tutto qui, proprio sotto i nostri piedi che calpestano una terra che non ha colore e una sabbia che non è sabbia. È nascosto nelle viscere di Bari. E l´hanno anche fatto diventare una bella spiaggia bianca, quindici chilometri di dune infette. Mare crespo e polvere finissima, ecco cosa c´è adesso tra il Gargano e il Salento, c´è la costa dell´amianto. Siamo in Puglia per raccontare una strage che non hanno mai voluto chiamare strage. In duecentouno se ne sono andati, tutti in silenzio.
Uccisi dall´aria che respiravano. Duecentouno omicidi. Ma quella terra senza colore e quella sabbia che non è sabbia è sempre lì a suppurare, a infradiciare. Come ancora lì è la fabbrica dei morti.
Producevano tubi e intanto ammazzavano. Gli operai che ci lavoravano. E le loro mogli, i loro figli. E gli abitanti di quella Bari che vivevano fra Japigia e Madonnella e San Pasquale, i tre quartieri che circondano la Fibronit, industria di Casale Monferrato che nel 1935 ha portato pane e tragedia tra gli orti di quest´Italia che chiedeva lavoro. Producevano tubi e poi seppellivano gli scarti e i fanghi sotto i capannoni. A un metro. A due metri. Fino a sette metri. Quando giù non c´era più spazio, sono andati a scaricarli in riva al mare. E dove una volta c´era una grande baia oggi c´è un arenile di polvere di amianto. Hanno cominciato a buttare quello schifo nel mare di Torre Quetta verso gli inizi degli Anni Sessanta, alla fine degli Anni Ottanta la nuova spiaggia era emersa dalle acque, candida, sembrava quasi naturale. Sembrava vera. «I camion venivano in fabbrica ogni sabato, caricavano i bidoni e dieci minuti dopo erano già a versarli in mare», ricorda Damiano Scardicchio, operaio alla Fibronit dal 20 maggio del 1947 al 13 maggio 1980. Anche lui è malato. E di quel cancro che prende alle vie respiratorie - il mesotelioma pleurico - sono morti pure il marito di sua sorella e due fratelli di sua moglie.
Un dramma di massa in quella maledetta zona di Bari che separa la Fibronit all´Adriatico. Ogni via ha una croce, ogni palazzo un morto da piangere. In via Matteotti ci abitava l´ingegnere Massimo Micheli e sua moglie Elena gliel´hanno uccisa dodici anni fa. In via dei Bersaglieri ci abita ancora Ernesto Chiarantoni che insegna elettrotecnica al Politecnico. Ha appena 42 anni e gli hanno diagnosticato il mesotelioma pleurico. Anche suo padre è morto di quel male. Come è morto il direttore della Fibronit Gigi Vanni. E sua moglie. E tre dei suoi quattro figli. Il direttore Vanni era sceso a Bari e aveva sistemato la sua famiglia in un appartamento dentro la Fibronit. Vent´anni dopo lo sterminio.
La prima vittima «ufficiale» della fabbrica dei morti si chiamava Pasquale. «Era il 1971», racconta Damiano l´operaio. E quella primavera Pasquale Cassano se ne andò. Aveva lavorato per tanto tempo alla Fibronit e voleva cambiare. Prima e ultima tappa Napoli. Gli dissero che non ne aveva per molto, tornò a Bari, dopo qualche mese morì. «Gli effetti dell´avvelenamento da polvere di amianto secondo gli esperti si faranno sentire fino al 2030, gli studi indicano che la malattia ha una latenza dai 15 ai 30 anni e anche più», spiega Nicola Brescia, presidente del comitato cittadino in guerra contro quella fabbrica che fino al 1989 produceva lastre ondulate di eternit e tubi in cemento amianto per gli acquedotti. Il presidente assicura che i morti per quel cancro sono destinati ad aumentare, garantisce che Bari supererà se stessa e il pauroso record che ha già conquistato: un numero di casi di mesotelioma pleurico superiore cento volte alla media nazionale. E dice che la Fibronit ucciderà ancora per un altro quarto di secolo.
La fabbrica è murata. Staccata dal resto della città, isola contaminata coperta alla vista di Bari. Ma è lì. C´è sempre. Con quelle tonnellate di sozzure nel suo ventre, occultate, infltrate in profondità. Dieci ettari di veleno. Dopo qualche decennio di omertà e tanto dolore, finalmente hanno sequestrato e poi confiscato l´area. Provvedimento giudiziario di primo grado, in attesa di quello definitivo c´è qualche pazzo che spera ancora di speculare su quel terreno tra Japigia e il mare. Ci avevano già provato in tutti i modi. Volevano costruirci un sottopasso e tirar su palazzoni per 250 mila metri cubi di volume, un piccolo quartiere. L´amministrazione del vecchio sindaco Simeone Di Cagno Abbrescia nel 1999 aveva annunciato di voler «riqualificare» l´area, all´ufficio tecnico comunale si erano però «dimenticati» di segnalare alla Regione e alla Commissione Europea che quello era un «sito pericoloso». Pare che un paio di banche in quel periodo avessero messo gli occhi sui dieci ettari, avanzavano quattrini dalla Fibronit, volevano riprendersi il maltolto e con gli interessi. Sognavano una lottizzazione. «Un vero delirio, là sotto ci sono rifiuti micidiali, c´è solo da bonificare e coprire», spiega Salvatore Valletta, il geologo che ha esplorato passo dopo passo la terra infetta. Per fortuna il nuovo sindaco Michele Emiliano ci vuole fare sopra un parco. E intitolarlo a ognuno di quei duecentouno morti. In questi giorni Emiliano si è anche inventato una parola per indicare il suo progetto: «Dobbiamo arrivare alla scafandratura della zona». Magari «scafandratura» non sarà un termine molto elegante ma rende bene ciò che ha in mente il sindaco: bonificare e sotterrare per sempre il luogo dove oggi c´è ancora la Fibronit. Al momento però tutto è fermo. Ma, da qualche mese, ancora più della fabbrica è quella spiaggia «artificiale» che fa tremare.
I quindici chilometri partono dal litorale di «Pane e Pomodoro» e sono tutti chiusi da una rete metallica. E´ dal primo di maggio che il mare dei baresi è imprigionato per ordine della magistratura. Un paio di anni fa il solito sindaco Di Cagno Abbrescia aveva inaugurato in pompa magna un lido a Torre Quetta, proprio dove la polvere di amianto si era preso il posto dell´acqua. Ma lì il figlio di Gianluigi Cesari, rappresentante dell´«Associazione esposti amianto», giocando aveva trovato una grande pietra.
«Abbiamo fatto i riscontri necessari e poi una denuncia», ricorda Cesari mentre ricostruisce ogni piega della vicenda Fibronit. E così è stata avviata un´altra inchiesta. «Scavi scavi e in quella spiaggia trovi sempre amianto», risponde il magistrato Ciro Angelillis, il primo che a Bari ha cominciato a indagare sugli orrori della fabbrica dei morti. E´ riuscito a imbastire anche un processo complicatissimo. Si è concluso qualche giorno fa, dopo otto anni. E con una sentenza inedita sui decessi sul lavoro causati da inquinamento: condannato per omicidio colposo plurimo un vecchio amministratore della Fibronit.
Ma questa non è e non è mai stata solo una storia giudiziaria o solo di malaffare. Ricordate Gigi Vanni, il direttore che ha perso quasi tutta la sua famiglia nella sua azienda? Questa della Fibronit è il passato di un´Italia che ritorna, che fa sempre paura con quelle morti che arrivano dopo tutti quegli anni. E´ l´Italia che fino a un certo punto non sapeva e dopo un certo punto faceva finta di non sapere. Fino a quando erano tanti, troppi ad andarsene per quella polvere.
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 Pierangelo    - 06-01-2005
da Repubblica Bari del 6.1.2005

LE IDEE
Fibronit, la messa in sicurezza è rimasta solo una promessa
Il governatore Fitto ha perso un´occasione per dimostrare la sua disponibilità a risolvere questo grave problema
di NICOLA BRESCIA - Comitato cittadino Fibronit

Negli ultimi giorni del vecchio anno c´è stato uno scambio di battute tra vecchia e nuova amministrazione comunale su quello che l´una o l´altra avevano fatto o stanno per fare per risolvere la questione Fibronit. Incuriositi, siamo tornati a vedere l´area Fibronit ed abbiamo scoperto che tutto è ancora immutato. In altre parole: l´importanza politica che alla "soluzione Fibronit" si vuole dare si scontra inevitabilmente con quello che ci viene sbattuto sul viso. I proclami restano tali, ma la realtà è tutt´altra cosa. Purtroppo i tempi perché si cominci a intervenire sul sito inquinato si allungano per ricorsi al Tar di chi deve incaricarsi di eseguire questi agognati interventi di "tutela della salute pubblica" che, malgrado siano incompleti e insoddisfacenti, significherebbero comunque l´inizio di qualcosa di necessario. Lo ribadiamo: malgrado qualcuno continui impropriamente a definirli "interventi di messa in sicurezza", le operazioni previste riguardano solo interventi che hanno lo scopo di ridurre il rischio di dispersione delle fibre di amianto e non di azzerarlo. Gli interventi furono programmati e progettati dalla vecchia amministrazione, che (non dimentichiamolo) non ha mai ritenuto - sbagliando, a nostro parere - di essere competente in materia di messa in sicurezza d´emergenza del sito Fibronit.
Questa incredibile situazione poteva essere evitata? Si poteva aggirare il dramma dei ricorsi? Già a luglio scorso, all´indomani della conferenza di servizi tenutasi al ministero dell´Ambiente, chiedemmo al sindaco di Bari ed all´assessore all´Ambiente di costituire un tavolo tecnico a tema Fibronit che raccogliesse tutte le istituzioni (Regione, Provincia e Comune di Bari), gli enti (Arpa, Asl, Ispesl) e le associazioni interessate, per studiare le soluzioni più idonee in modo da giungere, nel più breve tempo possibile, alla soluzione della messa in sicurezza d´emergenza. Pensavamo che l´esperienza acquisita sul campo in tutti questi anni avrebbe messo in luce una serie di soluzioni che potevano evitare questo empasse. Purtroppo la nostra idea non è stata condivisa e il richiesto tavolo tecnico non è mai nato. La stessa Consulta delle associazioni ambientaliste non potrà mai sostituire un tavolo specifico di concertazione tra le varie parti interessate sulla grave emergenza sanitaria che la città di Bari subisce ormai da troppi anni. Inoltre il tavolo tecnico, così come noi lo intendevamo, sarebbe stato un utile mezzo per comprendere l´atteggiamento che il ri-candidato alla presidenza della Regione Puglia, Raffaele Fitto, componente della conferenza di servizi istruttoria, ma ancora di più di quella decisoria per la vicenda Fibronit, avrebbe avuto per giungere alla soluzione del problema. Pensiamo sia stata una occasione mancata per mettere allo scoperto la sua disponibilità a rispondere positivamente alle esigenze che ha manifestato in tante occasioni.
Per il momento ci rimettiamo in attesa, pronti a scendere in campo se quanto richiesto dai cittadini e quanto promesso ai cittadini dovesse lasciare il posto alla delusione.

 Pierangelo    - 08-02-2005
da Repubblica Bari del 8.2.2005

LA SENTENZA

Nell´ex Fibronit davano il latte contro l´amianto

Una tazza al giorno avrebbe dovuto salvare gli operai malati

di MARA CHIARELLI

Una tazza di latte al giorno avrebbe dovuto salvare gli operai dall´asbestosi. Precauzioni banali, da ricette della nonna, quelle che i titolari della Fibronit utilizzavano per tutelarne la salute nel decennio dal 1970 al 1980. Mezzo litro di latte, ma anche mascherine di carta come quelle degli operatori ecologici, che in breve tempo si inumidivano di vapore acqueo ed erano inutilizzabili. E poi quel silenzio colpevole, che tacendo l´entità della malattia ai dipendenti, ne avrebbe accelerato l´evolversi, accorciando loro la vita. Il racconto delle gravi omissioni, addebitate dal tribunale di Bari all´amministratore delegato della Fibronit Dino Stringa (condannato a due anni e mezzo di reclusione), emerge dalle motivazioni alla sentenza, depositate in questi giorni dal giudice unico Francesca Romana Pirrelli. L´accusa di omicidio colposo plurimo, per aver causato la morte di dodici lavoratori, uccisi dalle fibre di amianto, si arricchisce di particolari raggelanti, raccontati durante il processo dai testimoni e corredati dalle cartelle cliniche dei dodici, che il giudice ha inserito nelle 76 pagine di motivazioni. Il magistrato non ha dubbi e scrive: "Nonostante i materiali di lavorazione tendessero a dare polveri, non erano stati previsti i più elementari mezzi di prevenzione". Ma ancor più grave il fatto che tale superficialità ha condizionato "l´accelerazione dello sviluppo della malattia".
Il processo, durato quattro anni e mezzo e conclusosi ad ottobre, ha riconosciuto per la prima volta in Italia il nesso di tragica causalità tra il contatto quotidiano con le fibre killer e la malattia professionale, a danno di un numero così elevato di operai e protrattosi per un periodo di tempo talmente lungo. Tanto che copia della sentenza è stata richiesta al pm Ciro Angelillis dal collega veneziano Felice Casson, lo stesso che ha condotto il processo di primo grado a tutela dei lavoratori di Porto Marghera.
Ma per arrivare a questo, numerose sono state le battaglie condotte dal 1974 ad oggi, da quando cioè 128 dipendenti avviarono una causa di lavoro contro l´azienda. Insufficienti i controlli condotti dall´Enpi e dall´Ispettorato del Lavoro, "sporadici, parziali - come riporta il giudice - e generiche le cartelle cliniche ". I sopralluoghi fatti nel ´72 e ´74 dalla professoressa di medicina del lavoro, Marina Musti (all´epoca consulente dell´Inca), evidenziano una totale incoscienza da parte dei 310 lavoratori delle pericolose condizioni nelle quali lavoravano.
«Spesso le pulizie venivano fatte con il tubo di aria compressa - le raccontarono - e certe volte facevamo gli scherzi: sollevavamo la polvere da terra verso un altro operaio, così per scherzo». Di quelle 310 persone visitate, ricorda la professoressa, "ne vennero trovate ammalate d´asbestosi ben 141". Non è difficile, a questo punto, immaginare l´assoluta inutilità di quelle mascherine di carta o dei rimedi tradizionali, come mezzo litro di latte somministrato all´operatore del reparto mescole.
E non soprende nemmeno che sia stato ucciso dall´amianto anche il guardiano di portineria, la cui postazione si trovava vicino al pericolosissimo reparto dei "pezzi speciali". Lascia piuttosto allibiti il fatto che i dodici lavoratori, per i quali è stato avviato (a seguito di denuncia) il processo, abbiano ignorato per tanto tempo la genesi della loro malattia, restando a contatto con le fibre di asbesto per anni. In un caso, tra il primo accertamento del mesotelioma pleurico alle dimissioni volontarie, ne passarono ben sette e cinque mesi.
Nel mezzo, il silenzio dei "padroni", che avrebbero taciuto anche quando tra la fine del ´75 e il ´76 furono spedite numerose lettere di licenziamento. Quelle bocche cucite, secondo il giudice, erano sintomo di una "condotta omissiva" che prolungando l´esposizione al pericoloso materiale degli uomini in tuta blu, ne ha accorciato la vita. Il risarcimento di 20 mila euro a famiglia, disposto dalla Pirrelli, è evidentemente solo un simbolo per un valore senza prezzo.

 Daniele    - 03-08-2008
Non so proprio cosa dire, non riesco a capire come si può (per interesse) mettere a rischio la vita di tanta gente.