Pierangelo - 06-01-2005 |
da Repubblica Bari del 6.1.2005 LE IDEE Fibronit, la messa in sicurezza è rimasta solo una promessa Il governatore Fitto ha perso un´occasione per dimostrare la sua disponibilità a risolvere questo grave problema di NICOLA BRESCIA - Comitato cittadino Fibronit Negli ultimi giorni del vecchio anno c´è stato uno scambio di battute tra vecchia e nuova amministrazione comunale su quello che l´una o l´altra avevano fatto o stanno per fare per risolvere la questione Fibronit. Incuriositi, siamo tornati a vedere l´area Fibronit ed abbiamo scoperto che tutto è ancora immutato. In altre parole: l´importanza politica che alla "soluzione Fibronit" si vuole dare si scontra inevitabilmente con quello che ci viene sbattuto sul viso. I proclami restano tali, ma la realtà è tutt´altra cosa. Purtroppo i tempi perché si cominci a intervenire sul sito inquinato si allungano per ricorsi al Tar di chi deve incaricarsi di eseguire questi agognati interventi di "tutela della salute pubblica" che, malgrado siano incompleti e insoddisfacenti, significherebbero comunque l´inizio di qualcosa di necessario. Lo ribadiamo: malgrado qualcuno continui impropriamente a definirli "interventi di messa in sicurezza", le operazioni previste riguardano solo interventi che hanno lo scopo di ridurre il rischio di dispersione delle fibre di amianto e non di azzerarlo. Gli interventi furono programmati e progettati dalla vecchia amministrazione, che (non dimentichiamolo) non ha mai ritenuto - sbagliando, a nostro parere - di essere competente in materia di messa in sicurezza d´emergenza del sito Fibronit. Questa incredibile situazione poteva essere evitata? Si poteva aggirare il dramma dei ricorsi? Già a luglio scorso, all´indomani della conferenza di servizi tenutasi al ministero dell´Ambiente, chiedemmo al sindaco di Bari ed all´assessore all´Ambiente di costituire un tavolo tecnico a tema Fibronit che raccogliesse tutte le istituzioni (Regione, Provincia e Comune di Bari), gli enti (Arpa, Asl, Ispesl) e le associazioni interessate, per studiare le soluzioni più idonee in modo da giungere, nel più breve tempo possibile, alla soluzione della messa in sicurezza d´emergenza. Pensavamo che l´esperienza acquisita sul campo in tutti questi anni avrebbe messo in luce una serie di soluzioni che potevano evitare questo empasse. Purtroppo la nostra idea non è stata condivisa e il richiesto tavolo tecnico non è mai nato. La stessa Consulta delle associazioni ambientaliste non potrà mai sostituire un tavolo specifico di concertazione tra le varie parti interessate sulla grave emergenza sanitaria che la città di Bari subisce ormai da troppi anni. Inoltre il tavolo tecnico, così come noi lo intendevamo, sarebbe stato un utile mezzo per comprendere l´atteggiamento che il ri-candidato alla presidenza della Regione Puglia, Raffaele Fitto, componente della conferenza di servizi istruttoria, ma ancora di più di quella decisoria per la vicenda Fibronit, avrebbe avuto per giungere alla soluzione del problema. Pensiamo sia stata una occasione mancata per mettere allo scoperto la sua disponibilità a rispondere positivamente alle esigenze che ha manifestato in tante occasioni. Per il momento ci rimettiamo in attesa, pronti a scendere in campo se quanto richiesto dai cittadini e quanto promesso ai cittadini dovesse lasciare il posto alla delusione. |
Pierangelo - 08-02-2005 |
da Repubblica Bari del 8.2.2005 LA SENTENZA Nell´ex Fibronit davano il latte contro l´amianto Una tazza al giorno avrebbe dovuto salvare gli operai malati di MARA CHIARELLI Una tazza di latte al giorno avrebbe dovuto salvare gli operai dall´asbestosi. Precauzioni banali, da ricette della nonna, quelle che i titolari della Fibronit utilizzavano per tutelarne la salute nel decennio dal 1970 al 1980. Mezzo litro di latte, ma anche mascherine di carta come quelle degli operatori ecologici, che in breve tempo si inumidivano di vapore acqueo ed erano inutilizzabili. E poi quel silenzio colpevole, che tacendo l´entità della malattia ai dipendenti, ne avrebbe accelerato l´evolversi, accorciando loro la vita. Il racconto delle gravi omissioni, addebitate dal tribunale di Bari all´amministratore delegato della Fibronit Dino Stringa (condannato a due anni e mezzo di reclusione), emerge dalle motivazioni alla sentenza, depositate in questi giorni dal giudice unico Francesca Romana Pirrelli. L´accusa di omicidio colposo plurimo, per aver causato la morte di dodici lavoratori, uccisi dalle fibre di amianto, si arricchisce di particolari raggelanti, raccontati durante il processo dai testimoni e corredati dalle cartelle cliniche dei dodici, che il giudice ha inserito nelle 76 pagine di motivazioni. Il magistrato non ha dubbi e scrive: "Nonostante i materiali di lavorazione tendessero a dare polveri, non erano stati previsti i più elementari mezzi di prevenzione". Ma ancor più grave il fatto che tale superficialità ha condizionato "l´accelerazione dello sviluppo della malattia". Il processo, durato quattro anni e mezzo e conclusosi ad ottobre, ha riconosciuto per la prima volta in Italia il nesso di tragica causalità tra il contatto quotidiano con le fibre killer e la malattia professionale, a danno di un numero così elevato di operai e protrattosi per un periodo di tempo talmente lungo. Tanto che copia della sentenza è stata richiesta al pm Ciro Angelillis dal collega veneziano Felice Casson, lo stesso che ha condotto il processo di primo grado a tutela dei lavoratori di Porto Marghera. Ma per arrivare a questo, numerose sono state le battaglie condotte dal 1974 ad oggi, da quando cioè 128 dipendenti avviarono una causa di lavoro contro l´azienda. Insufficienti i controlli condotti dall´Enpi e dall´Ispettorato del Lavoro, "sporadici, parziali - come riporta il giudice - e generiche le cartelle cliniche ". I sopralluoghi fatti nel ´72 e ´74 dalla professoressa di medicina del lavoro, Marina Musti (all´epoca consulente dell´Inca), evidenziano una totale incoscienza da parte dei 310 lavoratori delle pericolose condizioni nelle quali lavoravano. «Spesso le pulizie venivano fatte con il tubo di aria compressa - le raccontarono - e certe volte facevamo gli scherzi: sollevavamo la polvere da terra verso un altro operaio, così per scherzo». Di quelle 310 persone visitate, ricorda la professoressa, "ne vennero trovate ammalate d´asbestosi ben 141". Non è difficile, a questo punto, immaginare l´assoluta inutilità di quelle mascherine di carta o dei rimedi tradizionali, come mezzo litro di latte somministrato all´operatore del reparto mescole. E non soprende nemmeno che sia stato ucciso dall´amianto anche il guardiano di portineria, la cui postazione si trovava vicino al pericolosissimo reparto dei "pezzi speciali". Lascia piuttosto allibiti il fatto che i dodici lavoratori, per i quali è stato avviato (a seguito di denuncia) il processo, abbiano ignorato per tanto tempo la genesi della loro malattia, restando a contatto con le fibre di asbesto per anni. In un caso, tra il primo accertamento del mesotelioma pleurico alle dimissioni volontarie, ne passarono ben sette e cinque mesi. Nel mezzo, il silenzio dei "padroni", che avrebbero taciuto anche quando tra la fine del ´75 e il ´76 furono spedite numerose lettere di licenziamento. Quelle bocche cucite, secondo il giudice, erano sintomo di una "condotta omissiva" che prolungando l´esposizione al pericoloso materiale degli uomini in tuta blu, ne ha accorciato la vita. Il risarcimento di 20 mila euro a famiglia, disposto dalla Pirrelli, è evidentemente solo un simbolo per un valore senza prezzo. |
Daniele - 03-08-2008 |
Non so proprio cosa dire, non riesco a capire come si può (per interesse) mettere a rischio la vita di tanta gente. |