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Giovannino e Serenella
Anna Pizzuti - 19-11-2004
Il giardino incantato - tratto dalla raccolta di racconti "Ultimo viene il corvo" di Italo Calvino - o meglio “Giovannino e Serenella”, come lo chiamavamo, ha segnato tutta un’epoca della carriera docente di Cristina, Franca, Giulia e mia. Una carriera che sarà molto difficile definire in base agli articoli ed ai commi della legge Santulli. Erano gli anni ’80 e non ricordo quale ministro ci fosse o quale riforma fosse in atto, se non quella dei programmi del ’79 per la scuola media. Per anni ed anni chiamati “i nuovi programmi”, per antonomasia: i programmi dell’educazione linguistica.

Avevamo vissuto l’epoca della lotta al libro di testo, venivamo da ore ed ore passate a combattere con le matrici ed i ciclostili, stavamo sperimentando le prime fotocopiatrici e, addirittura, i primi testi scritti ai computer, quelli con gli schermi neri ed i caratteri verdi, con la stampante ad aghi e la carta con i bordi ad anellini che i nostri alunni strappavano per farne collane o altri usi fantastici.
Insegnavamo in scuole diverse, ma ci incontravamo regolarmente per programmare, ma, soprattutto, per ragionare insieme.

Il cuore di questo ragionamento era la domanda: come si fa? Ad insegnare in modo che i ragazzi imparino. Semplicemente. Avevamo maturato alcuni punti fermi: le quattro abilità – leggere, scrivere, ascoltare, parlare – dalle quali partire e sulle quali costruire quelli che chiamavamo gli obiettivi cognitivi. Ma prima c’erano gli obiettivi formativi, sui quali discutevamo a lungo, perché avvertivamo che “la disciplina” era ben poca cosa, se non aiutava a crescere, o meglio, se non accompagnava la crescita.
E l’educazione linguistica era al centro di nostri programmi, del nostro lavoro. Intesa, soprattutto, come la rottura della gabbia del tema/riassunto, come la base per la comunicazione e come la conferma di quello che avevamo sempre pensato: che cioè il linguaggio ed il suo uso, per dire se stessi e per comprendere gli altri, il mondo, non era un dono del cielo o della classe sociale, ma si poteva apprendere, arricchire e, quindi, insegnare.

Gli strumenti per farlo c’erano ed erano diventati anche i libri di testo.

Avevamo i nostri guru, che erano Daniela Bertocchi di “Progetto lettura”, Mario Ambel, di “
Leggere per…
” e poi Raffaele Simone, Maurizio della Casa, solo per citarne alcuni. Li seguivamo nei convegni organizzati dalla Giscel, così facevamo corrispondere anche un viso, un tono di voce, a nomi che consideravamo quasi di amici. Come amico era il Tullio De Mauro del glotto-kit e del vocabolario minimo. Ed Ersilia Zamponi dei “Draghi logopei” e Raffaele Piumini di “Calicanto”, il libro che faceva diventare familiari e giocose le allitterazioni, le anafore, le metafore, gli ossimori.

Giovannino e Serenella” era il testo di passaggio: dalle funzioni di Propp, alle funzioni narrative, descrittive, riflessive. Ma era anche all’uso dei sensi. Me la ricordo ancora: la scheda dei sensi, che creammo proprio a margine di quel testo, con tutti i verbi, gli aggettivi, per dire bene se si vedeva o si osservava, si toccava si sfiorava e via sperimentando tutti i modi di “sentire”.

Ma avevamo soprattutto una convinzione che toglieva al lavoro il peso del tecnicismo e lo rendeva formativo: che l’educazione linguistica cresce sull’esperienza e sul pensiero e la coscienza che accompagnano le azioni.

Ripercorro questi ricordi non con lo sguardo malinconico e vagamente autunnale dell’insegnante che fu, ma con la viva e forte irritazione che nasce di fronte all’imperversare delle competenze.

Non che io le rifiuti, perché la domanda “come si fa?” che torna a pungermi continuamente, ancora oggi, è ed era accompagnata, con naturalezza, dall’altra: “cosa sapranno fare, alla fine, i ragazzi?”.

La chiamavamo programmazione e basta, all’inizio, poi l’abbiamo chiamata programmazione curricolare, e ci sembrava logico, naturale, che ci accompagnasse, più che guidare.
Oggi, invece, l’avverto quasi come un’oppressione. E non come il mio collega Ciro, che si sentì profondamente offeso quando la preside dell’IPC nel quale ero passata, lo costrinse a scriverne una. “Cosa crede” – mi borbottava – “ che vado sulla cattedra ed improvviso giorno per giorno?” Non come lui, mi sento oppressa, ma come chi potrebbe ritrovarsi solo a prendere le misure e, così facendo, correrebbe il rischio di dimenticare, trascurare la fantasia e la creatività e sì, anche l’ improvvisazione ed il sentimento. Che non escludono affatto le competenze, ma le rendono proprie degli uomini e non delle macchine.

Conoscenze, competenze, capacità, ci invitava a determinare ed a valutare il “nuovo” (anch’esso) esame di Stato. E ancora potevo starci, anzi, mi sembrava un quadro di riferimento giustificato, in un percorso di formazione comprensivo e comprensibile. Tre parametri intrecciati, ma, per così dire, di pari dignità, non graduati e, soprattutto, non puramente funzionali.

Ora invece il processo - cognitivo? formativo? – delineato dalle indicazioni dovrebbe avere questa struttura:
nel percorso dalle capacità alle competenze saper fare e sapere perché fare, conoscere le procedure e la ragioni del fare, diventano momenti essenziali dell’impegno formativo che si estende:
dalle capacità personali: abilità e conoscenze finalizzate agli obiettivi specifici di apprendimento
attraverso le strategie didattiche dell’esempio (docente), dell’esercizio (allievo) e dell’insegnamento-apprendimento
all’obiettivo del passaggio dalle capacità alle competenze valorizzando potenzialità e attualità della persona.

Solo questo vuole essere la scuola? Solo questo per le persone?

Non sono nemica delle competenze: so quando e quanto si intrecciano con l’apprendimento o ne scaturiscono, conosco il procedimento della certificazione e lo uso agevolmente, nelle occasioni o situazioni in cui è utile e funzionale.

Però mi accade anche di chiedermi: una volta dicevamo che quella in cui viviamo o saremmo vissuti, sarebbe stata la società della conoscenza. Quand' è che abbiamo cambiato direzione e siamo passati alla società della competenza? Pur con tutte le sperequazioni, le distribuzioni ingiuste possibili o certe nella prima, la seconda mi sembra prospettare divisioni e fratture ancora più profonde.


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