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Con il cuore nella valigia
Repubblica - 16-11-2004
Dal capoluogo campano Napoli al Nord in viaggio sull'Intercity che trasporta i lavoratori meridionali

Con il cuore nella valigia, Napoli cerca lavoro al Nord
di GIUSEPPE D'AVANZO


"E allora voi dovete parlare con Rafiluccio, quello sta sempre incazzato". Rafiluccio se ne sta un po' discosto dai suoi tre amici che lo ritengono e lo indicano come l'uomo giusto per parlare di Napoli. Dei giorni insanguinati dalla camorra. Della maledizione di un precipizio economico e sociale che sembra non avere fondo. Soprattutto dell'avventura di chi, per un pugno di euro, lascia casa, famiglia, amici e, perché no?, identità per salire sul treno per il Nord.

Rafiluccio, anche se bestemmiando di furore e rabbia, è un napoletano di quella tribù che da decenni si aiuta da sola, "senza aspettare che vengano Elargite Provvidenze?", come scriveva una quarantina di anni fa Alberto Arbasino.

Il treno è l'Intercity Aspromonte 1588, il treno di rinforzo della domenica, il treno supplementare per raccogliere chi, una volta al mese, una settimana ogni due, torna dal Nord a casa, il venerdì notte, e ritorna al lavoro da Reggio Calabria e Napoli, la domenica sera.

E' vero, già a guardarlo da lontano, Rafiluccio non è di buon'umore. Va su e giù, a passi lunghi, con la sigaretta in bocca sul marciapiede del binario 18 a Napoli Centrale. Non guarda nessuno. Non parla con nessuno. Se ne sta con i suoi pensieri e devono essere maligni. Muratore, ora qua ora là - fino a Natale a Firenze - Rafiluccio, Raffaele C., ha alle spalle una storia che non è inconsueta a Napoli. Piccoli guai con la giustizia da adolescente, un breve soggiorno nel carcere minorile di Nisida, poi la morte del padre e la responsabilità delle sorelle che gli afferra le spalle. Rafiluccio non ha studiato troppo, ma non pecca d'acutezza. E' anche capace, nel silenzio rispettoso degli amici ora, di filoseggiare.

"Si parte perché bisogna farlo, perché hai bisogno di quelle lire per campare la famiglia - la più piccola delle mie sorelle va ancora alle elementari - ma lo sai che serve a niente, che non cambierà nulla, che quel che è oggi, sarà anche domani e dopodomani. Sai perché mi incazzo? Perché per me deve esistere solo il presente, la fatica di questa schifezza di oggi. Il passato è meglio che non ci penso. E il futuro non esiste, nemmeno lo immagino. Come vuoi che lo immagino! Come oggi! Tre mesi di lavoro in Emilia, tre mesi in Toscana. Senza un contratto vero, e sempre lontano da casa. Di tanto in tanto, un mese, un paio di mesi a casa senza una lira in cerca di qualche lavoretto? Lecito, che vai a pensare, con quella vita ho chiuso? Così lo immagino il mio futuro. Dimmi tu, non devo essere incazzato?".

L'Aspromonte 1588, che - chi lo sa perché - in alcuni mesi dell'anno diventa 1590, è un treno triste. Uno di quei treni che quando arriva in stazione vedi scorrere illuminato e vuoto nelle carrozze di prima classe, vuoto del tutto, e come annerito dai corpi dei viaggiatori e umido di vapori nelle carrozze di seconda classe. Rafiluccio non sa nemmeno che si chiama Aspromonte. Lo chiama il Buttasangue. "Tutti quelli che vedi qui dentro buttano il sangue e ce lo hanno scritto in faccia".

Buttano il sangue. Come dire patire, soffrire, penare. Non è nemmeno quello il problema vero, ha ragione Rafiluccio. E' un penare che non costruisce niente, questo è il problema. Che non alimenta una speranza, che non si nutre di un sogno. E' un penare che si affronta soltanto per difendere la precarietà che ti conserva sulla soglia della dignità. Che ti permette di avere rispetto di te stesso. Che ti consente di non precipitare in chi lo sa quale abisso sociale. Ma di equilibrio precario è sempre impastato. E' precaria sarà la tua vita, anche se vai fuori, se ti allontani da Napoli e dai suoi guai e dalla sua depressione e violenza. Non è l'emigrazione degli anni cinquanta e sessanta né quella dell'inizio del secolo scorso verso le Americhe. Quella, figlia della disperazione e della fame, si nutriva di un sogno. Si ambiva a "una vita nuova" e a una promozione sociale. Si preparava, al peggio, una strada meno aspra e in salita per i figli. Prevedeva un taglio con il passato e un futuro altrove. Su questo treno, affollato di giovani, nessuno pensa a una famiglia, a un figlio da tirar su. Sembra già troppo tenere in piedi se stessi. A tutti piace pensare che, prima o poi, torneranno qui a Napoli, perché qui si sentono "parte di qualcosa", più protetti e, nella precarietà, meno precari. Dove sono costretti a vivere oggi si sentono, e sempre hanno timore di essere in un angolo, "separati".

Angelo e Giacomo (chiamiamoli così, non vogliono "il nome sul giornale") parlottano tra di loro. Ventiquattro anni, hanno faccia, modi e jeans e cappellini di lana che non diresti mai che sono soldati (e di soldati in ferma sull'Aspromonte 1588 ce ne sono a decine). "Sì, siamo soldati - dice Giacomo - No, non di leva. Lo facciamo per mestiere. Da tre anni e mezzo. A Pordenone. Pordenone - che te lo dico a fare? - è tutta soldati e soldati meridionali. Certe sere sembra di stare a Napoli. E' un mestiere come un altro fare il soldato. Ottocento euro al mese. Non ci fai nulla, ma sopravvivi".

Angelo e Giacomo sono di Ponticelli. Dice Angelo: "Dal terremoto del 1980, Ponticelli non è stata più la stessa. Sono venti anni ed è sempre peggio. I miei compagni? Qualcuno con la pistola in mano. Qualcuno al cimitero. Tutti nella paura. Non vedo più nessuno. Preferisco così. Io e Giacomo abbiamo fatto i manovali, mai un contratto o un'assicurazione o una "pensione", però. Un giorno, Giacomo ha detto - ci conosciamo dai tempi della scuola - che potevamo andare nell'Esercito, che poteva essere una buona strada. Mi ha convinto".
Giacomo si stringe nelle spalle e lo guarda un po' beffardo. Spiega: "L'ho convinto, sì, ma che io sia entusiasta non è vero. Ottocento euro al mese sono un buono stipendio, per carità!, ma con tutti questi viaggi non è che resti molto alla fine del mese. Anche se lassù vitto e alloggio è gratis, qualcosa si deve pur lasciare a casa". Chiedo del futuro. Angelo: "Soltanto Napoli. Spero di tornare a casa mia a Ponticelli. Niente di che come futuro, è vero? Penso, spero che, prima o poi, me ne tornerò con la divisa dell'esercito da queste parti. Tutto qui è quello che chiedo. Magari per quel tempo la paga sarà più alta. Voi che dite, sarà più alta? Perché sapete io al contrario di Giacomo una famiglia penso di volerla mettere insieme. Che uomo è, un uomo solo?".

Non so chi ha detto un tempo, molto tempo fa, che il napoletano "sa essere felice della semplice coscienza della propria esistenza". Che fesseria! Stipato nel corridoio di seconda classe dell'Intercity Aspromonte, Reggio Calabria-Milano, orario previsto d'arrivo 23.50 (e già a Roma il ritardo è di 25 minuti), è difficile non pensare che a quella proposizione va mutato il segno: il napoletano è infelice per la semplice coscienza della propria esistenza. Potrebbe essere questa la conclusione del viaggio se non ci fosse in un angolo - impassibile, legge con attenzione una rivista di tecnologia - Vittorio Momento. Trentatrè anni, dottore commercialista. Si è laureato tre anni fa. E' diretto a Bologna. "Ho provato a fare il libero professionista, ma al di là della contabilità di bottega per qualche commerciante non riuscivo ad andare, e io non voglio fare il ragioniere. Mi sono reso conto che a Napoli non c'erano possibilità di lavoro. Era inutile insistere. Era come voler volare in un posto dove non c'è aria né cielo. E allora ho raggiunto a Bologna, mio fratello che, dopo aver studiato a Firenze, lavora lì come design. Non posso dire che la mia vita è cambiata. Ho lavorato con un contratto a termine di due mesi in una banca. Ora lavorerò per un mese, con un contratto interinale, in Vodafone al 190. Sì, un call center".

Quasi lo sento: "Buongiorno, sono Vittorio, come posso esserle utile?". L'altro che lo ascolta potrà mai immaginare che sia un dottore commercialista iscritto all'albo a cercargli un numero di telefono? Non c'è però risentimento o rancore nella parole di Vittorio. "Sì, un call center. Ma non mi scoraggio. So quel che voglio. Voglio un mio studio professionale, e prima o poi lo avrò. Quel che devo fare oggi è resistere a Bologna perché lì ci sono opportunità, c'è un mercato, una domanda professionale che a Napoli non c'è. E d'altronde se non c'è impresa o le imprese che ci sono stanno alla canna del gas, che ci fa un commercialista in più, senza santi in paradiso, in una città in crisi nera? Perché, veda, non è Napoli a essere nei guai. E' l'Italia che non se la passa bene ed è naturale che le città più deboli, strutturalmente più deboli, paghino alla crisi un prezzo sociale, di ordine e di civiltà più alto. Non sarà sempre così. Non è detto che debba essere così per sempre. Se l'Italia si rimetterà in piedi, anche Napoli potrà risollevarsi e quella di oggi ci apparirà una delle tante congiunture sfavorevoli affrontate dalla città". A chi credere? Chi ha ragione? Vittorio o Rafiluccio?

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