Due Americhe, due Italie
Vittorio Delmoro - 06-11-2004
Esistono dunque due Americhe : quella di Moore e quella descritta da Moore.

Per ora sta prevalendo quella descritta da Moore, pertanto anche l’America va considerata terra da riconquistare alla democrazia e alla convivenza civile; perché la democrazia non è il banale sistema per cui ogni tanto è possibile votare e, se va bene, va a votare almeno la maggioranza del popolo; la democrazia è un sistema che poggia su valori condivisi, a cominciare dalla solidarietà, dalla giustizia sociale, dal principio di ingerenza umanitaria.

E, come dice Sofri, bisognerà che ci facciamo i fatti loro, visto che loro si fanno già facendo abbondantemente i nostri.

Se mi fosse capitato di guardare Bowling a Colombine prima delle elezioni americane, invece che ieri sera su Rai3, avrei saputo con largo anticipo il risultato del voto : quell’America lì non può che votare Bush, ed è sicuramente maggioranza, maggioranza profonda e radicata, in una linea storica e culturale del tutto ovvia.

Sarà dura, per l’altra parte, pur abbastanza attiva, pur nobile, pur volonterosa e quasi innocente, prendere il sopravvento; da sola magari non ci riuscirà mai, senza l’aiuto culturale e pratico nostro, di noi europei (e non solo).

A guardarla, quell’America lì, ad ascoltarla (ha ragione Moore) si capisce quanto sia spaventata e quanto si illuda di cercare sicurezza nelle armi e di cingere la proprietà privata di filo spinato. Quanto potrà resistere, così sotto assedio? E quanto potrà reggere ancora all’ostilità mondiale?

S’impone anche per il generale Bush un cambiamento di rotta e io non ho dubbi che presto ne avvertiremo il giro di timone, mascherato dalle solite teorie che non stanno in piedi se non per annunci mediatici, ma poi sostanziale soprattutto sotto l’aspetto economico.

E in fondo è giusto così; perché mai infatti la sinistra (passatemi il termine improprio, solo per capirci) avrebbe dovuto riparare i danni causati dalla destra? Bush si è messo nel pantano iracheno, ora trovi lui il modo di trarsene fuori, pagandone tutte le conseguenze (ce ne saranno, altroché se ce ne saranno!).

Io credo che Kerry abbia tratto un sospiro di sollievo dalla sconfitta e credo che così abbiano fatto molti nell’Italia di sinistra : Kerry non avrebbe ritirato le truppe, sarebbe stato costretto, almeno nel breve periodo, a continuare la politica di guerra e avrebbe messo in imbarazzo i governi europei (ora amici) quando avrebbe chiesto loro un coinvolgimento sostanziale, nello spirito del multilateralismo.

La sinistra europea dunque, il popolo della pace, si ritrova la situazione immutata, lo stesso avversario davanti, il quadro più trasparente e le proprie analisi confermate; non deve far altro che proseguire la battaglia per conquistare alla democrazia, oltre agli Stati Uniti, anche i propri stati d’origine e quelli dei propri immigrati.

Le elezioni nazionali, dovunque saranno tenute, nei prossimi anni di Bush, si svolgeranno in una situazione più chiara e più scoperta, dove sarà più difficile mascherarsi da opportunisti o realisti che dir si voglia.

Perché la domanda che s’affaccia ora è proprio questa : se gli Stati Uniti vanno riconquistati alla democrazia, partiamo da una posizione di forza (noi europei, noi Italiani), oppure è meglio che ci preoccupiamo di riconquistare la democrazia in casa nostra?

Che per noi italiani è ancora più preoccupante, visto che non solo siamo governati da un Bush in miniatura, ma che il suo perfido influsso (parlo di valori…) sembra aver fatto breccia anche nelle classi più povere, visto che quelle alte li hanno nel proprio DNA, quei valori.

L’equazione iniziale potrebbe dunque specchiarsi in una più casalinga? Vincerà l’Italia di Moretti o quella descritta da Moretti? Quanto in profondità si è diffuso il cancro berlusconiano? Quanti vedono in lui il difensore dei propri valori, oltre che del proprio profitto? Quanti, non ancora stanchi di promesse mai mantenute, si faranno prendere da altre, più mirabolanti, prospettive? Siamo un popolo oramai vaccinato e maturo, oppure dobbiamo ancora curare il nostro infantilismo socio-culturale?

Si legge in questi giorni post-trionfali di Bush che alcuni cittadini americani abbiano espresso il desiderio di lasciare gli Stati Uniti e venire a vivere in Europa, disillusi nelle loro ultime speranze; se il prossimo 2006 (passando per il 2005), anche da noi rivincerà il Cavaliere, saremmo tornati ad essere terra di riconquista alla democrazia?

E in tutto questo quale dovrebbe essere il ruolo della scuola, il nostro ruolo di educatori?

Com’è possibile, se noi siamo quel che apparirebbe dal vastissimo movimento antiriforma, che i giovani che escono dalle nostre lezioni possano poi votare per chi incarna l’esatto contrario dei valori su cui abbiamo basato la nostra azione?

Non sentite, non sentiamo tutti quanti, la grande responsabilità che abbiamo sulle spalle?

Per questo mi piace pensare che ogni collega insegnante che riesco a convincere a scioperare il 15 novembre contro la riforma morattiana sia una persona in più conquistata alla democrazia; che ogni giorno in più di resistenza per la difesa dei valori su cui abbiamo costruito la nostra professione, valori messi pesantemente in forse dalla politica di questa maggioranza, sia un passo avanti in questo cammino verso un occidente umile, rispettoso delle culture altre, profondamente convinto che sia la condivisione la speranza del futuro.

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 Aldo E. Quaglozzi    - 07-11-2004
Fà una bella impressione riguardare per l’ennesima volta le cartine geografiche degli Stati Uniti d’America proposte e riproposte in occasione delle recenti elezioni americane.
E’ pur vero che si tratta sempre di cartine geografiche, con le loro particolari simbologie, ma osservare la distribuzione su di esse del voto espresso dall’elettorato americano incute un certo timore; un ventre molle e grosso quasi straripante di un color rosso acceso, ad indicare gli stati finiti al presidente in carica, e poi ai margini di quel ventre enorme e debordante, ad est come all’ovest e specchiantisi sugli oceani, striscioline striminzite di un color celeste a rappresentare gli stati che hanno voluto premiare lo sfidante.
In fondo quelle cartine sono una esatta rappresentazione della realtà americana, di una società grassa e grossa di benessere e di debiti, rappresentata per l’appunto dalla contuinità di quel colore rosso da impressionare, e che ha riempito tutta la parte centrale delle cartine viste e riviste, da est fino ad ovest; una società indifferente ai richiami morali e che non ha voglia di interrogarsi sul suo ruolo nel mondo, del prestigio perso a causa di dissennate politiche militari, tutta tesa com’è a difendere un esistente benessere che affonda le sue rapaci mani nelle disuguaglianze internazionali, nell’impoverimento di intieri continenti, per la qualcosa anche l’uso delle armi, ideologizzato come ‘ lotta al terrorismo ‘, trova l’indifferenza di quell’enorme molle ventre d’America.

Riletture: “ Il distacco della democrazia americana “ di Noam Chomskj

La corsa al seggio presidenziale Usa, affannosa fin quasi all'isteria, non rappresenta certo gli impulsi democratici più sani. Gli americani saranno pure incoraggiati a votare, ma non sono invitati a partecipare in modo più attivo al dibattito politico.

In sostanza, le elezioni sono un mezzo per emarginare la popolazione: si pone in atto una massiccia campagna di propaganda per indurre i cittadini a concentrarsi su queste quadriennali farse personalistiche e a pensare che la politica sia tutta qui. Ma non è vero: questa non è che una piccola parte della politica.

La popolazione è stata attentamente esclusa dall'attività politica, e non a caso. L'impegno messo a questo fine è stato notevole. Negli anni sessanta l'esplosiva partecipazione popolare ha terrorizzato le formazioni politiche istituzionali, che hanno organizzato una feroce campagna di repressione. Oggi, sia la sinistra sia la destra si sforzano in modo palese di ricacciare la democrazia nel suo stretto angolino.

Bush e Kerry possono candidarsi perché sono finanziati da concentrazioni di potere privato sostanzialmente identiche, ed entrambi sanno bene che le elezioni devono tenersi lontane da questioni del genere. I due candidati sono creature dell'industria delle pubbliche relazioni, e di conseguenza la cittadinanza resta esclusa dal processo elettorale. L'attenzione è rivolta verso le cosiddette "qualità" dei candidati anziché sul programma politico: ha la stoffa del leader? È simpatico?

Gli elettori finiscono per approvare un'immagine, non una piattaforma. Il mese scorso un sondaggio Gallup ha indagato sui motivi per cui gli americani sceglieranno Bush o Kerry. Dall'inchiesta, articolata per domande a risposta multipla, è emerso che solo il 6 per cento delle preferenze per Bush e il 13 di quelle per Kerry si fondava su "programma/idee/piattaforma/obiettivi". Un risultato del genere non può che soddisfare il sistema politico. Spesso le questioni che più interessano i cittadini non rientrano con chiarezza nel dibattito pubblico.

Un recente rapporto del Consiglio di Chicago sulle relazioni con l'estero, un istituto che compie regolari indagini sull'atteggiamento degli americani riguardo alle questioni internazionali, illustra perfettamente questa sconnessione. Una larga maggioranza di statunitensi è favorevole all'idea di "lavorare con le Nazioni Unite anche quando adottano misure sgradite agli Usa".

Molti americani sono inoltre dell'idea che "tutti gli stati debbano avere il diritto di entrare in guerra da soli solo se hanno chiare prove sull'imminente pericolo di un attacco", e quindi non approvano il consenso bipartisan sulla "guerra preventiva". Riguardo all'Iraq, le indagini del Programma sull'atteggiamento nei confronti della politica internazionale dimostra che gran parte degli americani preferirebbe che fossero le Nazioni Unite a dettar legge sulla sicurezza, sulla ricostruzione e sulla transizione politica del paese.

Lo scorso marzo l'elettorato spagnolo ha potuto effettivamente esprimere il proprio parere su questi temi, ed è degno di nota che pur condividendo le opinioni degli spagnoli (per esempio su un Tribunale penale internazionale o sul Protocollo di Kyoto), gli americani si trovino del tutto isolati: solo di rado sentono parlare di argomenti simili nei discorsi elettorali e probabilmente considerano queste idee alquanto eccentriche. Eppure negli Stati Uniti la militanza di chi aspira a un cambiamento politico potrebbe diffondersi più che mai. Si tratta però di un attivismo disorganizzato: nessuno sa mai che cosa stia succedendo dall'altra parte della città.

Con i cristiani fondamentalisti è il contrario: all'inizio del mese Pat Robertson ha annunciato da Gerusalemme che fonderà un nuovo partito se Bush e i repubblicani esiteranno nel loro sostegno a Israele. È una minaccia seria, perché Robertson potrebbe riuscire a mobilitare decine di milioni di cristiani evangelici, una forza politica molto rilevante grazie al loro decennale impegno in molti campi e grazie alla loro presenza in posti chiave, dalla direzione delle scuole alla presidenza del paese.

La corsa al seggio presidenziale non è priva di un attivismo incentrato su singole questioni. Nel corso delle primarie, quindi prima che la campagna si infiammi davvero, i candidati possono proporre iniziative mirate e contribuire alla mobilitazione popolare su specifiche questioni, influenzando in certa misura la campagna stessa. Dopo le primarie le semplici dichiarazioni pubbliche possono esercitare solo un impatto minimo in assenza di una consistente organizzazione che le sostenga.

È quindi essenziale che i gruppi progressisti popolari si sviluppino e si rafforzino tanto da non poter essere più ignorati dai centri del potere. Tra i vari movimenti di lotta per il cambiamento che, nati dalle organizzazioni di base, hanno scosso la società alle sue fondamenta ci sono il movimento laburista, quello per i diritti civili, quello pacifista, quello femminista e altri ancora, tutti alimentati da un impegno costante svolto a tutti i livelli e tutti i giorni, non solo una volta ogni quattro anni.

Però le elezioni non si possono ignorare. Bisogna riconoscere che uno dei due gruppi che lottano per il potere è, tra l'altro, estremista e pericoloso, ha già creato molti problemi e potrebbe crearne ancora. Quanto a me, dal 2000 non ho cambiato opinione: se vivete in uno swing state votate per escludere dal gioco il male peggiore. Se invece vivete da un'altra parte, agite secondo coscienza. Sono molte le considerazioni da fare: Bush e la sua amministrazione si sono impegnati pubblicamente a smantellare e distruggere tutte le leggi progressiste e previdenziali conquistate dalle lotte popolari degli ultimi cento anni. Sul piano internazionale, aspirano a dominare il mondo con la forza militare, senza parlare del "dominio sullo spazio" per aumentare le capacità di controllo e di attacco preventivo.

Al momento del voto bisogna fare una scelta delicata, ma questa scelta è comunque secondaria rispetto a una seria azione politica. L'obiettivo principale è quello di creare una cultura democratica veramente responsabile, e questo compito va ben oltre le farse elettorali, qualunque sia il loro risultato.”