Aldo E. Quaglozzi - 07-11-2004 |
Fà una bella impressione riguardare per l’ennesima volta le cartine geografiche degli Stati Uniti d’America proposte e riproposte in occasione delle recenti elezioni americane. E’ pur vero che si tratta sempre di cartine geografiche, con le loro particolari simbologie, ma osservare la distribuzione su di esse del voto espresso dall’elettorato americano incute un certo timore; un ventre molle e grosso quasi straripante di un color rosso acceso, ad indicare gli stati finiti al presidente in carica, e poi ai margini di quel ventre enorme e debordante, ad est come all’ovest e specchiantisi sugli oceani, striscioline striminzite di un color celeste a rappresentare gli stati che hanno voluto premiare lo sfidante. In fondo quelle cartine sono una esatta rappresentazione della realtà americana, di una società grassa e grossa di benessere e di debiti, rappresentata per l’appunto dalla contuinità di quel colore rosso da impressionare, e che ha riempito tutta la parte centrale delle cartine viste e riviste, da est fino ad ovest; una società indifferente ai richiami morali e che non ha voglia di interrogarsi sul suo ruolo nel mondo, del prestigio perso a causa di dissennate politiche militari, tutta tesa com’è a difendere un esistente benessere che affonda le sue rapaci mani nelle disuguaglianze internazionali, nell’impoverimento di intieri continenti, per la qualcosa anche l’uso delle armi, ideologizzato come ‘ lotta al terrorismo ‘, trova l’indifferenza di quell’enorme molle ventre d’America. Riletture: “ Il distacco della democrazia americana “ di Noam Chomskj “La corsa al seggio presidenziale Usa, affannosa fin quasi all'isteria, non rappresenta certo gli impulsi democratici più sani. Gli americani saranno pure incoraggiati a votare, ma non sono invitati a partecipare in modo più attivo al dibattito politico. In sostanza, le elezioni sono un mezzo per emarginare la popolazione: si pone in atto una massiccia campagna di propaganda per indurre i cittadini a concentrarsi su queste quadriennali farse personalistiche e a pensare che la politica sia tutta qui. Ma non è vero: questa non è che una piccola parte della politica. La popolazione è stata attentamente esclusa dall'attività politica, e non a caso. L'impegno messo a questo fine è stato notevole. Negli anni sessanta l'esplosiva partecipazione popolare ha terrorizzato le formazioni politiche istituzionali, che hanno organizzato una feroce campagna di repressione. Oggi, sia la sinistra sia la destra si sforzano in modo palese di ricacciare la democrazia nel suo stretto angolino. Bush e Kerry possono candidarsi perché sono finanziati da concentrazioni di potere privato sostanzialmente identiche, ed entrambi sanno bene che le elezioni devono tenersi lontane da questioni del genere. I due candidati sono creature dell'industria delle pubbliche relazioni, e di conseguenza la cittadinanza resta esclusa dal processo elettorale. L'attenzione è rivolta verso le cosiddette "qualità" dei candidati anziché sul programma politico: ha la stoffa del leader? È simpatico? Gli elettori finiscono per approvare un'immagine, non una piattaforma. Il mese scorso un sondaggio Gallup ha indagato sui motivi per cui gli americani sceglieranno Bush o Kerry. Dall'inchiesta, articolata per domande a risposta multipla, è emerso che solo il 6 per cento delle preferenze per Bush e il 13 di quelle per Kerry si fondava su "programma/idee/piattaforma/obiettivi". Un risultato del genere non può che soddisfare il sistema politico. Spesso le questioni che più interessano i cittadini non rientrano con chiarezza nel dibattito pubblico. Un recente rapporto del Consiglio di Chicago sulle relazioni con l'estero, un istituto che compie regolari indagini sull'atteggiamento degli americani riguardo alle questioni internazionali, illustra perfettamente questa sconnessione. Una larga maggioranza di statunitensi è favorevole all'idea di "lavorare con le Nazioni Unite anche quando adottano misure sgradite agli Usa". Molti americani sono inoltre dell'idea che "tutti gli stati debbano avere il diritto di entrare in guerra da soli solo se hanno chiare prove sull'imminente pericolo di un attacco", e quindi non approvano il consenso bipartisan sulla "guerra preventiva". Riguardo all'Iraq, le indagini del Programma sull'atteggiamento nei confronti della politica internazionale dimostra che gran parte degli americani preferirebbe che fossero le Nazioni Unite a dettar legge sulla sicurezza, sulla ricostruzione e sulla transizione politica del paese. Lo scorso marzo l'elettorato spagnolo ha potuto effettivamente esprimere il proprio parere su questi temi, ed è degno di nota che pur condividendo le opinioni degli spagnoli (per esempio su un Tribunale penale internazionale o sul Protocollo di Kyoto), gli americani si trovino del tutto isolati: solo di rado sentono parlare di argomenti simili nei discorsi elettorali e probabilmente considerano queste idee alquanto eccentriche. Eppure negli Stati Uniti la militanza di chi aspira a un cambiamento politico potrebbe diffondersi più che mai. Si tratta però di un attivismo disorganizzato: nessuno sa mai che cosa stia succedendo dall'altra parte della città. Con i cristiani fondamentalisti è il contrario: all'inizio del mese Pat Robertson ha annunciato da Gerusalemme che fonderà un nuovo partito se Bush e i repubblicani esiteranno nel loro sostegno a Israele. È una minaccia seria, perché Robertson potrebbe riuscire a mobilitare decine di milioni di cristiani evangelici, una forza politica molto rilevante grazie al loro decennale impegno in molti campi e grazie alla loro presenza in posti chiave, dalla direzione delle scuole alla presidenza del paese. La corsa al seggio presidenziale non è priva di un attivismo incentrato su singole questioni. Nel corso delle primarie, quindi prima che la campagna si infiammi davvero, i candidati possono proporre iniziative mirate e contribuire alla mobilitazione popolare su specifiche questioni, influenzando in certa misura la campagna stessa. Dopo le primarie le semplici dichiarazioni pubbliche possono esercitare solo un impatto minimo in assenza di una consistente organizzazione che le sostenga. È quindi essenziale che i gruppi progressisti popolari si sviluppino e si rafforzino tanto da non poter essere più ignorati dai centri del potere. Tra i vari movimenti di lotta per il cambiamento che, nati dalle organizzazioni di base, hanno scosso la società alle sue fondamenta ci sono il movimento laburista, quello per i diritti civili, quello pacifista, quello femminista e altri ancora, tutti alimentati da un impegno costante svolto a tutti i livelli e tutti i giorni, non solo una volta ogni quattro anni. Però le elezioni non si possono ignorare. Bisogna riconoscere che uno dei due gruppi che lottano per il potere è, tra l'altro, estremista e pericoloso, ha già creato molti problemi e potrebbe crearne ancora. Quanto a me, dal 2000 non ho cambiato opinione: se vivete in uno swing state votate per escludere dal gioco il male peggiore. Se invece vivete da un'altra parte, agite secondo coscienza. Sono molte le considerazioni da fare: Bush e la sua amministrazione si sono impegnati pubblicamente a smantellare e distruggere tutte le leggi progressiste e previdenziali conquistate dalle lotte popolari degli ultimi cento anni. Sul piano internazionale, aspirano a dominare il mondo con la forza militare, senza parlare del "dominio sullo spazio" per aumentare le capacità di controllo e di attacco preventivo. Al momento del voto bisogna fare una scelta delicata, ma questa scelta è comunque secondaria rispetto a una seria azione politica. L'obiettivo principale è quello di creare una cultura democratica veramente responsabile, e questo compito va ben oltre le farse elettorali, qualunque sia il loro risultato.” |