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Tra nonluogo e limbo
Repubblica quotidiano - 21-10-2004

Mentre a Roma la Chiesa discute sull' abolizione del Limbo, a Parigi Fabio Gambaro intervista Marc Augé.

Così è nato il non luogo

«Nell´immaginario religioso», dice Marc Augé, «l´aldilà è sempre legato a una definizione spaziale con una sua precisa iconografia. Ciò vale soprattutto per l´inferno e per il paradiso, ma anche per il purgatorio. Il limbo invece resta uno spazio indefinito e senza un´identità precisa. E´ uno spazio non rappresentabile».
L´antropologo Marc Augé è il teorico dei "nonluoghi". Quegli spazi sradicati da un contesto, nei quali non v´è nulla che simbolizzi un´identità specifica o una relazione con la storia. Sono gli aeroporti, i supermercati, le stazioni di servizio sempre uguali ai quattro angoli del pianeta. Per Augé, nei nonluoghi gli individui si spogliano della loro identità e della loro storia, restano come sospesi a mezz´aria, svincolati dal passato come dal futuro, senza radici e senza relazioni. Si tratta di una condizione molto particolare, il cui archetipo può essere individuato proprio nell´idea di limbo.



Dante parla di "foresta di spiriti spessi"...
«Sono ombre che tra di loro non comunicano. Il limbo in fondo nasce da un compromesso che permette di salvare dall´inferno gli innocenti non battezzati, i quali però sono condannati all´assenza di paradiso e soprattutto all´assenza di relazioni. Nel cristianesimo essere separati da Dio significa essere separati dagli altri. Quella del limbo quindi è una condizione di solitudine. Da questo punto di vista, esso è certamente un nonluogo in cui si vive una sospensione infinita che allontana per sempre dalla felicità. Purtroppo ciò accade anche nella nostra realtà, all´interno dei limbi sociali».

A cosa si riferisce?
«Attorno a noi vivono persone che, non usufruendo dei diritti elementari, sono di fatto relegate in una sorta di limbo sociale. La loro è una condizione negativa, il cui statuto è definito da una privazione. Sono i non aventi diritto, i senza documenti, i senza fissa dimora. Sono persone, che pur senza essere incolpate di nulla, si trovano in uno stato di emarginazione sociale senza sbocchi».

E di attesa infinita...
«Purtroppo sì. Il trascorrere del tempo è vivibile solo in presenza di un passato e di un futuro. L´attesa indefinita è negazione della temporalità. Queste persone hanno spesso reciso i legami con il loro passato e le loro radici, pur non avendo futuro né speranza. Di conseguenza, nel loro tempo non ci sono più punti di riferimento. L´immigrato che sbarca sulle coste europee, finendo in un centro di accoglienza, vive spesso questa situazione. Spera di essere entrato in un purgatorio, ma poi scopre di essere rinchiuso per sempre in un limbo».

Come accade al protagonista di Terminal, l´ultimo film di Steven Spilberg?
«Esatto. Per altro il film racconta la storia vera di un iraniano bloccato da molti anni all´aeroporto di Parigi, un non luogo per eccellenza dominato dalla desimbolizzazione della vita e dalla desocializzazione delle relazioni. Il legame sociale è un legame simbolico fondamentale, che, se inserito in una dimensione spazio-temporale precisa, ci consente di autorappresentarci la realtà. Se tale legame viene meno, ci troviamo invischiati in un universo incomprensibile e senza contorni, vale a dire in una sorta di limbo moderno».

L´eternità senza tempo del limbo mal si concilia con l´accelerazione spazio-temporale che domina la nostra società, non crede?
«Il nonluogo inteso come limbo è il negativo, in senso fotografico, della realtà in cui viviamo. E´ un presente senza immagini in un mondo dominato dalla spettacolarizzazione. E´ un momento di sospensione, che, se temporaneo, può anche essere paradossalmente positivo».

Nel limbo dei nonluoghi c´è infatti chi prova un senso di libertà. Capita anche a lei?
«Sì, ma a patto che si tratti di un limbo provvisorio. Una parentesi nel flusso continuo della vita. In aereo, ad esempio, mi sento sempre molto bene, perché sono in una condizione d´isolamento, lontano dal mondo e dalle relazioni. Lì, mi riposo dalla fatica della mia identità sociale. E´ una sensazione molto piacevole, ma solo perché è provvisoria».

Il limbo ha anche a che fare con l´oblio?
«Sì. Viviamo in una realtà dominata dalla memoria, ma sappiamo benissimo che non possiamo ricordare tutto, altrimenti rischiamo la saturazione. E´ importante saper dimenticare. E innanzitutto saper dimenticare se stessi, che poi significa dimenticare anche gli altri. Naturalmente, non si tratta di un atteggiamento da adottare sempre. Può però essere una condizione necessaria quando abbiamo bisogno di una di tregua nella battaglia della vita. E naturalmente è molto più facile dimenticare e dimenticarsi quando si è nel limbo dei nonluoghi. Oppure nel limbo del sonno».

Insomma, da un punto di vista metaforico, il limbo è ancora un´idea produttiva...
«Sì. In fondo, quando siamo d´umore uggioso, trasformiamo il mondo in un limbo, procedendo a una sorta di detemporalizzazione della realtà che ci circonda. Il che vale anche sul piano collettivo. Oggi, ad esempio, siamo in una situazione di questo tipo. Parliamo volentieri di fine della storia e delle grandi narrazioni. E ci percepiamo come prigionieri di un mondo senza futuro, anche se l´evoluzione rapidissima della scienza sembrerebbe indicare il contrario. Insomma, abbiamo la sensazione di vivere in un´epoca da cui non ci aspettiamo nulla. Ecco perché la nostra vita ci appare a volte come un limbo quotidiano. Un limbo che non ha più nulla a che fare con la teologia».





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