tam tam |  storie  |
Il cappotto strappato di Aurora
il Manifesto - 07-10-2004
Torturata dai fascisti per rivelare i rifugi dei partigiani, dopo la liberazione restò vittima della vergogna e delle maldicenze. E qui racconta com'è difficile difendere la dignità

di FILIPPO COLOMBARA

Sono passato di primo pomeriggio, la vecchia casa è ormai disabitata, erba e sterpaglie nel piccolo cortile sono cresciute in fretta, anche il muschio è avanzato sulle mura scrostate. Bene in evidenza, forse unica nota d'interesse, è un cartello con la scritta «Vendesi». L'abitazione si trova in un borgo di collina nell'area dei laghi a ridosso delle Alpi, località non troppo distante da Milano e appetibile sul mercato immobiliare. In questa casa fino a poco tempo fa abitava «Aurora». Quando la conobbi era sui settant'anni e, grazie a una decisiva mediazione, si era resa disponibile a raccontare al mio registratore una vicenda importante della sua vita che le avrebbe segnato il futuro.


«Ero dinamica - racconta con voce inizialmente concitata, poi si calma - non avevo paura, ero ottimista, non ero ancora pessimista, avevo anche ventiquattro anni». Durante il conflitto la ragazza lavora come operaia in una fabbrica sul lago e dopo la nascita della guerriglia, con il consenso del proprietario, si assenta saltuariamente per svolgere il compito di staffetta del plotone comando di Cino Moscatelli, leggendario commissario politico delle brigate Garibaldi.

Un po' si schernisce nello spiegare le ragioni della sua scelta; il ragazzo di cui è innamorata è entrato in un gruppo partigiano, lei non vuole essere da meno e si offre di portare ordini e fornire informazioni. Non sono molti i giovani del paese che salgono in montagna, anzi quelli abili sono internati in Germania o nascosti nelle cascine e qualcuno si è arruolato nelle divisioni di Mussolini. Forse per questi motivi la comunità è meno impermeabile alla delazione, sta di fatto che gli spostamenti di Aurora sono notati e ben presto viene sospettata di collaborare con la Resistenza.

Un giorno di febbraio del 1944 è convocata presso il comando fascista di pianura. «Il tenente ha proibito di farmi avvicinare al fuoco per scaldarmi e di darmi da mangiare, era cattivo. Lui aveva lì anche una bella donna, giovanissima, aveva tutti i capelli bianchi, ma bella, poi aveva un fare da brava, non so». L'ufficiale si allontana per dirigere un'operazione di rastrellamento in montagna e un milite rimasto la mette in guardia. «M'ha chiesto se avevo visto il divano che c'era su nella stanza. `Sì ho visto il divano'. `E non hai visto quante macchie, stai attenta perché quando vengono delle belle ragazze quello lì...'. M'ha detto che non scherzava: `Te lo dico perché vedrai che ti farà la festa anche a te'».

Di nuovo arrestata

In quell'occasione non succede nulla di grave, Aurora interrogata diverse volte è alla fine rilasciata. Dopo poco tempo, tuttavia, viene nuovamente arrestata e riportata dal medesimo ufficiale. «M'ha detto che io sapevo dove c'era il magazzino delle armi, io non lo sapevo invece. E diceva: `Tu sei l'amante dei partigiani!'. `L'amante dei partigiani? Come si permette di dire che sono l'amante di qualcuno, io non sono stata l'amante di nessuno' e quasi piangevo. E lui: `E' quello che vedremo'. 'Cosa vuol vedere?' [...] `Adesso vogliamo vedere se non sei mai stata l'amante di nessuno'. `Cosa vuol vedere, provi a toccarmi!'. Cerca di venire avanti e mi dice: `Tu mi devi dare la prova che non sei mai stata di nessuno'. `A lei? - gh'ò dic' - guardi, se lei è giusto come dice di essere, mandi a chiamare un medico che lei non conosce e lo porti qua'. `Vediamo!'. `No, lei non ha niente da vedere'. Io mi sono ritirata fino alla porta...». Aurora è fortunata, gli approcci del tenente sono interrotti dal sopraggiungere di un milite. «E poi a lui c'è passato tutto e non mi ha fatto niente...». Ma siamo solo all'inizio. «E' lunga la storia da raccontare, adesso vengono le cose brutte...».

Di lì a poco, infatti, quando i fascisti si installano in paese per effettuare un rastrellamento, viene interrogata e poi rilasciata ma qualcuno del borgo fornisce informazioni circostanziate e i fascisti si ripresentano a casa sua. Aurora sale in stanza da letto, indossa il cappotto e cerca di distruggere le due carte d'identità false che possedeva. «Tre mi seguono, quando arrivo a metà scale, io le avevo già prese in mano ma hanno acceso la pila e hanno visto, le hanno trovate. `Questa è una prova!'. Ho cercato di inventare un mucchio di storie... Mi volevano morta e con quello che mi hanno fatto c'è mancato poco».

La situazione a quel punto precipita e inizia il calvario della ragazza. Interrogata dai tedeschi, non rivela nulla di significativo e alla loro partenza resta nelle mani dei repubblichini. L'ufficiale, stizzito dalla mancanza di risultati, sbotta: «'No, questa non ci voleva, prendetela, portatela fuori e fateci quello che volete'. Gli altri mi hanno portata fuori e questo ancora: `Allora dov'è `sto comando di Moscatelli?' e intanto uno arriva con un ferro rovente, `Non hai mica niente da perdere, tu dicci dove si trova il comando di Moscatelli'. 'Io vado al mattino a lavorare e vengo a casa alla sera, io non so niente'. Allora uno è venuto lì m'ha strappato il paletot, m'ha strappato il vestito, m'ha preso le mani e me le ha legate dietro la schiena e poi pam, con un nerbo e sono caduta. M'ha rialzata, `Lo dici o non lo dici?'. `No, non ho niente da dire'. Allora hanno preso una specie di pinza e mi hanno attorcigliato tutto il seno, sono andata in terra non ho pianto ma ho sentito dei dolori, m'hanno rialzata, mi hanno schiaffeggiata e poi l'ultima cosa che ricordo è che avevano un cerchio così che hanno aperto e me l'hanno messo qua [in testa] e hanno stretto forte forte, so io cosa ho sentito... poi non mi ricordo più niente... So che quando ho ripreso i sensi ero dentro in una stanza e di fronte a me c'era una porta e lì c'erano tutti i fascisti ancora ubriachi. Ventiquattro ore sono stata senza riprendere i sensi, ero lì così, intontita. Si apre la porta e sento uno che fa: `Ah, vigliacchi, voi non siete uomini siete bestie, cosa avete fatto'. `Adesso la mandiamo su dai suoi ribelli che la rimettono in sesto'. Io ho fatto così con la mano e ero piena di sangue, ho detto: `Per me è finita'... Infatti da quel momento là per me...».

Cinque anni senza parlare

Portata nel biellese, a Valle Mosso, con altri ostaggi è in seguito incarcerata a Torino fino alla liberazione. Al ritorno in paese: «Sono stata cinque anni senza parlare di cosa mi hanno fatto, per la vergogna... che me ne hanno fatte di tutti i colori. C'era chi diceva: 'Chissà quella lì che è andata coi fascisti cosa le hanno fatto'».

Aurora è riuscita a narrare con pacatezza i momenti tragici, offrendomi molti particolari, a garanzia di verità. Poi riprende il tono concitato dell'inizio, per la tensione che le provocano i ricordi successivi. «Io ho ripreso la vita come prima ma non osavo a dire a lui [il fidanzato] che cosa mi avevano fatto. Ero venuta a casa poco prima del 25 aprile, Moscatelli mi aveva fatta curare in ospedale ma per fortuna non avevo niente... Sono stati tre mesi di carcere e per tre mesi non ho visto mestruazioni... Sa, poteva essere successo qualunque cosa, perché è stata un'esperienza ma di quelle terribili per me... Per me non c'è stata una prima volta...». La voce incalza e prefigura i nuovi dolori che l'attendono, in particolare l'incontro con il ragazzo del cuore. «E' stata una esperienza terribile, come potevo presentarmi a quella persona lì?».

La guerra è finita e anche la gente di collina vuole divertirsi, si organizzano feste e balli all'aperto. Aurora partecipa accompagnata dal fratello ma teme di incontrare il fidanzato, infatti: «Lui mi ha visto - mamma mia cosa ho provato, mi sono sentita morire -, mi ha detto: `Ma cosa hai fatto? Sei venuta a casa e non ti sei fatta viva? Le mie sorelle ti aspettano'. `Lasciami stare, lasciami andare'». La vergogna che prova per quanto accadutole si tramuta in senso di colpa. Torna a casa e riprende il lavoro, inconsapevole del nuovo dramma che si sta per compiere. «Sono andata a lavorare e ho trovato un amico di lui che mi dice: `Oh, che roba brutta neh, hai sentito che è morto?'. Io pensavo che era morto il papà del mio fidanzato: `Pòar véc'. Allora `sto qui è rimasto: `Ma no, è il tuo fidanzato che è morto'. `No, non è vero, no no'... Non ero più io... Sono andata a casa sua e il padre e le sorelle piangevano: `Pensa che aveva fatto il mobilio, a marzo andava a Roma poi veniva a casa e si sposava'. Una sorella mi ha portato su a vederlo, ma io non osavo baciarlo e allora lei mi dice: `Ma almeno un bacio lo puoi fare'. Il primo morto che ho baciato, come baciare un pezzo di ghiaccio... Per me è stata finita...».

Aurora è però una persona intelligente, temprata dall'esperienza, di quelle che a fine intervista sanno riassumere e dare senso alla proprio biografia. «Sono ricordi belli - ribadisce - anche se ci sono stati questi brutti. So le cose che mi hanno fatto... Non importa, io sono contenta di quello che ho fatto. Dico che la vita è una sola, però se dovesse succedere ancora lo farei ancora... Sì sì». La donna sfoglia i libri sulla Resistenza che possiede, mi fa vedere una fotografia del `45 che la ritrae sorridente in divisa garibaldina. «Ce ne ho tanti di libri, io li so tutti a memoria... La gente del paese non ha mai saputo niente di me, quelli che sanno sanno, adesso mi sfogo perché ormai sono alla fine, ma sono stata cinque anni... Sono tornata poi alla vita normale, facevo l'operaia dov'ero prima».

Non ho più rivisto Aurora e nonostante mi avesse autorizzato a pubblicare la sua vicenda, non me la sono mai sentita di farlo integralmente; è sempre problematico muoversi tra storia e memorie private, tra desiderio di sapere e ricordi di forti emozioni.


  discussione chiusa  condividi pdf

 Anita    - 07-10-2004
Come lei chissà quante altre. Sembrano racconti lontani, sembra impossibille che sia passato così poco tempo e che oggi ci siano altre Aurore qui a raccontarci.

"Antonietta nome di battaglia Fiamma
che ancora oggi corre da una scuola all'altra - è in pensione come insegnante di matematica - a parlare della Resistenza; perché, come dice la sua nipotina Veronica in una poesia, "quel grande libro dobbiamo scriverlo nella mente e tramandarlo, per far sì che resti scritto nella nostra storia".

http://www.romacivica.net/anpiroma/liberazione/liberazione6.htm