breve di cronaca
Hanno liberato la pace
l'Unità - 30-09-2004
Lo stesso nome: Simona. La stessa età: ventinove anni. La stessa professione: operatrice umanitaria. La stessa passione: aiutare gli altri. Lo stesso bisogno primario, che poi, per la maggior parte della gente, diventa secondario oppure, più spesso, scompare: che la vita abbia un senso, che ci sia un motivo, una necessità, per alzarsi dal letto al mattino, per camminare, mangiare, parlare, tornare a dormire, e poi alzarsi di nuovo. Loro l’hanno trovato, questo senso. Basta guardarle, nelle molte immagini filmate che ci hanno mostrato in questi lunghissimi ventun giorni di attesa. Una Simona scarta pacchi di libri illustrati, l’altra organizza un girotondo (di quelli veri, con i bambini piccoli), una parla con le donne, l’altra si china su un letto d’ospedale. Basta guardarle: belle come sono belle le ragazze a cui non importa un fico secco di essere belle. Diverse: una con il viso pieno e occhi verdi grandissimi, carichi di stupore.
L’altra con il viso più sottile e i capelli lunghi e uno sguardo nero, intenso, che potrebbe essere di una donna araba. Simile il sorriso: fiducioso e sereno come è soltanto il sorriso di chi crede che sia ancora possibile mettere ordine in questo porcile insanguinato. Non lo è. Non è possibile dedicarsi agli esseri umani uno per uno, non si può tendere la mano a un orfano, alleviare una solitudine, accogliere chi è senza casa, dare ascolto a una disperazione, salvare una biblioteca mentre piovono bombe. Non si può. Non è possibile. E il necessario, precipitoso ritirarsi degli operatori di tante organizzazioni umanitarie l’ha confermato.
Anche per questo, non soltanto per il terrore indecifrabile di questi tempi e di quei luoghi, anche per questo abbiamo avuto, in certi momenti, quasi la certezza di perderle, le due Simone. E abbiamo provato un’angoscia diversa, più intima, più personale di quella con cui abbiamo seguito le vicende di tutti gli altri ostaggi.
Uccidere Simona Pari e Simona Torretta, sarebbe stato simbolicamente insopportabile perché, immediatamente, le abbiamo caricate del peso del loro progetto: la consapevole, volontaria, ingenuità di mettere in pratica una vita da buoni. Un impulso che Vittorio Feltri, come ha scritto, avrebbe represso a schiaffoni, fossero state, per loro disgrazia, figlie sue. Simona Pari, Simona Torretta. Una laurea in filosofia, una scuola d’arte: martiri laiche di un fanatismo ammantato di formule religiose. L’assenza di notizie sulla loro sorte è stata compensata, in questi giorni terribili, da un fluire ininterrotto e stranamente copioso di immagini della loro vita e del loro lavoro. Ci incalzavano, sorridenti, dai teleschermi. Ormai le conosciamo bene: una Simona parla, seria a un interlocutore invisibile, l’altra risponde al telefono. Le abbiamo guardate con apprensione, con tenerezza, sedute ciascuna alla sua scrivania, il computer portatile aperto sul tavolino laterale: due bambine intente a qualcosa di grande e di infantile insieme. Lavorare sul suolo imbrattato da una guerra infame, come se fosse terra neutra, luogo praticabile, strada pubblica, sgombra, da percorrere a piedi, disarmate, camminando in fretta sotto il peso della propria buona volontà, del proprio desiderio di fare. Le immagini passano e ripassano, passano e ripassano le loro corte biografie, ci vengono mostrati infinite volte i loro cognomi sul citofono dei palazzi dove, giustamente, tacciono i loro genitori. Ci vengono mostrati i loro visi familiari fotografati, incollati sui cartelli nelle manifestazioni di solidarietà, di protesta, tenuti stretti dalle mani di qualche anonimo addolorato che implora la pace. Passano e ripassano, ossessivamente, i video girati nei cortili delle scuole, i giochi, i sorrisi dei bambini. Un clima da merenda sull’orlo del baratro.
Di giorno in giorno, la nostra sofferenza cresce. Ci si scopre a pregare, a contrattare con un Dio in cui non crediamo, ci si scopre a desiderare d’essere al posto di Silvio Berlusconi, e non ci era mai successo, a invidiarlo perché lui poteva, effettivamente, fare qualcosa. Lui potrebbe ritirare le truppe italiane dall’Iraq. Lui potrebbe, lui poteva, lui può. «Non si deve darla vinta ai terroristi». D’accordo: ma anche consentendo ai terroristi di uccidere ancora, li si fa vincere. Non esce vittorioso Blair che non tratta, Berlusconi che non si piega, Bush che non molla. Perdono tutti e tre, perdono, stanno perdendo, hanno già perso. Anche se, per una volta, è bastato il danaro, anche se è stata evitata la tragedia. Forse per un contorto, atavico, rispetto per le donne che il Corano impone e a cui i musulmani obbediscono (fatta eccezione per le adultere, in certi Stati religiosamente lapidate). Forse per l’intercessione dell’ala moderata degli islamici. Forse perché, o almeno ci piace pensare anche a questa ipotesi, le due Simone erano contrarie alla guerra, amavano e aiutavano il popolo iracheno, e allora avrebbe meritato la stessa clemenza anche Enzo Baldoni. Baldoni, Pari, Torretta lavoravano per aiutare le vittime di una guerra che detestavano e disapprovavano. Due ce l’hanno fatta, l’altro no. Guardiamole, le due Simone. Guardiamole mentre si liberano dal cappuccio nero. Guardiamo queste due donne materne che hanno rischiato di non diventare mai madri. Guardiamole in posa i capelli coperti fra altre donne coi capelli coperti, che, anche per la loro umiltà di uniformarsi, si fidano e parlano. Guardiamo queste immagini che raccontano un altro modo di affrontare i problemi del mondo. Imbelle, direbbe Gianfranco Fini. Imbelle, infatti. Ma per noi è un complimento. Guardiamole, ora che possiamo guardarle senza angoscia: vive, belle, allegre e animate da una testarda determinazione a sottrarsi alle regole del rassegnarsi. Guardiamole. E cerchiamo di non dimenticare, che erano lì nonostante la guerra e contro la guerra, contro il mito dell’Occidente sovrano, la sua tracotanza neoliberista, le sue finzioni pedagogiche. Abbracciamole e lottiamo perché l’orrore non colpisca altri uomini, altre donne, altre ragazze, mentre il Grande Esportatore di Democrazia, circondato da cadaveri decapitati, ancora si rifiuta di gettare la spugna.

Lidia Ravera

  discussione chiusa  condividi pdf

 Gianni Mereghetti    - 02-10-2004
La grande gioia per la liberazione delle "due Simone" porta dentro un sentimento di gratitudine a Dio. E' Lui, il Misericordioso, che le ha liberate dalle mani dei terroristi. Finalmente questa commovente vicenda umana mostra il vero volto di Dio, che non è quello assetato di sangue, cui i terroristi sacrificano vittime innocenti, ma è questo che ha toccato il cuore dei rapitori di Simona Pari e Simona Torretta, permettendo alle diverse iniziative italiane un esito positivo.
Questa vicenda insegna così a tutto il mondo la strada per vincere il terrorismo, è la certezza che Dio accompagna passo dopo passo l'uomo nel suo difficile cammino e genera la pace. Di questa pace l'unità che è sbocciata improvvisamente in Italia è un segno incoraggiante, che bisogna continuare a perseguire.

 Pierangelo    - 02-10-2004
da l'Unità del 1.10.2004

Chi le voleva morte
di Antonio Padellaro

Sicuramente le voleva morte chi ha scritto il nome di Simona Torretta e Simona Pari nella lista di cui parla Maurizio Scelli (Croce Rossa), elenco stilato dall’intelligence americana e finito nelle mani dei terroristi iracheni. Anche se appare difficile che le indagini della Procura di Roma abbiano uno sviluppo, questa faccenda delle spie è la prima versione dei fatti che abbia un senso logico. Quando le due italiane furono sequestrate, tutti si chiesero perché proprio loro. Trattandosi di operatrici umanitarie di un’organizzazione apertamente schierata contro la guerra non si capiva la ragione del dispiegamento di tutto quell’apparato militare (fuoristrada, tute mimetiche, armi automatiche), con il comandante che procede all’identificazione leggendo i nomi delle due Simone da un foglio scritto da altri. Più che un rapimento, oggi, quella scena ci appare come l’esecuzione di un arresto da parte di una sorta di controspionaggio. Ma se una «lista americana» esiste, una domanda sorge spontanea: le due ragazze sono effettivamente spie dei servizi italiani? Semplice la risposta: visto che a quei signori con barbe e mitra non mancava il tempo e il modo per scoprirlo, un niente e le ragazze non sarebbero mai più tornate a casa. E allora se quella lista c’é, e loro non sono spie, chi le voleva morte? E per quale motivo?
Invece, non è difficile capire cosa muova il linciaggio organizzato contro Simona e Simona appena hanno messo piede in Italia. Qui dobbiamo distinguere vari livelli di odio. Che due ventinovenni, a un certo punto della loro vita abbiano deciso di occuparsi di vecchi e bambini iracheni può dare fastidio a quella società del cazzeggio che mai nella vita vorrebbe incrociare un vecchio iracheno sporco e affamato (magari il bambino sporco sì, ma con una bella adozione a distanza di sicurezza).
Un mondo in fondo divertente che ritrovandosi intorno a qualche tavolo del Pastasciuttaro o nella tribuna Monte Mario, ogni tanto prorompe nel grido: «Aho, ’ste Simone che palle». Il simpatico clima da «aridatece le bodyguards (Agliana-Stefio-Cupertino erano meno articolati)», ben tratteggiato da Maria Laura Rodotà sulla «Stampa» di ieri, con il titolo programmatico: «Simone adesso basta». Tutte brave persone, per carità, che mai avrebbero desiderato la morte delle due ragazze (ma che non fossero mai esistite, forse sì).
Sempre meglio dei sermoni impartiti non si sa bene dall’alto di quale magistero morale. Bacchettatori a borderò, impegnati a predicare misura, a deprecare l’eccesso di festeggiamenti per le liberate e il mancato ringraziamento a questo o a quello; a misurare a spanne quanta ideologia, quanto pacifismo, quanto sinistrismo sopravviva nelle sciagurate. In fondo, per questi neodomenicani in tod’s, assai meglio le due avrebbero fatto a non salvarsi, ad accettare la gabbia e il martirio, piuttosto che ritornare sorridenti mostrando, orrore, quel pesante Corano grondante lacrime e sangue. E poi, quella frase maldestra e rivelatrice: condanniamo il terrorismo, non la resistenza. Gratta, gratta e sotto il pacifista spunta il terrorista. Parlano proprio come quell’altro che l’estate scorsa dichiarava: «I kamikaze sono tutti terroristi ma altri combattenti non lo sono. Non sopportano di essere occupati. Né io né nessun altro vorremmo essere al loro posto». Chi era questo mascalzone? George W. Bush nell’intervista a «Paris Match».
Il più moderato è «Libero». Gli bastano le punizioni corporali. La redazione deve essere a Monaco, sopra una famosa birreria. Ogni tanto il direttore scende a farsi un boccale e a sentire quel che si dice in giro. Quando ritorna sostituisce la punteggiatura con sberle e calci nel sedere. Anche lui, lo sappiamo, non farebbe male a una mosca, ma davanti alle due Simone esce dai gangheri. Le imbecilli vogliono tornare in Iraq? «Se però finiranno di nuovo ostaggio di qualche banda, faremo il tifo per i banditi». Eh sì, il vecchio Adolf non aveva tutti i torti.
Infine, le preferivano morte, metaforicamente s’intende, gli allegri cantori del dio degli eserciti e dello scontro di civiltà. Pensate al loro sbriciolato castello di certezze. Prima, la linea dell’intransigenza. Con i tagliagole non si tratta. Niente riscatti. Il nostro ministro degli Esteri Frattini è uno tosto a differenza del suo molle collega francese Michel Barnier che per riavere i due giornalisti s’inginocchia in moschea e davanti alle belve di Hamas. Le preghiere interreligiose non salveranno mai nessuno. Le ragazze sono state uccise, sgozzate, stuprate, vendute ci hanno assicurato, ma il pacifismo moralmente ambiguo, pigro, accidioso, distratto questo non lo ammetterà mai. Tanto che il vicepremier italiano Fini propone di dichiarargli guerra (al pacifismo). E invece le ragazze tornano perché c’è stato qualcosa di inaudito. C’è stata la trattativa. Il riscatto. Frattini che prega in moschea. Il dialogo interreligioso che riprende. Quando Giuliano Ferrara scrive: «Ci diranno che siamo lo specchio del nostro nemico, ma preferiamo ospitare l’opinione del dottor Zawahiri alla parola tiepida e infeconda, né sì né no», ci spiega con funesta onestà che la parabola dell’ostaggio liberato nutre la paura e il cedimento dell’Occidente. Perciò odiano le ragazze ritornate. Come biasimarle se vogliono tornare a Baghdad?

 Pierangelo Indolfi    - 02-10-2004
e da il Manifesto del 2.10.2004

FICTION
Soggetto per un (brutto) film
C'era una volta un paese arabo occupato dalle truppe di una grande potenza e di alcuni paesi europei, squassato dalle autobombe. Quando entrarono in campo i servizi segreti...
Un labirinto dove s'incrociano spioni a ogni angolo di strada e dove gli interessi delle forze d'occupazione a volte si intrecciano con gli interessi dei terroristi
Gli ostaggi passano di mano in mano, tra interventi bellici e umanitari non si capisce più niente, vittime sono le volontarie di pace. Il regista ha un'idea
di VAURO

Luogo: un paese arabo, ricco di risorse energetiche, collocato in una strategica posizione geopolitica, stravolto da una guerra che ha portato alla caduta di un dittatore, prima alleato poi inviso alle potenze occidentali che l'hanno scatenata. Contesto: il paese occupato dalle forze militari delle potenze occidentali si trova di fatto in uno stato di guerra permanente e diffusa. Il caos e la disperazione nella quale è sprofondata la società civile è il quadro in cui nascono gruppi di resistenza armati facenti capo a diverse componenti etniche, religiose e politiche, ma è anche fertile terreno di coltura per servizi segreti di svariata provenienza e gruppi terroristici internazionali con interessi ora divergenti ora convergenti.

Protagonisti:

1) Il capo del governo provvisorio del paese arabo, imposto dalla potenza occupante (ha organizzato e compiuto per conto di essa negli anni precedenti azioni terroristiche volte a destabilizzare il vecchio regime), che conta su elezioni farsa che diano una patina di legittimità al suo potere, ha buone relazioni con alcuni governi di paesi arabi confinanti e con quelli delle forze di occupazione.

2) L'ambasciatore della più grande potenza occupante nel paese che ha un curriculum di organizzatore di formazioni terroristiche, infiltrazioni e operazioni coperte in America latina.

3) Il governo di un paese europeo che, pur non avendo partecipato attivamente alla fase bellica, ha mandato le sue truppe a fianco di quelle di occupazione.

4) La sezione nazionale della più grande organizzazione di aiuto sanitario internazionale (Osi), mandata dal governo del paese europeo insieme alle truppe. La sezione nazionale è commissariata e il suo responsabile è di nomina governativa.

5) Il commissario della sezione nazionale della Osi è in stretti rapporti con il sottosegretario alla presidenza del consiglio. E' lui che gestisce gli ingenti fondi governativi stanziati per la missione.

6) Un palestinese con buoni rapporti nella società civile del paese occupato.

7) Un giornalista freelance, pacifista, collaboratore della sezione nazionale della Osi, amico del palestinese.

8) Una ong del paese europeo presente da anni nel paese arabo.

9) Due volontarie della ong della stessa nazionalità.

10) Un'altra ong (ong due), sempre del paese europeo ma al cui interno qualcuno ha poi operato in stretto rapporto con i servizi: uno dei suoi membri più importanti è successivamente diventato un reclutatore dei cosiddetti contractors, miliziani privati presenti in massa (più di 20mila) nel paese arabo occupato.

Storia: nel paese arabo occupato si susseguono violenze di ogni tipo, dai bombardamenti alle autobombe, dalle azioni armate della resistenza a quelle della criminalità comune. I rapimenti sono all'ordine del giorno, sia quelli di cittadini del posto, volti esclusivamente al pagamento di riscatti, sia quelli di stranieri, sempre in qualche modo legati alle potenze occupanti. In alcuni di questi ultimi, una volta accertata l'estraneità degli ostaggi nei confronti delle scelte delle rispettivi governi, i rapiti vengono liberati. Non è il caso dei quattro contractors del paese europeo che vengono sequestrati. Uno di loro verrà ucciso, gli altri tre liberati. Il gruppo dei sequestratori, tramite mediatori, aveva lanciato segnali di disponibilità alla liberazione dei tre a una ong del paese europeo (anche quella presente da anni nel pese arabo e non finanziata dal governo), a condizione che la liberazione assumesse il significato di sostegno alla gran parte dell'opinione pubblica del paese europeo manifestatamente contraria alla presenza delle truppe in Iraq, tanto più nel momento in cui il paese si trovava alla vigilia di una importante scadenza elettorale. Per lo stesso motivo, per il governo del paese europeo era fondamentale che l'eventuale liberazione dei tre sopravvissuti passasse, al contrario, come una riconferma della linea interventista. Alcuni dei rapitori vennero corrotti con una cospicua cifra di denaro all'insaputa di chi nel gruppo aveva la gestione politica del sequestro e i tre ostaggi vennero liberati da un «blitz» mai comprovato dei militari della potenza alleata. Gli sforzi del governo del paese europeo perché lo sbocco della vicenda dei contractors rapiti non mettesse a rischio la propria stabilità politica, vedevano tra i protagonisti principali (e più loquaci) il commissario della sezione nazionale della Osi, anche se il suo ruolo nella vicenda non verrà mai chiarito.

L'arrivo nel paese arabo occupato del nuovo ambasciatore della più grande potenza della coalizione, con il suo ricco curriculum di esperto di azioni terroristiche, di infiltrazione e azioni coperte in aree dell'America latina (curriculum molto simile a quello del capo del governo provvisorio del paese arabo), sembra inserire un elemento nuovo anche nel panorama degli attentati e dei sequestri: non più soltanto gli stranieri legati alle forze di occupazione ma anche pacifisti dell'ong o giornalisti divengono target di azioni terroristiche.

Nel paese arabo occupato, il capo del governo provvisorio attende una sua elezione per legittimarsi e non sono graditi testimoni scomodi di una votazione che, se si farà, sarà solo una farsa tragica. In più, tramite le commesse per la ricostruzione ma anche tramite organizzazioni umanitarie e di soccorso legate ai governi occupanti, scorre un enorme fiume di denaro del quale è bene controllare che nemmeno i rivoli possano deviare verso finalità che non coincidano con il rafforzamento del potere stesso.

Cospicui sono anche i fondi che il governo del paese europeo elargisce alla missione della sezione nazionale della Osi, guidata dal suo commissario che si fa vanto di gestirli personalmente. E' in questo quadro che avviene uno dei primi sequestri «anomali». Un giornalista freelance che collabora come volontario nella sezione nazionale della Osi contribuisce all'organizzazione di un convoglio di aiuti, fidando in un palestinese conosciuto e stimato nella società civile del paese arabo che può garantire che gli aiuti raggiungano effettivamente chi ne necessita. Il convoglio parte quindi percorrendo un canale diverso da quelli scelti sino ad allora dalla sezione nazionale della Osi. Il commissario tenta di bloccarlo e, ufficialmente, si dichiara contrario alla missione. Il convoglio subisce un attentato lungo il tragitto di andata, lungo quello del ritorno un altro, quello fatale. Il palestinese viene ucciso, il freelance rapito e ucciso prima dello scadere di un ultimatum lanciato dai sequestratori tramite videocassetta. Il fiume di denaro torna nei suoi argini.

Meno di un mese dopo un commando organizzato irrompe nella sede di una ong del paese europeo e rapisce due ragazze del paese stesso e due locali, un uomo e una donna, la donna è legata a un'altra ong (ong due). Un ex esponente della ong due, l'abbiamo detto, è diventato reclutatore di contractors. E' evidente che si tratta di un'operazione non casuale ma ben programmata. Dopo giorni di angoscia, però, gli ostaggi sono rilasciati, anzi i rapitori addirittura si scusano e regalano loro vestiti e dolci. «Dopo il primo giorno - racconta una delle ragazze - hanno capito che non eravamo spie». La ragazza è stata per molto tempo nel paese arabo, probabilmente ha detto cose e fatto riferimento a persone che hanno convinto i rapitori dell'errore. Ma chi ha indotto i rapitori a compiere una operazione perfettamente organizzata contro un obiettivo sbagliato?

Con l'appoggio attivo del nuovo ambasciatore della grande potenza, il capo del governo provvisorio del paese arabo ha finanziato e riorganizzato la sua rete terroristica coperta (già ne disponeva in passato), infiltrando suoi agenti in uno o più gruppi della resistenza. Sono loro ad aver indicato l'obiettivo e ad avere organizzato l'azione. Per rendere più credibile agli occhi dei guerriglieri la presunta attività spionistica degli operatori umanitari, fanno riferimento alla presenza della ong due e a una lista della grande potenza occupante dalla quale risulterebbe il ruolo di «spie» delle due volontarie. Per il capo del governo provvisorio del paese arabo, diffondere il panico tra gli operatori di ong al di fuori del controllo delle forze occupanti, ridurne la mobilità nel paese o spingerli ad abbandonarlo, significa sgombrare il campo da testimoni inopportuni in vista delle elezioni ma, soprattutto, rinsaldare il controllo sul flusso di denaro «umanitario». Ma qualcosa va storto, i guerriglieri si convincono che i rapiti non sono spie, non diffondono nessuna videocassetta accompagnata da proclami o ultimatum. Fuori da logiche di guerra e di potere, nel paese europeo cresce la mobilitazione popolare per la liberazione delle volontarie di pace e il ritiro delle truppe d'occupazione dal paese arabo. Gli uomini del capo del governo provvisorio del paese arabo danno il via a una campagna di depistaggi, soprattutto via internet, arrivando a far circolare la notizia che gli ostaggi sarebbero già stati uccisi, quasi a forzare la mano ad alcuni dei rapitori.

Intanto però, nel mondo islamico e non solo in quello «moderato», cresce la mobilitazione e la richiesta di liberazione dei rapiti, addirittura Hezbollah e talebani si dichiarano apertamente contrari a questo sequestro. La componente infiltrata nel gruppo di guerriglieri ha gioco sempre più difficile nel convincere gli altri a dare una soluzione drastica alla vicenda. Tutta l'operazione rischia di trasformarsi in un boomerang per chi l'ha pianificata. Ora si tratta di uscirne con il minor danno possibile, sia per il presidente del governo provvisorio che rischia di scoprire la propria rete occulta, sia per i governi arabi e dei paesi occidentali che gli riconoscono legittimità (il paese europeo delle ragazze ha addirittura ricevuto in pompa magna il presidente del paese arabo occupato, proprio nei giorni del sequestro). Sono i regimi di due paesi arabi confinanti ad offrire una sponda, proponendosi come mediatori ufficiali con il paese europeo coinvolto, il cui ministro degli esteri si reca in visita proprio in quei paesi, visita contraccambiata dal re di uno di essi alla vigilia della liberazione degli ostaggi. E' interesse di tutti che il governo provvisorio del paese arabo non risulti pesantemente implicato nel rapimento, anche di chi, sulla base del riconoscimento della sua legittimità, giustifica la permanenza delle proprie truppe nel paese occupato. La liberazione dei rapiti deve passare come il frutto di una operazione di intelligence e di diplomazia che non metta in alcun modo in discussione le scelte politiche e militari dei governi coinvolti e non crei dubbi su chi è davvero il «nemico».

Nella scena finale del film, le due rapite, finalmente libere, si tolgono il cappuccio e trovano, sorridente e pimpante ad accoglierle, il commissario della sezione nazionale della Osi.

Nota dello sceneggiatore: la scena finale può risultare un po' patinata e poco credibile, però è di sicuro impatto sul pubblico.

P. S. Ogni riferimento a persone o organizzazioni realmente esistenti o esistite è puramente casuale.

 Pierangelo Indolfi    - 02-10-2004
da l'Unità del 1.10.2004

La destra contro Simona e Simona, più scomode da libere che da rapite
di Maria Zegarelli

Per i tanti sorrisi regalati a telecamere e flash e per le lacrime non versate. I più cauti le hanno rimproverate di non aver ringraziato il governo, l’opposizione e la Croce Rossa per il loro impegno. Di aver ringraziato, invece, il popolo iracheno, la resistenza irachena e il mondo musulmano. Sono state criticate per non aver detto una parola su Enzo Baldoni, l’ostaggio mai tornato né da vivo né da morto. E per non aver ricordato gli ostaggi decapitati («Ma non lo sapevamo fino a due ore fa», hanno inutilmente spiegato le due ragazze), non aver condannato senza se e senza ma i terroristi di ogni specie, compresi i loro rapitori.

La colpa più grande. Ma la colpa più grande di cui si sono macchiate è l’aver detto che bisogna ritirare le truppe dall’Iraq. Hanno detto, una volta tornate qui, dove la guerra non c’è, che lì si muore ogni giorno, anche sotto le bombe americane. Questo non avrebbero dovuto farlo. Non avrebbero dovuto offuscare in questo momento tutto il lavoro fatto dal governo (e dall’opposizione) per farle tornare a casa, rinvigorire in questo modo il movimento pacifista che con il loro sequestro aveva subito un colpo durissimo e rischiava di starsene buono e in disparte almeno per un po'.

Agliana non docet. Tutta un’altra musica rispetto a quella suonata quando sono tornati Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio. Altri personaggi, quelli, e altre storie le loro. Erano body-guard partiti per svolgere un lavoro rischioso: tornarono da eroi, con il tricolore elevato a simbolo di tutta la vicenda. Libero di venerdì 11 giugno, titolava a pagina 7 «Da sinistra fango sugli ostaggi», «l’informazione ulivista adombra sordide attività dei nostri connazionali sequestrati». Marco Ferrazzoli scriveva: «Dopo due giorni di convenevoli, di felicitazioni piuttosto formali, la sinistra cambia registro: sono tre mercenari». Lo stesso giorno, Antonio Socci, in un editoriale pubblicato dal Giornale rifletteva: «In galera? Ai ferri? Riconsegnati agli iracheni? Messi a pane e acqua? E perché no? Agliana, Stefio e Cupertino hanno fatto l’errore di farsi liberare dal Berlusconi e per di più alla vigilia delle elezioni... Sono troppo popolari questi ragazzi e troppo italiani. Altro che abbracci e baci. Stanno già diventando bersagli polemici dell’Italia progressista e intellettuale...».

Danza macabra. Chi sono Simona Pari e Simona Torretta per quegli stessi giornali? Le due ragazze italiane rapite, volontarie dell’associazione non governativa «Un ponte per», impegnate in Iraq per la realizzazione di progetti di ricostruzione ce le raccontano come danzatrici che ballano «La danza macabra delle Simone sulle vittime della “resistenza”» (pagina 2 di Libero di ieri). Sono due «vispe Terese che tornano in Iraq», «che beatificano i terroristi, non ringraziano Berlusconi e dicono: il nostro posto è a Baghdad. Tanto se le ribeccano paghiamo noi» . O, ancora, sono le ragazze «che esibiscono i doni dei rapitori» «ed esaltano l’Islam dei fanatici che uccidono i civili», (Libero del 30 settembre). Mattia Feltri scrive: «Ne hanno nostalgia. Hanno detto: “Ci mancano i nostri bambini”. Forse fra i 34 bambini morti mentre andavano a prendere l’acqua e raccogliere le caramelle ce n’era qualcuno dei loro... Ecco, Simona & Simona e con loro “Un ponte per...” appartengono alla zona grigia. Popolano quel mondo fortemente ostile agli Stati Uniti e incapace di condannare senza titubanze il terrorismo, come Eugenio Scalfari, per il quale fra l’eccidio di Beslan e i bombardamenti americani non c’è differenza morale... Non è preciso dire che le due Simone e “Un ponte per” sono la zona grigia. Loro sono la zona grigia tendente al nero». Giulio Ferrari sulla Padania di ieri, a pagina 7 racconta così Simona Pari: «La laurea in Filosofia all’università di Bologna, la collaborazione alla locale redazione dell’Unità dove spiccano edificanti servizi giornalistici sui transessuali e, dulcis in fundo, una significativa esperienza nell’ufficio stampa dell’allora sottosegretario diessino alla Difesa, Domenico Minniti, detto Marco. Il politico, cioè, che fu tra i responsabili della pianificazione dell’intervento militare contro la Serbia, ai tempi del governo di Massimo D’Alema». Sulla prima pagina del Giornale del 30 settembre campeggiava questo titolo: «Salvate. Ma adesso salvateci dai pacifisti».

Anche Francesco Merlo, sulle pagine di Repubblica, non le risparmia: «A nessuno, neppure a due ragazze coraggiose, è consentito di proporre il proprio mestiere come visione del mondo, sia esso un mestiere militare o sia invece un mestiere di ricerca storica o paramedico o parapsicologico etnologico o sia esso “un ponte per”...». Tante anche le lettere dei lettori, indignati per il mancato ringraziamento al governo (avvenuto pubblicamente “soltanto” giovedì pomeriggio).

Ingrate! C’è anche chi dalle pagine de Il Foglio suggerisce alle due volontarie di fare una colletta per risarcire lo Stato del riscatto pagato per la loro liberazione. Anche la politica è scesa in campo, come sempre, per gonfiare le vele della polemica. Il leghista Alessandro Cé è tormentato da un dubbio: «Non si è capito ancora se stavano bene in cattività o erano realmente contente di essere liberate».

La rossa, di capelli, Tiziana Maiolo, Fi, è umiliata: «È proprio vero che spesso l’ingratitudine è l’unica risposta a chi fa del bene. Speriamo che sia solo la giovane età a dettare cattivi consigli. Ma noi donne occidentali ci sentiamo oggi umiliate, pur nel ritorno a casa di nostre sorelle, una volta di più da chi vuole a tutti i costi metterci il burqa così come, da chi sequestrata o libera che sia se lo mette da sola. Dentro la testa, prima che sopra».

Il vicepresidente della Regione Veneto, Fabio Gava, osserva: «Molti giornali di giovedì riportano servizi sull’orrendo attentato di Baghdad, rivendicato da un fanatico come Al Zarkawi, e le dichiarazioni di Simona Torretta che dicono tra l’altro: io distinguo terrorismo e resistenza. La guerriglia è legittima, ma sono contraria a sequestri di civili». Gava aggiunge: «Mi vengono i brividi e mi assale un dubbio: qual è il confine tra legittimità ed orrore per Simona Torretta?»

La corrente di antipatia. Ha ragione Corrado Augias, quando scrive: «Che Simona e Simona abbiano potuto fare qualche dichiarazione precipitosa o dimenticare, in un primo momento qualche ringraziamento doveroso mi pare perfettamente comprensibile e, se colpa è, è colpa lieve. Una piccola corrente di antipatia si è levata contro di loro perché hanno osato ricordare le sofferenze del popolo iracheno, l’opportunità, a loro modo di vedere, di ritirare le nostre truppe sui cui effettivi compiti operativi, peraltro, sappiamo ormai poco o nulla»

 Pierangelo    - 03-10-2004
da Repubblica del 3.10.2004

LAPSUS
di STEFANO BARTEZZAGHI

GRAZIE

Si sa: c´è chi può e chi non può. In questo piccolo mondo manzoniano, mentre i potenti e i carnefici si comportano come vogliono, e intere nazioni mostrano pazienza e comprensione nell´interrogarsi sulla psiche del premier e le turbe del bruto, le loro vittime e i parenti di esse sono tenuti a comportarsi benissimo. Molto apprezzata la «dignità» del dolore, anche se è in televisione viene poi meglio il singhiozzo pubblico e l´urlo.
Al termine dell´evento delittuoso che li colpisce, con la massima sollecitudine, devono poi fare un mucchio di cose: scusarsi dell´incomodo, perdonare i responsabili - se di religione cristiana; deprecarli con la faccia feroce giurando vendetta - se di altra confessione; e soprattutto ringraziare educatamente tutte le autorità, senza confondersi sull´ordine in cui menzionarli. Cara Simona e cara Simona, perché avete ringraziato in ritardo questo e quello? Sappiate inoltre che in questo genere letterario le proprie opinioni personali non sono molto gradite, specie se pacifiste e corroborate dall´esperienza. Se ormai «non resta che far torto / o patirlo», chi patisce, patisca e sorrida. Dica «grazie» al sindaco e al curato e non si metta dalla parte del torto.

 Pierangelo    - 03-10-2004
e da Repubblica Bari del 3.10.2004 questo editoriale di Michele Mirabella, che non condivido, ma che riporto proprio perché "viene da sinistra"

Le due Simone e troppe luci
Va bene, andrò controcorrente ma le Simone sono antipatiche


di Michele Mirabella

«E da me avrai il resto!» In Italiano non suona efficace come suonava in dialetto. Anzi, provo a riportare anche il suono attraverso la grafia del giornale, più compiutamente l´avviso risuonava così: «e c mo´ ca vin, si fatt a mazzat, da me adà avè u rest!». Nel lessico famigliare si praticavano questo genere di disposizioni di servizio che certificavano l´indisponibilità dei genitori ad avallare rissosità inutili e dannose nonché il cacciarsi nei guai così facile nel mondo fuori di casa. Andava così: tu, figlio, non dovevi ricorrere alla violenza con i tuoi compagni o con chicchessia e questo era il postulato. Non dovevi, corollario, neanche andarti a cacciare nei guai, quelli che fossero, senza autorizzazione, copertura genitoriale, assoluta necessità. In ogni caso avevi il dovere di cavartela da solo e di tornare a casa senza troppe storie. Qui non dovevi aspettarti alcun genere di supporto, comprensione o tolleranza, né, tanto meno, solidarietà. Che se, poi, fuori di casa le prendevi, l´ultima cosa da fare era cercare risarcimenti nelle mura domestiche o, Dio ne guardi, meditare vendette e rappresaglie contro i tuoi avversari per prepotenti che fossero. Qui, in casa, scattava la procedura prevista nell´ammonizione: avevi il «resto», un soverchio di mazzate.
Erano mazzate utili, contemporaneamente, a completare l´opera di colui che aveva avuto ragione della tua inefficienza e ad insegnarti a star buono, a non cacciarti nei guai, a non farci stare in pensiero, a tenere le mani a posto, visto, tra l´altro che non sapevi usarle. Questa procedura pedagogica su di me faceva effetto, e come! Certo mi rendeva dubbioso quest´autorità non partigiana ed un poco m´irritava, ma m´istigava ad un non so che di orgoglio per un padre, più di rado una madre, che sapevano essere così lucidi e sovranamente saggi da insegnarmi con sobrio equilibrio l´astinenza dai guai inutili. Come spesso sono, i guai. Tutto questo ricamino «d´antan» per potermi finalmente liberare e dire che le due signorine Simona e Simona (questa cosa del nome uguale è veramente imbarazzante), mi sono antipatiche. Già a sequestro ancora caldo, non riuscii a provare nulla di più che un sentimento di umana pietà e rimasi restio ad intrupparmi nel gigantesco rituale attivato dai media o per i media in favore della liberazione. Lo trovavo stucchevole, francamente inutile o controproducente addirittura. Pensavo che i briganti sequestratori proprio quello volevano, che si parlasse di loro. L´asfissiante presenzialismo delle ragazze e l´alluvione di parole connotavano un paradosso inquietante: erano fisicamente scomparse e mediaticamente invasive fino all´ossessione. Questo è esattamente il meccanismo dei programmi televisivi scemi fatti da guardoni per altri (milioni) guardoni. In questo caso il format era lugubre e folle, ma ha funzionato. La follia omicida dei banditi iracheni ci ha ricattato fino alla resa, la paura ha invaso il paese, la nostra vita è stata turbata, sconquassata, loro, «le Simona» erano dovunque, in tivvù, appese sui manifesti, nei commenti della gente, sui giornali, nelle nostre notti e nei nostri giorni amarissimi.
Abbiamo sperato, pregato, implorato, discusso, combattuto: per loro, per queste due donne che c´inseguivano dai monitor, dai rotocalchi, dalle sfilate, dai cortei. Abbiamo anche scoperto che avevano un repertorio di immagini impressionante e spropositato se non per dei professionisti del video. Nessuno a domandarsi se fosse stato così necessario andare a cacciarsi in zona di guerra a fare qualcosa che si può fare dovunque meglio e più al sicuro, perfino in Italia. Tutti a dire di tutto, ma non questo. Pochissimi a tacere e lavorare e indagare. E pagare. Ed eccole qui, sane e salve. Finalmente. S´erano andate a cacciare nei guai, guai seri, non baruffe davanti alla scuola, ma sono tornate linde e pinte. Addirittura eleganti. Sorridenti. Ciarliere. Ci saremmo aspettati un po´ più di sobrietà: meno televisioni, paparazzi, uscite a sproposito come quelle non richieste dichiarazioni sugli Iracheni e sull´Islam, meno dolciumi, meno melassa buonista. E, invece, no: voilà, rieccoci qua, pronte a ricominciare. Mi viene in mente la lettera scritta a questo giornale da una signora che si domandava se potrà scalare dalle tasse la sua quota del riscatto pagato agli «amici arabi». Ringraziano, sorridono, ringraziano anche i sequestratori e sorridono, salutano, sorridono, rimpiangono l´Iraq, sorridono, dichiarano, denunciano, promettono di tornare da dove sono venute e sorridono. Questo è troppo. Qui dovrebbe scattare l´ammonimento: «e c mo´ ca vin, si fatt a mazzat, da me adà avè u rest!».

 Pierangelo    - 03-10-2004
Scusate se insisto. Da l'Unità online - 2.10.2004

Mobbing
di Furio Colombo

Avvertenza ai lettori. Se non ci fosse l’Unità, se all’improvviso questo giornale, per le ragioni del mercato (niente pubblicità, meno pagine, meno copie) dovesse una mattina non essere più in edicola, non leggereste questo articolo né niente, anche più tenue, indiretto, moderato, in difesa di Simona Torretta e Simona Pari, su un altro giornale. Ciò che sta accadendo, che l’Unità e Antonio Padellaro hanno già denunciato, è un attacco che si disloca tra sarcasmo, disprezzo e accusa, contro le ragazze scampate allo sgozzamento, una sorta di persecuzione rumorosa e mirata che rimbalza - forse per emulazione - fra giornali rivali (Libero, Il Giornale, di cui pubblichiamo le truculente aperture nelle pagine interne) e nei testi sacri del fondamentalismo occidentale, guidati da Il Foglio. Tutti gli altri giornali, per grandi che siano, tacciono. Il fenomeno si chiama “mobbing”. È un parola americana diventata comune in Italia. Vuol dire quando un branco di teppisti si accorda per isolare e tormentare qualcuno, fino a cacciarlo (dal lavoro), a espellerlo (dalla scuola), a screditarlo (fra i suoi colleghi e i suoi vicini), a indurlo alla resa e alla fuga. Il mobbing si può fare a una condizione: coloro che non partecipano devono stare zitti. Una sola intromissione, una sola voce libera, e il mobbing diventa impossibile.

Questo per dire che cosa sta succedendo in Italia. Da giorni e giorni un mobbing furioso, volgare, violento è cominciato contro Simona Torretta e Simona Pari. Dicono gli esperti che il mobbing quasi mai è completamente gratuito. Qualche ragione, magari una piccola cosa, c’è sempre. Nel caso di Torretta e Pari ci sono - più o meno esplicite - tre ragioni: sono donne e dovrebbero stare zitte. Sono pacifiste e dovrebbero vergognarsi. Sono vive e avrebbero dovuto tornare solo come salme per una bella cerimonia di unità nazionale, come prova evidente che la guerra di civiltà è scoppiata davvero. In quel caso, donne o non donne, nessuno avrebbe negato loro l’Altare della patria. Disgraziatamente sono tornate vive. E come se non bastasse, dopo avere guastato la festa unitaria che era pronta per loro («le lacrime non sono né di destra né di sinistra», avrebbe nobilmente dichiarato qualcuno in un appropriato talk show politico-funerario), queste sfacciate parlano. Parlano come se l’Italia in cui stiamo vivendo fosse un Paese normale.

Questo è un altro punto su cui voglio richiamare con senso di allarme ciò che sta accadendo. Il mobbing a due ragazze, tornate a casa dopo essere sopravvissute a un grave e imminente rischio di morte, oggi non sarebbe possibile in alcun Paese democratico al mondo, occidentale o no. Non lo sarebbe perché gli autori del mobbing sarebbero severamente zittiti dagli altri organi di televisione e di stampa, perché chi ha voce pubblica e capacità di farsi sentire non tacerebbe, perché articolisti, editorialisti e rubrichisti per un giorno dedicherebbero qualche paragrafo a condannare l’infame spettacolo italiano. Invece silenzio. L’ostinazione a non vedere, non sapere, non notare ha avuto un suo piccolo exploit la mattina del 2 ottobre, quando Marco Taradash, un ex deputato di Forza Italia che il sabato legge la rassegna della stampa di Radio Radicale, ha detto: «Oggi l’Unità ha davvero passato il segno con il titolo: “Il linciaggio delle ragazze liberate”». Stranamente non ha visto, o non gli ha fatto alcun effetto, il titolo di Libero dello stesso giorno: “Ci hanno stufato: le due Simone petulanti superstar di stampa e Tv” (apertura, pag. 1).

E ancora: “Pontificano sui bravi guerriglieri mentre Al Qaeda lancia minacce all’Italia”, (pag. 1). (Si noti la mancanza di nesso fra la prima e la seconda parte della frase). E a pag. 2: “Prima sproloquiano sulla guerriglia, poi si pentono ma alla fine ci ricascano: i cattivi sono gli americani”. È lo stesso giorno in cui l’altro quotidiano di destra, Il Giornale, titola “Rivolta contro le due Simone”. “Nelle lettere degli italiani, critiche, rammarico e sdegno”. Le lettere dei lettori di destra (spesso più oltranzisti del loro quotidiano preferito) a un giornale di destra vengono presentate come “le lettere degli italiani”. Il titolo è grave anche perché può suonare come un appello alla rivolta che finora non c’è stata, salvo due svastiche sotto casa, quando le due ragazze erano ancora prigioniere. Anzi c’è sempre sul portone una piccola folla che fa festa. Ma tutto ciò non impressiona l’ex deputato di Forza Italia che ogni sabato conduce la rassegna stampa di Radio Radicale. Malafede di Taradash? Qui affiora qualcosa che fa più paura. Una volta stabilito un solido regime mediatico e un unico modo di dare notizie, con il silenzio totale, immediato e complice di chi permette il trionfo delle interpretazioni di regime, diventa oggettivamente difficile cogliere il senso di una voce anomala che sfida il silenzio. Strano che avvenga in casa dei Radicali, che il silenzio non l’hanno mai accettato. Ma è avvenuto, e bisogna segnalarlo come un sintomo insolito e allarmante.

La stagione di caccia, un po’ ignobile e decisamente estranea alla democrazia, si è aperta quando Gianfranco Fini, pur essendo il vicepresidente del Consiglio italiano, ha pubblicamente e drammaticamente dichiarato: «Guerra al pacifismo». Lo ha fatto di fronte a una platea di giovani e di ragazzi che tipicamente, data l’età, non sono inclini a interpretare le parole come metafora. Guerra vuol dire guerra, e il pacifismo viene indicato come un nemico contro il quale è necessario combattere. La domanda che svela il tormento italiano nel quale viviamo è sempre la stessa: potrebbe una cosa simile accadere in un altro Paese? Potrebbe uno come Fini, con il ruolo che riveste, dire ciò che ha detto senza essere duramente attaccato - o almeno criticato - dalla stampa di qualunque Paese non intimidito, senza una televisione non colonizzata? Si tenga conto che la solenne dichiarazione di guerra al pacifismo da parte del numero due del governo è avvenuta mentre le due italiane erano ostaggi di cui non si aveva notizia, mentre si ricevevano terribili annunci della cui attendibilità, allora, non si sapeva nulla. Si tenga conto che - negli stessi giorni - tutta l’opposizione si era impegnata al silenzio per dare prova di unità nazionale. Quel silenzio - evidentemente - non era considerato vincolante per Fini. E neppure per il titolare di un’altra istituzione repubblicana, la Commissione Affari Esteri della Camera.

In piena prigionia delle due Simone, il presidente di quella Commissione, Gustavo Selva, ha proposto una domanda che era stato proibito porre a proposito dei primi ostaggi italiani, i quattro “addetti alla sicurezza”. Ha detto: «E poi, quando tornano, ci dovranno spiegare che cosa facevano quelle signore in Iraq». Naturalmente Selva avrebbe potuto telefonare a “Un ponte per...” nel caso che gli fossero sfuggite le storie, note a tutti, delle due Simone. Ma Selva, in un gioco di staffetta non proprio nobile, però giustificato dalla “guerra al pacifismo” già dichiarata da Fini, doveva aprire la strada al dottor Scelli, commissario straordinario della Croce Rossa italiana. Scelli ha parlato, tra conferme, mezze versioni, smentite e altre conferme, di un oscuro elenco di spie, forse quello che i sequestratori avevano in mano al momento del rapimento delle due Simone, e che Scelli ha definito “elenco americano”, ripetendo non si sa a quali fini e perché, in Italia e in pubblico, ciò che gli sarebbe stato detto da mediatori non identificati.

È buon materiale per un racconto di Graham Greene o per un romanzo di John Le Carré. Ma in quelle narrazioni tutti i personaggi sono sporchi, ambigui e dediti all’avventura. Noi, invece, stiamo parlando dell’Italia di oggi, di fatti e persone realmente esistenti e titolari di funzioni istituzionali o di responsabilità nell’informazione. Stiamo citando tra virgolette cose dette davvero, pubblicate davvero, nel silenzio del resto della Repubblica, come non potrebbe avvenire in alcuna democrazia del mondo. E ci permettiamo di nuovo di far notare ai lettori che se questa storia non l’avessimo raccontata noi, non ci sarebbe. La vicenda della persecuzione alle due ragazze colpevoli di essere tornate vive mancherebbe per sempre dall’archivio italiano degli anni di Berlusconi e di Fini. È un appello a coloro che comprano ogni giorno l’Unità.

 Pierangelo    - 05-10-2004
Per fortuna se ne discute ancora.

Da Repubblica del 5.10.2004

Le due Simone finite alla sbarra
di NATALIA ASPESI

«Ringrazieranno la resistenza anche per i 34 bambini uccisi?» titolava l´altro giorno il solito giornale per iracondi. Poiché vive e non filogovernative come i loro detrattori, Simona Pari e Simona Torretta potrebbero diventare vittime del più crudele e scemo dei linciaggi. È cominciato infatti il tentativo di imputare loro una forma di complicità ideologica nell´inevitabile catena di sangue che continuerà a sconvolgere l´Iraq, come fossero virtualmente responsabili di ogni strage, sterminio, incatenato, sgozzato che ormai segna i nostri giorni.
Vorranno farle sentire in colpa per essere, loro vive, grazie a un riscatto e all´aiuto di tutta l´Italia, mentre continuerà lo stillicidio di assassinii: ultimo quello dei due sequestrati il cui rapimento da noi non aveva fatto notizia, anche se uno di loro era un italoiracheno che viveva in Italia dal 1980 e aveva una moglie e un figlio italiani. Quando erano sbarcate in Italia, dopo tre angosciose settimane in mano ai loro sequestratori, Simona Torretta e Simona Pari non erano affrante, terrorizzate e magari sanguinanti: sorridevano felici. Non erano avvolte in stracci fetidi ma vestivano una luminosa veste araba ricamata. Già questa situazione festosa aveva subito messo di malumore chi si aspettava di accogliere magnanimamente due miserevoli vittime inginocchiate a baciare il suolo natio e i loro salvatori, magari segnate per sempre dalla tragica esperienza. Con le prime parole le ragazze sfuggivano al quadro che ci si attendeva da loro: torture, sevizie, violenze, stupri, sentimenti fallaciani di disprezzo, odio e vendetta? Paura tanta, minacce e sgarberie certo, isolamento anche, però cibo e libri, poi la prima frase che le avrebbe incriminate come fiancheggiatrici dei terroristi: «Ci hanno trattato con rispetto».
Da quel momento quelle che poi il settimanale Time, in copertina, avrebbe chiamato eroine, sono diventate, da noi, nel solito livore del giornalismo maestro di ogni scempiaggine fegatosa: le due iconcine sbucate fuori dal cratere in ebollizione dell´Iraq, le regine del reality show, le vispe terese, due sventatelle col capriccio del burka, le Pr dell´Islam, le teresine: veline dei pacifisti dall´aspetto talebano (carine insomma ma non a sufficienza per delle protagoniste della cronaca); titolo splatter, «la danza macabra delle due Simone». E proprio nel momento in cui le ragazze erano riuscite a liberarsi dall´assedio mediatico non da loro sollecitato, il solito gentiluomo cavernicolo sentenziava: «Per favore qualcuno le faccia tacere, le Vispe Terese ci danno sui nervi. Irritano le loro dichiarazioni melense, le contraddizioni, i dietro front. Basta, non sopportiamo più il cinguettio delle Simone ingrate e presuntuose...». Alla fine, dalla notte di martedì 28 settembre alla obbligatoria conferenza stampa di giovedì 30, non è che le sunnominate teresine avessero cinguettato così tanto: nel casino generale, nell´emozione, nella gioia, purtroppo circondate da esagitati amici che parlavano al posto loro, può darsi che abbiano straparlato e non abbiano rispettato quell´etichetta che i massimi villanzoni della stampa pretendevano insultandole. Non hanno ringraziato immediatamente e singhiozzando il governo che si era dato tanto da fare per loro (e non per altri, ma questa non era colpa loro) e invece lo hanno fatto subito con i Paesi arabi e gli iracheni che avevano appoggiato la loro liberazione, come del resto aveva fatto il ministro Frattini, senza incorrere nelle ire di nessuno. Non si sono dette dispiaciute di essere tornate mentre i poveri Quattrocchi e Baldoni, ammazzati, no. Hanno cercato di distinguere tra terrorismo e resistenza, come si ostinava a fare Lilli Gruber inviata a Bagdad, suscitando brontolii ma non pernacchie. Quanto a chiedere il ritiro delle truppe, lo fa da mesi una parte dell´opposizione, l´ha appena promesso il vicepremier Fini, lo ha annunciato l´altro ieri il segretario americano alla difesa, il guerraiolo Rumsfeld. Pari e Torretta non hanno certo voluto rubare il mestiere agli addetti ai lavori, spesso più pasticcioni e contraddittori di loro: hanno parlato, essendoci ancora libertà di parola e anche di stupidaggine, da pacifiste (definizione insultante per alcuni) e da persone che contrariamente agli indignati intellettuali stanziali, hanno comunque lavorato in Iraq, accanto alla gente disperata e loro stesse rischiato di essere trucidate. Ma alla fine il problema è sempre quello: essere donna magari rende più cauti gli assassini e più generosi i liberatori: ma poi impone di comportarsi secondo quel che certe democratiche zucche maschili pretendono dalle femmine: stare umilmente zitte, dire grazie, non esprimere pensieri, chiudersi alla fine in convento di clausura ad espiare, colpevoli, il momento di gloria immeritata.

 Pierangelo    - 05-10-2004
Ed ecco pronta, per fortuna, la risposta a Michele Mirabella. Da Repubblica Bari del 5.10.2004

Ecco perché siamo grati alle due Simone
di NICOLA LAFORGIA (assessore alle Culture, Comune di Bari)

Caro direttore, sento forte la necessità di esprimere il mio pensiero dopo aver letto "la Domenica di Mirabella" intitolato "Le due Simone e troppe luci". Devo manifestare il mio senso di delusione nel verificare una lettura della vicenda delle due Simone che non solo è in totale antitesi con i principi della solidarietà, del volontarismo, del pacifismo, ma che si condisce anche, attraverso il messaggio della frase dialettale, con un suggerimento educativo che trovo assolutamente sbagliato.
Mi ha insegnato mio padre e io provo a insegnare ai miei figli che, così come non si deve ricorrere alla violenza e nemmeno rispondere alla violenza con altra violenza, è invece assolutamente giusto "cacciarsi nei guai", se questo risponde alla volontà di difendere diritti negati, propri o altrui.
E´ la logica che contrasta con quella dello struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia, che insegna a non considerare "guai inutili", quelle situazioni in cui si deve intervenire, anche rischiando in prima persona, per difendere ideali e principi, sempre solo e soltanto in maniera non violenta.
L´alternativa è terribile, caro Michele, chiudersi nei propri eremi, più o meno dorati, che siano case, o quartieri o città o nazioni, perché si prendono botte e poi se ne prenderebbero altre dai propri genitori, è un messaggio che non si può condividere.
Le due Simone sono andate in Iraq con l´idea di fare qualcosa per aiutare persone in difficoltà, ma anche con la voglia di incontrare un mondo diverso, contribuendo a far conoscere il nostro mondo a loro (e per fortuna erano ragazze carine e dolci, pensa se ci avessero conosciuto attraverso La Russa o Calderoli), agevolando così un processo di conoscenza reciproca che è la base della tolleranza e della pace.
Non ha senso sostenere che i problemi stanno anche qui, e che non c´era bisogno di occuparsi di questioni lontane, in zone di guerra, lì c´erano "guai", guai per i quali era giusto battersi e battersi con le nobilissime armi della solidarietà e della non violenza.
La guerra, la terribile guerra, è vissuta da noi, popolo occidentale, come un evento mediatico, e non è certo una colpa delle due Simone quella sovraesposizione televisiva, loro sono state prigioniere e io penso a cosa devono aver vissuto i loro genitori, i loro amici durante quei giorni terribili.
Poi sono state liberate, "linde e pinte, sorridenti ed eleganti", come dici tu, e io sono contento che sia stato così. O dovevamo augurarci di vederle contuse, distrutte nell´animo e nell´aspetto fisico?
Non conosciamo tutti i dettagli della vicenda, ma mi piace pensare che i loro rapitori siano stati costretti a confrontarsi con il loro essere donne e volontarie della pace, vicine e solidali con tutto il popolo iracheno, al di là di schieramenti politici e religiosi, e che questo sia servito a farle liberare, al di là di riscatti, di trattative e di grandi capacità diplomatiche, che, purtroppo, non hanno funzionato per il povero Enzo Baldoni.
Io sento di esprimere con grande serenità ma grande forza l´orgoglio di essere concittadino delle due Simone, e sento di dover testimoniare il rispetto e l´apprezzamento di tutta la giunta ad esse ed a tutti coloro i quali dedicano parte delle loro vite ad aiutare gli altri, nelle forme e nei modi più diversi, qui, come in Iraq o in qualsiasi parte del mondo, in maniera non violenta, pacifica e solidale.

 Pierangelo    - 06-10-2004
da il Manifesto del 5.10.2004

POLITICA O QUASI
Se Simona non fa rima con vittima
di IDA DOMINIJANNI

«Sono donne e dovrebbero stare zitte. Sono pacifiste e dovrebbero vergognarsi. Sono vive e avrebbero dovuto tornare solo come salme per una bella cerimonia di unità nazionale, come prova evidente che la guerra di civiltà è scoppiata davvero». Non c'è molto da aggiungere alle parole con cui il direttore dell'Unità Furio Colombo ha commentato domenica il linciaggio a cui Simona Pari e Simona Torretta sono state sottoposte sui giornali della destra (codiuvati, sia pure con toni più moderati, da alcune firme dei grandi giornali indipendenti) per avere osato sostenere, dopo il loro rilascio, che l'invasione dell'Iraq deve cessare, che le truppe willing vanno ritirate, che i sequestratori le hanno trattate con rispetto; per avere osato affermare che vogliono tornare ancora in Iraq; per avere osato ringraziare, oltre al governo, l'opposizione e le manifestazioni pacifiste. Il linciaggio, da cui lo stesso Silvio Berlusconi ha sentito il bisogno di prendere a un certo punto le distanze, ha avuto nei giorni scorsi - e ancora ieri, nell'editoriale del Tempo - toni di una volgarità insopportabile, di quella che di tanto in tanto spunta dalle viscere dell'Italia in transizione e dovrebbe farci interrogare sull'inciviltà che abita le nostre democrazie prima che sullo scontro di civiltà fra Occidente e Islam. Frasi come «se vogliono tornare in Iraq rispediamocele con due calci nel sedere», «la prossima volta si paghino da sole il ricatto», «tacciano e intanto ritiriamogli il passaporto» non depongono a favore né di chi le pronuncia né della sfera pubblica in cui circolano. Sono diventate pronunciabili nella sfera pubblica italiana anche o in primo luogo perché erano indirizzate a due donne? Credo di sì e non lo dico per alimentare il vittimismo femminile ma in senso esattamente contrario: tanta foga si è scatenata proprio perché le due Simone hanno smentito lo stereotipo della donna vittima. Se fossero state vittime e basta, vittime e morte, vittime e perse, vittime e vinte, vittime e piegate, vittime e stuprate, chiunque, compresi i direttori di Libero, del Giornale e della Padania nonché gli zelanti deputati leghisti che ne hanno seguito i suggerimenti, le avrebbero invece piante e compiante, commiserate e santificate. Ma così non è stato. Molti lati restano e resteranno oscuri del loro sequestro e del loro rilascio, motivi e modalità, ma un punto è chiaro ed è che le prime ad aver creato le condizioni per la propria liberazione sono state loro stesse, Simona e Simona: parlando con i sequestratori in una lingua che li ha saputi raggiungere, convincendoli che avevano preso un abbaglio, posizionandosi politicamente laddove stavano e stanno, cioè con e non contro la popolazione irachena. Il primo spazio di trattativa, senza nulla togliere a Berlusconi Frattini e Letta e Scelli, lo devono a se stesse, alla pratica politica che a Baghdad avevano costruito e all'esperienza e alla conoscenza dell'altro che avevano accumulato. Due donne libere, non due donne vittime. Due donne che fanno politica in prima persona, non o non solo due donne posta in gioco della politica istituzionale. Due donne amiche, non due donne in competizione fra loro. E' quanto basta per spiazzare tutti gli stereotipi che mezza Italia del terzo millennio - e non solo, ci si può giurare, il suo lato destro - non solo mantiene nelle sue viscere ma alimenta e rinverdisce.

Si aggiunge a questo la loro resistenza a diventare, come ha osservato Ilvo Diamanti su Repubblica, l'icona vivente dell'unità nazionale sperimentata durante il loro sequestro. Ma qui siamo già nel regno della ragion politica; l'essenziale viene prima, su quel piano prepolitico, o forse postpolitico, su cui tutto l'essenziale della guerra in Iraq si sta giocando mettendo in scacco la ragion politica. Lo spiazzamento dei ruoli sessuali - in questo caso come in altri, compreso quello dolente e di segno opposto delle torturatrici di Abu Ghraib - continua a essere un segmento decisivo di questa guerra, combattuto senza esclusione di colpi.

 Pierangelo    - 08-10-2004
da L'Espresso on line del 7.10.2004

il vetro soffiato di Eugenio Scalfari

Le due Simone icone già dimenticate


Sembrano passati già molti anni da quando le due Simone diventarono il simbolo e l'icona di tutta la nazione. Il simbolo degli 'italiani brava gente' che è un luogo comune quasi mai vero ma qualche volta sì.
Sembrano passati molti anni da quando esplose sugli schermi della tv e poi in tutte le strade, le case, gli uffici, i caffè, il grido: "Liberate" e le persone si interpellavano a vicenda pur senza conoscersi su quella liberazione, si formavano crocchi, si rideva di gioia e le campane delle chiese suonavano a festa e i celebranti sull'altare interrompevano la messa per dare ai fedeli la notizia: "Liberate".

E, fatto ancor più memorabile, il presidente del Consiglio si recava sollecito alla Camera ringraziando, con aria sinceramente commossa, i servizi segreti italiani e quelli alleati, le comunità musulmane, i governi arabi, gli italiani di tutte le età e condizioni e - udite udite - i partiti dell'opposizione che avevano fatto fronte comune col governo e stabilito una sorta di tregua santa per la liberazione delle due fanciulle.
Infine Gianni Letta, il tessitore sagace e paziente, la mente e il braccio del governo, l'uomo che non lascia il posto di vigilanza né a Natale né a Ferragosto, Letta il taciturno, Letta l'amico di tutti, Letta l'onnipresente che riesce a partecipare contemporaneamente a un Consiglio dei ministri, a un concerto all'Auditorium, al matrimonio del figlio di un amico e al funerale del padre di un altro amico; Letta infine che se potesse lavorare tranquillo porterebbe il paese in cima a tutte le classifiche internazionali, soprattutto in tema di bontà.

Bene. Quei giorni sono durati poco. Meno di quanto gli scettici avessero previsto. Le due icone, a furia di vedersele in tv, sui giornali, sui muri, si sono consumate, i colori sono sbiaditi, i lineamenti si sono fatti confusi. L'audience televisiva è crollata al terzo giorno; i giornali hanno abbandonato il tema, c'era altro cui pensare. Ma poi, per chiudere il cerchio, al quarto giorno è intervenuta l'ala militare dei media guidata da Ferrara, Feltri e Belpietro, sparando a raffica.
Non era mai accaduto che si sputasse sulle icone ad appena tre giorni di distanza dalla loro beatificazione. È vero che in questo caso c'era l'attenuante del lieto fine, che rassicura ma annoia. E c'era anche, per dirla tutta, l'ostinata e reiterata decisione delle due fanciulle di tornare in Iraq appena possibile. Per ritrovare quella brava gente, quegli adorati bambini, quel paese così disgraziato e meraviglioso. Come se qui da noi tutto fosse cacca. Patacca. Falsità. Ipocrisia.

Come non bastasse, le due Simone cominciarono a formulare e diffondere giudizi politicamente avventati: viva la pace abbasso la guerra, via le truppe dall'Iraq, gli americani tornino a casa loro e avanti di questo passo. Francamente troppo. Molto peggio della Gruber.
Fu deciso all'unanimità di staccare la spina. Penso che per le Simone e le loro famiglie sia stato un sollievo. Ma lo è stato anche per tutti noi. Resta da spiegare perché siano state rapite, da chi, e perché dopo 21 giorni di assoluto silenzio siano state liberate e per merito di chi. Dopo tanti racconti, ricostruzioni, deposizioni delle due ragazze, del capo della Croce rossa, del direttore dei servizi segreti, dei cronisti, degli inviati, degli esperti, su quell'argomento non si sa praticamente niente. Le poche cose chiare sono le seguenti:

  1. Le due Simone erano prigioniere a Baghdad e non a Falluja. La località fa già una differenza.
  2. I sequestratori non sono gli stessi che sequestrarono Quattrocchi e i suoi compagni, né quelli che sequestrarono Baldoni.
  3. Il gruppo che aveva catturato le due Simone faceva sicuramente parte della galassia anti-americana, ma non della rete terrorista collegata ad Al Qaeda.


Più di questo non si sa. È pochissimo ma è qualcosa. Con buona pace dell'ala militarista dei media italiani risulta chiaro che sia tra i sunniti che tra gli sciiti iracheni opera un movimento di resistenza e guerriglia che non fa parte né dei terroristi di Al Qaeda né dei cosiddetti musulmani moderati. Nella sfortuna, la fortuna per le due Simone è stata quella d'esser capitate nelle mani di questa 'terza posizione', e così si spiega anche il successo dei negoziatori.
Specularmente così si spiega anche perché, dopo aver conquistato una popolarità francamente eccessiva, essa sia rapidamente sfiorita. Di resistenza irachena è vietato parlare senza passare per faziosi o imbecilli. Infine le due Simone hanno 'stufato'. Abbiamo già dato.

 ilaria ricciotti    - 11-10-2004
Dovremmo pretendere verità e chiarezza su Simona e Simona, ma non solo, dovremmo pretendere altrettanta chiarezza e verità su Quattrocchi ed Enzo Baldoni.

Perchè la verità
mai si saprà?
La storia di Ilaria Alpi ci ha insegnato
quanto sia scomodo essere impegnato,
aiutare gli altri o chiarire situazioni ed eventi
per far star meglio o per far capire le genti.

QUESTA VOLTA DOBBIAMO SAPERE
NON SI PUO' PIU' NASCONDERE,
SOPRASSEDERE!

E' ora di farla finita con queste cacche nascoste
vogliamo che si riesumino le verità
e che esse siano anche nostre.

 Pierangelo    - 20-10-2004
da Liberazione del 20.10.2004


Perché linciano Torretta e Pari
di Piero Sansonetti

Il giornale Libero, quello diretto da Vittorio Feltri, dedica il titolo principale della sua prima pagina di ieri a Simona Pari e a Simona Torretta; e poi dedica alle due ragazze anche due intere pagine interne, la sei e la sette. Come mai? Per denunciare uno scandalo. Lo scandalo è questo: Simona Pari e Simona Torretta sono in vacanza a Salina, in Sicilia, ospiti di alcuni amici. E siccome sono ospiti non pagano nemmeno l'affitto. Libero ritiene che tutto questo non sia una bella cosa e che dimostri le scarse qualità morali delle due ragazze. Il titolo che occupa due terzi della prima pagina dice così: "La dolce vita delle due Simone in vacanza (gratis) ". La riga sopra il titolo, quella che in gergo noi giornalisti chiamiamo occhiello, precisa: "Sole, mare, spiaggia e shopping: il soggiorno di Torretta e Pari ospiti nell'isola di Salina, alle Eolie". L'articolo è firmato da un inviato di Libero che si chiama Miska Ruggeri. E' un articolo un po' confuso ma si capisce che questo Ruggeri, avvisato da un amico di Salina, ha scoperto che nell'isola ci sono le Simone, allora è andato lì, come fa ogni buon giornalista investigativo, ha cercato di fare amicizia con le ragazze, fingendosi un villeggiante, è riuscito a portarle a cena e forse sperava di scoprire qualcosa di terribile su di loro: invece ha scoperto solo che passano la giornata a cercare di sfuggire ai fotografi rompicoglioni e a cercare di riposarsi un po'. Che c'è di male? Non si sa. A un certo punto Ruggeri scrive anche questa frase: "Simona Torretta…. mi prega di aiutarla a evitare lo scatto killer (di un fotografo, ndr), mettendomi in mezzo e coprendola col mio corpo. Io mi alzo dalla sedia e obbedisco…certo mi sento un po' stronzo a intralciare il lavoro di un collega…". Ognuno ha il diritto a sentirsi stronzo per i motivi più diversi.

Perché il giornale di Vittorio Feltri ha deciso di perseguitare Simona Pari e Simona Torretta, fino al punto da farle spiare dai suoi giornalisti mentre sono in vacanza, e anche oltre quel punto, sbeffeggiandole senza motivo sulla prima pagina del suo giornale, approfittando della potenza dei propri mezzi e scaricandoli addosso a due ragazze che non hanno nessuna possibilità di difendersi? Feltri non è un ingenuo, è un ottimo giornalista, in passato è stato autore di grandi inchieste e di scoop giornalistici, come quelli su affittopoli, cioè sulle case dello stato concesse in affitto a basso prezzo a uomini politici potenti. Ma Simona Pari e Simona Torretta non sono potenti. A cosa mira Feltri? E' abbastanza evidente, mira a colpire il movimento pacifista e quella vastissima rete di organizzazioni del volontariato e della cooperazione, laiche e religiose, che operano in gran parte del mondo povero, e sono, in modi e forme diverse, schierate contro la guerra e contro lo strapotere dei mercati nella politica internazionale. E' abbastanza normale che sia così. Feltri è dichiaratamente un uomo di destra ed è giusto che si dia da fare per colpire un pezzo del mondo di sinistra che in questi anni è stato molto vitale, pieno di idee, attivo, e che ha condizionato in qualche modo gran parte della sinistra ufficiale. Legittimissimo. Ma non crede - Feltri - di superare i limiti del buongusto, dell'educazione - e persino dell'etica professionale - usando a questo scopo la polemica e la vera e propria persecuzione nei confronti di due persone in carne e ossa, colpevoli di nulla, e che hanno subito una avventura umana tremenda e sconvolgente come un lungo rapimento sul teatro di una guerra?

Forse Feltri ha semplicemente fatto un errore, gli è sfuggita di mano la polemica. Può darsi benissimo che sia così, capita a tutti una valutazione sbagliata e non è una tragedia. Sarebbe bello se Feltri lo ammettesse, e si potesse chiudere qui la diatriba, lasciando in pace le due Simone e permettendo loro di riposarsi, di ritrovare la tranquillità perduta, e magari, se lo vorranno, in futuro, di tornare al loro lavoro di volontariato. Sarebbe una gran novità se anche nella più feroce polemica politica imparassimo tutti a porre dei confini: il rispetto per le persone, per la vita di ciascuno, per i sentimenti più intimi.

 Pierangelo    - 24-10-2004
da l'Unità online - 23.10.2004

Il salario della paura
di Furio Colombo

Quanto guadagnavano Simona Torretta e Simona Pari? La domanda, in un altro Paese, apparirebbe strana e offensiva. Non da noi, dove una parte della stampa e della Tv, profondamente irritata dal fatto che quelle due donne, invece che tornare avvolte nel tricolore per i riti funebri cari alla destra sono tornate vive, persino allegre e con una loro opinione non governativa sui fatti iracheni, ha posto con reiterata petulanza la domanda, buttando là cifre inventate, perché in condizioni di regime mediatico puoi fare quello che vuoi. Nessun altro giornale o programma Tv solleverà un’obiezione. Sulle calunnie alle due ragazze nessun giornale italiano si è fatto sentire. E così cresce ogni giorno la divaricazione clamorosa fra il nostro Paese e il resto del mondo. Rocco Buttiglione è indegno di ogni incarico in Europa ma politico di punta e simbolo della fede in Italia. Le due Simone sono eroine d’Europa per Time Magazine che dedica loro la copertina. Ma, nel nostro Paese, sono loschi personaggi che si tenevano lontane dalle armi e forse erano persino pagate per fare volontariato in mezzo alle bombe.

Però, in questa Italia, non toccate prestigio, reputazione e persino definizione professionale di uomini armati. In quel caso non si scherza. Nell’esaminare l’evento del rapimento in Iraq di quattro italiani che all’ambasciata italiana non risultavano essere in Iraq e che si erano recati per proprio conto e su contratto in quel Paese di guerra per una non meglio precisata “attività di sicurezza”, un imprudente giudice di Bari ha scritto che la mansione dei quattro può essere definita «mercenari, gorilla a protezione di uomini d’affari e fiancheggiatori delle forze della coalizione angloamericana». Il giudice aggiunge che questo «spiega, se non giustifica, l’atteggiamento dei sequestratori». Probabilmente il giudice voleva descrivere un tragico ma tipico evento di guerra. E non deve essersi accorto che proprio qui toccava un filo rosso.

Come si permette di parlare in questo modo di uomini armati che fanno la guerra per professione?

Il Corriere della Sera non si era mai accorto, neppure in una riga o nelle pagine di costume, della diffamazione giornalistica delle due volontarie inseguite anche in vacanza da finti reporter persuasi che deve pur esserci qualcosa di ignobile nella vita di un pacifista. Ma sulle parole usate dal giudice di Bari (”mercenari”, “gorilla”, “fiancheggiatori”) per definire il mestiere armato di scorta privata in zona di guerra, ha un sussulto. Intitola in prima: “Un lessico da brivido” e trova una spiegazione: ha ragione chi dice che la magistratura è inquinata dall’ideologia. Per un piccolo infortunio è sfuggito all’editorialista del Corriere della Sera che il giudice di Bari ha simpatie definite “di destra”. Evidentemente è comunque segno di inquinamento ideologico definire fatti e persone usando le parole suggerite dal dizionario. Per esempio definire “mercenario” qualcuno che va per un compenso alla guerra di altri, in un altro Paese.

Il 21 ottobre (il giorno prima del grido di indignazione del Corriere della Sera) il New York Times intitolava su due colonne in prima: “Mercenario, che mestiere è?” per aprire un’inchiesta su ciò che la stampa americana definisce “la guerra privata” che si svolge in Iraq accanto alla guerra di eserciti. Nella stampa americana l’accento è sulla connotazione privata dell’attività mercenaria. In Italia, evidentemente, è sulla nobiltà del portare le armi invece dell’andare in giro per l’Iraq di invertebrati pacifisti, per godersi “vacanze eccitanti”, come è stato detto del povero Enzo Baldoni. Infatti ci sono due morti italiani in questa terribile e misteriosa guerra lungo una frontiera che non si vede e con un nemico che non si conosce. Uno è Quattrocchi, la cui salma debitamente ritrovata e restituita viene indicata come simbolo al giudice di Bari affinché si renda conto della sua indegnità. L’altra è di Enzo Baldoni, il cui cadavere nessuno ha riportato a casa, e forse nessuno ha cercato. Il fatto è che Baldoni non era armato, non viveva del mestiere delle armi e - fatto inconcepibile in questa Italia di neo-legionari - nelle armi non credeva. Era uno di quei pacifisti contro cui il vice-premier Fini ha scatenato i giovani del suo partito invocando guerra. Forse fa onore ai ragazzi di An avere ignorato il grido barbaro e antico del loro leader. Ma i giornali stanno attenti. Sanno che nell’Italia di Berlusconi gira un’aria vendicativa. E allora chi ha voluto, nella stampa di destra, ha dato del cialtrone a Enzo Baldoni vivo e a Enzo Baldoni morto. E nessuno - negli altri giornali -, ha avuto un solo brivido di indignazione. È vero, Baldoni è morto senza lasciare alcuna frase memorabile, o almeno nessun ministro degli Esteri si è fatto premura di comunicarcela una decina di volte al Tg 1 e una decina di volte a Porta a Porta. Ma, si sa i regimi hanno le loro esigenze. Che cosa volete che dica di memorabile un pacifista? Al massimo “non voglio morire in guerra”. Ma una frase così come la metti nei loro libri e nei loro programmi che sono stati retrodatati agli anni Trenta?

E infatti è tornato Mussolini. È tornato fra i suoi figli e i suoi nipoti e i suoi simili a Porta a Porta in una serenata di celebrazioni e di affetti. Nessun brivido sui giornali italiani. Eppure c’era il nome di Mussolini in apertura e chiusura del pacchetto delle leggi che ordinavano nei dettagli la persecuzione razziale degli ebrei, definito da molti storici il più perfetto e il più crudele in Europa, modello e stimolo per la persecuzione in Jugoslavia, Romania, Ungheria, Bulgaria (ma in Bulgaria i fascisti locali si sono ribellati e hanno rifiutato le leggi italiane) e in tutte le parti d’Europa in cui l’Italia di Mussolini ha dato una mano alla Germania di Hitler per rendere più efficace e crudele lo sterminio.

Di nuovo appare la distanza e la vergogna dell’Italia di fronte all’Europa. In Germania scrittori e registi denunciano un film su Hitler, ritenuto un ritratto morbido del dittatore. In Italia va in onda la celebrazione di Mussolini per milioni di spettatori isolati e indifesi. Per prudenza nessuno apre bocca (solo l’Unità e un articolo di Curzio Maltese) e nessuno, nessuno, ha un brivido. Se un giudice osasse ricordare il reato di apologia del fascismo, lo si riterrebbe immediatamente “inquinato dall’ideologia” come il giudice di Bari, si invocherebbe subito un intervento punitivo del Csm, magari un’ispezione ministeriale.

La strategia della destra Fini-Berlusconi-Lega-Udc - che, come si vede, riesce piuttosto bene a zittire e intimidire il Paese, in modo da fare apparire matto chi parla da solo - non fa soltanto una campagna di affermazione e celebrazione di se stessa (armi, nobiltà dei combattenti, grandezza dello scontro, guerra di civiltà, un sistema ferreo di controllo sulle parole e di mobbing sui comportamenti, linciaggio delle ragazze di “Un ponte per...”, tolleranza zero sulla indiscutibile gloria degli uomini armati). Invade tranquillamente il campo avversario con accuse spaventose che - come sempre, in questa ignobile Italia delle comunicazioni - verranno debitamente diffuse ma non commentate, lasciate lì come se fossero vere o plausibili.
Per esempio, Maurizio Gasparri, ministro delle Comunicazioni e autore (come firmatario) della legge “Berlusconi per Berlusconi” sulla televisione, apre una intervista su Libero (molto letta alla radio, molto citata alla televisione) con queste parole: «Prodi ha molte persone nel suo giro che meriterebbero di stare in galera. E mi auguro che tra gli elettori della signora D’Antona non ci siano persone che alla morte del marito non si sono dispiaciute». E aggiunge: «Per esempio Bassolino. È stato ministro del Lavoro. Non ha qualche idea sugli amici delle Br?».

Gasparri rappresenta tutt’ora (nonostante le svolte del suo partito) una cultura politica nel cui ambito molte inchieste giudiziarie hanno collocato l’ispirazione di stragi: Banca dell’Agricoltura, Piazza della Loggia, Stazione di Bologna, attentati ai treni. Ma nessun brivido giornalistico induce qualcuno a ricordarlo. Gasparri ha consuetudine con le carte di polizia e sa che le ultime rivelazioni ci dicono che “Prodi era pedinato (dalle Br) fin dentro la chiesa”. Tutto ciò importerebbe al ministro normale (destra o sinistra non conta) di un Paese normale, nel quale un’opinione pubblica normale esige informazione plurima e libera. Non sto dicendo che Gasparri è stato francamente fascista. Si può cambiare. Non è accaduto. Gasparri usa, valendosi del potere, falsificazione, calunnia, rovesciamento della responsabilità sulle vittime (la volgarità verso Olga D’Antona) usa strumenti oggettivamente fascisti. Gasparri li può usare liberamente attraverso i suoi molti giornali, tutte le televisioni che controlla per conto di Berlusconi. Gasparri ha una certezza: non ci sarà alcun brivido nella stampa “libera”.