breve di cronaca
Buon compleanno Stratocaster
l'Unità - 16-09-2004

Era il 1954 e in America succedevano tante di quelle cose. Il Senato censurava Joseph McCharty, mattatore della caccia alle streghe e dell’isteria anticomunista. Chiudeva i battenti il molo di Ellis Island a New York, porta d’accesso al sogno americano per oltre venti milioni di emigranti. Usciva nelle sale Fronte del Porto con Marlon Brando, Ernest Hemingway vinceva il Nobel per la letteratura e venivano dati alle stampe il Signore degli Anelli di Tolkien e l’altro Signore, quello delle Mosche di William Golding. E poi ancora, iniziavano le trasmissioni della Rca, la prima televisione commerciale a colori, una notte un buon hotel di Hollywood veniva a costare 2.95 dollari e il prezzo medio per un’automobile nuova era di 1.700 verdoni.


Ma c’era anche tanta, tanta musica. Billy Haley and the Comets registravano la hit di successo Rock around the Clock, Elvis Presley sbarcava sul mercato discografico con il singolo That’ll right e teneva il suo primo concerto on air alla radio WHBQ di Memphis. Di lì a poco il disc jockey Alan Freed avrebbe coniato l’azzeccatissimo termine “rock ‘n’ roll”. Un’intuizione geniale, quella di Freed. Ma altrettanto geniale fu quella di Leo Fender, che nel 1954, nel suo laboratorio di Los Angeles, produsse la sua creatura, la Fender Stratocaster, una chitarra destinata a sconvolgere la storia della musica. Per originalità, versatilità e maneggevolezza.

A cinquant’anni dalla nascita, il Museo della Musica di Bologna ha dedicato una mostra alla mitica “Strato”, una signora di mezz’età che porta i suoi anni decisamente bene e non risente affatto del peso del tempo. Anzi, del tempo è padrona, visto che nel corso degli anni si è fatta accarezzare, corteggiare e torturare dalle dita dei chitarristi famosi e non di mezzo mondo, senza che il suo fascino fosse minimamente intaccato. La mostra “Fender Stratocaster, cinquant’anni di un mito”, curata da Roberto Agostini, è organizzata dal Museo della Musica di Bologna in collaborazione con la Casale Bauer, ditta che importa la Fender in Italia. Il successo dell’iniziativa ha persuaso gli organizzatori a prolungare fino al 10 ottobre la mostra, che ripercorre il mezzo secolo di Stratocaster attraverso video, immagini ed esemplari – una cinquantina in tutto – della mitica chitarra e di chi l’ha fatta suonare.


Leo Fender, scomparso nel 1991 all’età di 82 anni, è stato il grande pioniere della chitarra elettrica. Sarà paradossale, ma la sua biografia non avrebbe preso questa piega se non ci fosse stata la Grande Depressione. Leo Fender, durante la crisi economica degli anni Trenta che colpì l’America, perse il suo lavoro di funzionario della Società Autostradale californiana e come molti americani si trovò a spasso. Ma da ingegnoso e creativo qual era, non si diede per vinto. Cercò di mettere a frutto le vecchie conoscenze tecniche. Gli rivenne in mente il suo passato prossimo, in cui si era gingillato spesso a riparare qualche aggeggio elettrico. Si fece prestare 600 dollari e aprì un negozietto, il Fender Radio Service. Aggiustava chitarre a ampli, il signor Leo. Ma nella sua testa frullava già da tempo l’idea di costruire una chitarra moderna, dal suono tagliente e incisivo. La sua prima solid body, la Fender Esquire, risale al 1950. L’anno successivo Fender si inventò il basso elettrico. Poi, nel 1954, arriva la chicca della Stratocaster.

A dire il vero la Strato all’inizio non suscitò una grande impressione. Sembrava un trespolo futurista, con la sua forma improbabile, spalla tagliata e manico avvitato e con i tre pick up (le prime solid body ne avevano uno, al massimo due) che sembravano più che altro le ruzzole di una radio. Fender sfruttava per la diffusione della sua creatura i cosiddetti musicisti “endorfer”, che andavano in televisione muniti di Stratocaster, per pubblicizzare il prodotto di casa Fender. La funzione degli endorfer non era poi così dissimile da quella di un’assidua frequentatrice di salotti televisivi nostrani, che si ricopre di orecchini e collane Bulgari e indossa abiti firmati. Ma come le salottiere, che una volta tornate a casa possono tranquillamente indossare un grembiule da cucina, allo stesso modo gli endorfer erano liberi, in sala di incisione, di maneggiare gli strumenti che preferivano. Il vincolo valeva solo all’interno del perimetro dello studio televisivo. La potenza della scatola nera era nota già da allora. Inoltre Fender, un costruttore di chitarre hawaiane che non aveva la più pallida idea di come mettere le dita sulla tastiera dello strumento che fabbricava, aveva concepito la Stratocaster per i musicisti “western swing”. Ma si ritrovò travolto dal flusso incontenibile della storia di quegli anni, dal vortice del rock ‘n’ roll e dal boom economico registrato negli Stati Uniti.

Erano gli anni dell’American way of life, delle villette a schiera, del baby-boom all’anagrafe e della piacevole sensazione del consumo. Gli americani avevano imparato a mettere da parte i risparmi e investivano in elettrodomestici e automobili. Ma non era solo la società a cambiare pelle, anche la musica si riorganizzava. I giovani traevano vantaggio dal benessere dei loro vecchi, con qualche soldo nelle tasche si potevano permettere di comprare una chitarra e di impiegare il loro tempo libero mettendo su complessini. Basso, chitarra e batteria: questa la formazione base. Le orchestrine swing, composte da così tanti musicisti che era davvero difficile farli entrare tutti insieme sul palco, iniziarono a estinguersi. La chitarra surrogava le linee dei fiati. Tube, tromboni e sax si scoprirono di colpo desueti.

Diversi musicisti, chi prima chi poi, iniziarono a usare la Stratocaster: Richie Valence e Gene Vincent, quelli per intenderci della Bamba e di Be Bop a Lula, i bluesmen di Chicago, Buddy Holly e poi il re, Elvis Presley. La Strato si afferma quasi a insaputa di suo padre. Ma Leo Fender, tutt’altro che frastornato dall’inaspettato successo della sua chitarra, coglie la palla al balzo. Si adegua ai tempi e trasforma la Statocaster da prodotto per i country swinger a chitarra dei giovani cultori del rock ‘n’ roll. Memorabili le locandine pubblicitarie del fotografo Robert Perine. Su tutte, quella del giovane americano che suona la Stratocaster mentre fila via sul suo skate.

La Gibson continua a puntare sull’austerità dei suoi prodotti e cerca un pubblico più conservatore. Nei suoi cartelloni pubblicitari la solid body rimarrà ancorata all’immagine del musicista old style, in giacca e cravatta. Nel frattempo però Gibson riarruola in fretta e furia Les Paul, l’ideatore della chitarra che porta il suo nome, scaricato troppo precocemente. Il suo progetto di solid body era ritenuto troppo avveniristico e Gibson non ci volle sprecare un dollaro. La versione definitiva della Les Paulverrà alla luce sul finire degli anni Cinquanta e segnerà l’inizio di un dualismo che si trascinerà fino ai giorni nostri. Les Paul e Stratocaster sono prodotti di due scuole filosofico-costruttive dalle caratteristiche dicotomiche. Pick up a bobine e manico avvitato per la Strato, pick up humbacker e manico incollato per la Les Paul. La Gibson fa parte della storia della Fender e viceversa. I chitarristi si dividono: meglio la Les Paul, meglio la Stratocaster. Tutte e due le chitarre sono un mito, la disputa rimane irrisolta. Tanto vale tornare alla storia della Stratocaster e agli anni Sessanta, che ne segnano il declino.

Buddy Holly, forse il musicista più significativo ad aver imbracciato la Strato, muore nel 1959 e più del suo indiscutibile talento da chitarrista, rimarranno le canzoni e le melodie. Alcuni bluesmen e qualche surf singer continuano a utilizzare la Strato, che però viene lentamente dimenticata. Dai più la chitarra di casa Fender viene considerata un successo istantaneo, una fascinazione del momento destinata ad avere poco futuro. Alla metà degli anni Sessanta l’azienda Fender viene rilevata dalla Cbs, orientata a perseguire una politica costruttiva di discontinuità. La Stratocaster sembra spacciata.


Ma come nelle più belle favole arriva l’eroe del momento a risollevarne le sorti. E l’eroe ha la faccia nera, i capelli fonati, un fascione sulla fronte, la faccia un po’ butterata e veste in modo pittoresco, naif. Stiamo parlando di Jimi Hendrix. L’avvento del musicista di Seattle sulla scena del rock determina una rottura radicale nella storia della chitarra. Si può legittimamente parlare di “anno zero”. Hendrix mescola rock e blues, infonde alla sua musica una potenza devastante, fatta di riff e ottave, assoli e armonizzazioni. Insegna in poche parole un nuovo modo di interpretare lo strumento. E la Stratocaster è la chitarra che maggiormente si presta alle evoluzioni di Hendrix, il primo a usare sistematicamente la leva, quell’aggeggio che si attacca al ponte della chitarra e deforma le note. Di solito, dopo un inizio fortunato e un declino improvviso, la risalita è lunga e faticosa. Ebbene, con Hendrix la Stratocaster non solo si rilancia, ma spicca il volo e si consacra.

Arriva una nuova ondata di musicisti innamorati di questa chitarra. E ognuno la interpreta a modo suo. Eric Clapton, con quel suo stile “slow hand”, ne mostra il lato struggente. Bob Dylan, convertitosi non senza polemiche al blues rock, la fa gracchiare. Steve Ray Voughan, coetaneo della Strato ma scomparso prematuramente, fa correre le dita sulla tastiera delicatamente per poi scatenarsi con quella sua maniera di assoleggiare in tutta libertà. E poi ci sono The Edge, con i suoi riff stracolmi di effetti speciali e David Gilmour, anche lui un po’ delicato e un po’ perverso. Insomma, tanti grandi musicisti. Talmente tanti da far sorgere un dubbio: sono loro ad aver fatto il mito della Stratocaster o viceversa è la splendida cinquantenne signora di Leo Fender ad aver fatto fare così tanta strada alla musica?
«Non c’è dubbio – dice Roberto Agosini, il curatore della mostra, – è la Stratocaster, per qualità costruttive e tecniche, ad aver ispirato il genio di questi chitarristi». Il dubbio è fugato e tanto per convincere gli scettici, citiamo questa frase celebre: «Leo Fender è stato per la chitarra quello che Henry Ford è stato per la macchina». Buon compleanno Stratocaster.

Matteo Tacconi

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 Carlo Stenzini    - 20-08-2009
Articolo scritto malissimo non solo nella forma, ma anche nei contenuti. Chi ha scritto sembra proprio non conoscere minimamente l'argomento.
Inoltre qualcuno riesce a trovare sul vocabolario di lingua italiana la parola "assoleggiare"?
Non poteva che arrivare da L'Unita

 Claudio Marzari    - 22-04-2012
Evidentemente il sig. Stenzini appartiene alla specie fortunatamente semi estinta di coloro che a leggere "l'Unità" sono aggrediti dall'orticaria non controllando più le emissioni scritto- gastro-esofagee. Non solo l'articolo è scritto benissimo ma pure è sostenuto da struggente deferenza velata di nostalgia che lo rendono gradevolissimo. Un 'pezzo' da vero intenditore, mi dispiace solo d'entrare nel merito così tardi.