Pierangelo Indolfi - 12-09-2004 |
Baldoni, uno che non si faceva i fatti suoi DOPO TUTTO di Adriano Sofri 9/9/2004 Il giornalista ucciso in Iraq si definiva un ficcanaso. E davanti alle tragedie del mondo andava a vedere. Aveva dei meravigliosi precedenti: per esempio, Francesco d'Assisi. Ho conosciuto solo da spettatore e lettore, e solo nei giorni dell'allarme e della tragedia, Enzo Baldoni e la sua famiglia, provando per loro una fortissima simpatia. Ho pensato che il sarcasmo su Baldoni, la partita giocata fra un Fabrizio Quattrocchi «mercenario» e un Baldoni in cerca del brivido guerriero, l'insulto gratuito e compiaciuto verso una persona in balia di manigoldi sgozzatori, la sventata sottovalutazione della ferocia e poi il dolore tardivo, siano stati fra i sintomi più tristi della nostra pubblica faziosità. Ci sono pacifisti che confondono l'amore per la pace con la cecità di fronte all'esistenza di una guerra. Ci sono realisti che denigrano l'amore per la pace fino al punto di darne per scontata la compromissione con gli assassini e dimenticare solidarietà e compassione umana. Ce n'è abbastanza per ripensare a se stessi e alla propria comunità, se se ne abbia l'umiltà e il coraggio. Voglio estrarre un dettaglio di questa amarissima vicenda, prologo prevedibile di tante altre, per mostrarne la faccia opposta. Una energia polemica è stata impiegata per denunciare la sventatezza presunta (o vera, a volte) di un turismo di guerra e in genere di rischi estremi, che mette a repentaglio i suoi cultori e tante altre persone, e chiama in causa, come nel caso dei sequestri e dei ricatti, i sentimenti e la responsabilità di intere comunità nazionali e dei loro governi. È un problema che esiste. Perfino nella pancia delle nostre pacifiche e sfibrate esistenze quotidiane pullulano impulsi alle sfide estreme, al culto della messa alla prova di sé di fronte a qualche strapiombo, alla diffusione, contagiosa come una peste, di quel feticcio retorico, «la scarica di adrenalina». Questa programmazione del cimento estremo a riscatto della vita mediocre sta al bordo dell'ideologia del provare tutto: bella idea, tanto tempo fa, coraggiosa e generosa, prima di diventare un'aggressione cieca al mondo e una resa di sé. E tuttavia, bisogna pure che si prenda in conto l'opposto, la prudenza spinta fino all'opportunismo e all'omissione di soccorso, la paura che paralizza, la viltà. Non amo la retorica e non presumo molto delle forze mie, e dunque delle altrui. Non ho niente contro la paura: contro la viltà sì. Forse la viltà è solo la paura non confessata, la paura di cui ci si vergogni di nascosto, preferendo sacrificarle la verità e la giustizia. Vile è la paura che induce a decidere di non vedere, a negare ciò che ci sta vistosamente di fronte, e chiede una scelta. I giornalisti sono una categoria troppo vasta e generica per essere sottoposti, da questo punto di vista, a qualche comune dovere. Le circostanze o la vocazione possono portarli, donne o uomini, a misurarsi con la questione della guerra, del rischio, della vita minacciata propria e altrui, della paura e della viltà. La (mirabile) crescita del volontariato internazionale ha ancora più stemperato i confini fra giornalismo di guerra, impegno umanitario, e con lo stesso volontariato militare. Ebbene: ci sono situazioni (molte, sempre di più) sul mappamondo di oggi in cui la semplice decisione di andare implica una forte abdicazione ai criteri che guidano l'aspirazione alla sicurezza e al controllo di sé nella nostra vita quotidiana. Scendete da un aereo di fortuna, o da un'auto coi vetri verniciati da simboli speranzosi, e in un momento la vostra vita non vi appartiene più. Siete alla mercé di persone sconosciute di cui dovete fidarvi e che a loro volta arrischiano la propria vita per voi; di sparatorie incrociate e imprevedibili; di giochi torbidi e incomprensibili. La vostra vita è traslocata in un altro mondo, e sospesa, a tempo indeterminato, come una monetina lanciata in aria: forse ricadrà giù, forse una mano svelta la afferrerà e la farà sparire. Se ne verrete fuori, quando ne verrete fuori, non avrete neanche voglia di descrivere quell'avventura, così estranea e grottesca rispetto al mondo vostro e dei vostri, al mondo che vi pareva normale, ora non sapete più che cosa sia normale. Si può morire, con una leggerezza volubile e improvvisa, e un momento dopo i sopravvissuti riconosceranno quella morte per ineluttabile. Può darsi che siate un ragazzo cattolico mandato ad attraversare un ponte di Sarajevo, un operatore e una giornalista a Mogadiscio, una giornalista del Corriere su una stradaccia afghana, un misconosciuto free-lance radicale in una valle georgiana. Ci sono inviati di guerra che non escono dalla hall del loro albergo, altri che si avventurano in deserti e città più infidi di una palude. Ce ne sono di grandi e di piccoli, di vecchi e gloriosi, che continuano a partire, e di giovani e ambiziosi, che inventano una loro truffa. Ci sono state tragedie così feroci da scoraggiare qualunque turismo da brividi, ma anche il cauto, saggio e sobrio giornalismo professionale. Nel pieno della tempesta del terrore islamista algerino e della risposta militare, a pochi passi da noi, più di centomila persone vennero massacrate in un raccapricciante silenzio, o poco meno, dei nostri media e dei nostri politici. Non si è mai fatto un bilancio onesto di quella voragine. L'Algeria è qui di fronte, come la Bosnia. Erano in agguato bande di sgozzatori. Si poteva non andarci, era molto ragionevole. Sarebbe stato bene dirlo: è troppo pericoloso, tengo famiglia, ho paura. Sarebbe stato bene, soprattutto, non voltare la testa dall'altra parte. Non nascondere, con una superflua vergogna per la propria paura, lo spettacolo di una strage immonda e a lungo indisturbata. Non farsi i fatti propri. Enzo Baldoni si definiva scanzonatamente un ficcanaso. Ci sono meravigliosi precedenti. Uno che non si faceva i fatti suoi, per esempio, era Francesco d'Assisi. www.panorama.it |