breve di cronaca
Il dialogo come antidoto
Aprile on line - 09-09-2004


Sconvolta, arrabbiata, spaventata: non ho le parole per commentare il rapimento di due giovani donne italiane impegnate a portare pace e solidarietà al martoriato popolo iracheno.
Ma le parole bisogna trovarle, e subito. E' chiaro, ormai, che sotto attacco diretto sono gli operatori umanitari, i pacifisti, i giornalisti, coloro che testimoniano, raccontano, riparano, curano e soccorrono. 'Un ponte per...', l'associazione di cui fanno parte le due donne rapite, svolge un'azione umanitaria che è al tempo stesso politica, la solidarietà e la costruzione di "un altro mondo possibile', anche nel pantano dell'Iraq, anche nell'inferno di una guerra sempre piu assurda.
"Un ponte per" è' stata la prima organizzazione a raggiungere Najaf per portare acqua e soccorsi, è presente in Iraq da ben prima di questa guerra, da anni si batte contro l'embargo ed i suoi effetti deleteri sulla popolazione civile, operatori e operatrici sono conosciuti e rispettati dalla popolazione locale. E quindi diventano un bersaglio. Come al solito la prima domanda da farsi è a chi giova? Non certo alla guerriglia.
E' urgente una mobilitazione, immediata. E chissà che una risposta forte, attenzione e tensione alta non possano anche ostacolare il ripetersi della tragicomica pantomima della gestione italiana del rapimento Baldoni.
E, accanto alla mobilitazione, per far cessare quanto prima le azioni militari, riportare tutto sotto la gestione ONU e far tornare la politica con la ''P'' maiuscola, una mobilitazione delle coscienze per orientarsi, con tutta la forza e le energie possibili, al dialogo, unico vero strumento che ci svela l'altro per quello che è e non per quello che ci è fatto apparire: lo ha letteralmente gridato lunedi pomeriggio, a una trasmissione radiofonica di Rai3, Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, in questi giorni impegnato ai lavori del Forum sul dialogo interreligioso promosso dalla Comunità di S. Egidio a Milano.
Anche di fronte ai terroristi ceceni che arrivano alla nefandezza più terribile di uccidere bambini, anche di fronte al terrorismo islamico che compie rapimenti di persone innocenti e sgozzamenti, non esiste altra arma che il dialogo. Dialogo da cui far ripartire la politica, dialogo con cui svelare le ragioni che alimentano il terrorismo, dialogo per riconoscere l'altro per quello che è e, forse, giungere anche a riconoscere nell'altro noi stessi, le nostre stesse paure, fragilità, speranze disattese.
Hanno replicato a Bianchi, nel corso della trasmissione, che con certa gente non può esserci dialogo, ma lui ha affermato che anche quando tutto sembra annullare questa possibilità è proprio lì che occorre tener ferma l'intenzione e insistere, per aprire un varco, un orizzonte dove la vita, il futuro, la speranza può fluire: lo diceva da credente convinto, da quell'esperto di spiritualità qual è ma soprattutto da conoscitore dell'umanità, umanità capace di atrocità come la strage di Beslan e di quelle di tanti bambini che ogni giorno muoiono per fame, sete, sfruttamento ma umanità anche capace, attraverso il cuore e la testa, di creare orizzonti nuovi laddove solo il deserto pare essere l'ultima parola.
Che cos'è se non dialogo, dialogo che crea fiducia, rapporto, relazione, con ogni gesto, attenzione, cura, ciò che stavano costruendo a Baghdad Simona Toretta e Simona Pari, le due donne appena rapite?
E allora una piccola proposta che mi piacerebbe vedere da queste pagine echeggiare altrove: quella di creare "scuole di dialogo" per genitori ed educatori proprio ora che si aprono anche le nostre scuole, come contributo al nascere di una nuova e radicata cultura del dialogo che è l'esatto opposto della guerra, della violenza e dell'odio che solo è in grado di generare.

Sabrina Magnani

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