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A proposito delle scelte strategiche della riforma Moratti
Antonio Valentino - 29-06-2004
Grande o no?

Il ministro e i suoi più stretti collaboratori quando parlano della riforma in atto sembrano oscillare tra posizioni contrapposte: in certe sedi (televisioni e radio, in primo luogo) e in particolari situazioni tipo convegni, tendono a presentarla come la “Grande riforma”; mentre in altre circostanze e in atti amministrativi prevale la tendenza a rassicurare il personale della scuola mandando messaggi del tipo "ma perché tanto allarme? Dopo tutto cambia ben poco rispetto alle pratiche scolastiche precedenti". Per cui capita di sentire sul primo fronte, come è successo in una recente trasmissione televisiva, dalla signora Moratti, che la sua riforma va addirittura paragonata a quella di Gentile del '23 del secolo scorso. (La quale in realtà – sia detto tra parentesi - aveva ben altro respiro culturale e pedagogico ed una architettura generale funzionale certo agli obiettivi del regime fascista e alla sua idea di società e di sviluppo, ma pure capace di recuperare e dare centralità a filoni importanti della tradizione culturale del nostro paese). Ma capita anche di leggere, come nella circolare di accompagnamento al primo decreto legislativo applicativo della Legge 53, affermazioni rassicuranti che esaltano gli elementi di continuità dando, delle scelte fondanti della riforma, una interpretazione che può apparire scolorita, se confrontata con i giudizi di autoesaltazione di altre situazioni.

Le scelte della riforma. Ma per quali scenari?

In realtà questa riforma (quale si può cogliere attraverso le disposizioni legislative, la documentazione aggiuntiva e complementare, interviste e saggi, le sperimentazioni e gli atti amministrativi) ruota essenzialmente intorno ad alcune scelte fondamentali che poco o niente sembrano avere a che fare con strategie di ricollocazione dell'istituzione scolastica dentro le grandi trasformazioni che investono il nostro tempo (istruzione e diritti di cittadinanza, il sapere nell'era di internet, la società della conoscenza e nesso saperi / sviluppo globale, inclusione e mobilità sociale).

Limitiamo queste considerazioni alle scelte già "definite" (il termine non è del tutto appropriato, perché di definito-definito c'è poco; ma assumiamolo come tale per comodità di ragionamento) a livello di primo ciclo, risultando il discorso sul secondo ciclo più complesso e ancora tutto da costruire. Le scelte riguardano, come è noto:
-il tempo scuola, caratterizzato da una quota obbligatoria e da una opzionale facoltativa
- l'introduzione del "coordinatore tutor"
- l'anticipo
- un ruolo più marcato della famiglia
- l'enfasi sul laboratorio.

La riforma comprende, come si sa, anche la presenza dell'informatica dalla prima classe della primaria e della seconda lingua dal primo anno della secondaria di primo grado. Ma non si tratta, come si è avuto modo di rilevare da più parti, di vere e proprie innovazioni, in quanto pratiche diffuse delle nostre scuole e sostanzialmente contemplate dalla riforma Berlinguer-De Mauro, ovviamente abrogata.

Sostanzialmente penso si possa dire che le scelte della riforma per la scuola di base siano tutte da ricondurre - almeno nelle intenzionalità ripetutamente espresse e nelle frequenze lessicali dei documenti ministeriali e delle fonti normative - alla personalizzazione dei percorsi formativi.
Consideriamole singolarmente con la mente il più possibile sgombra da pregiudizi.

Un viaggiatore di ritorno e la questione del tutor

Una persona - non digiuna di cose scolastiche - che per ragioni misteriose si fosse allontanato dal nostro paese in questi ultimi tre anni e ci ritornasse adesso, ignaro di tutti i cambiamenti intervenuti nel frattempo, si farebbe certamente molte domande sul senso dell'intera operazione di riforma e del furore iconoclasta di questo governo nei confronti della riforma precedente; ma, messo di fronte alle scelte sopra indicate, chiederebbe di saperne di più, ma non ne rimarrebbe, credo, scandalizzato.
Prendiamo la questione del coordinatore-tutor, che pure tanta preoccupazione ha suscitato nel mondo della scuola e anche fuori. Chi, tra quanti hanno un minimo di esperienza di scuola, può essere contrario a funzioni di tutoring e di coordinamento nelle nostre scuole? Pratiche su questi terreni, almeno a partire dalla seconda metà degli anni '80, si sono andate sempre più diffondendo nelle nostre scuole con buoni risultati. Si trattava e si tratta di innovazioni didattiche organizzative introdotte dapprima nelle scuole sperimentali delle superiori e che successivamente sono state sperimentate anche nelle scuole medie. La scuola elementare per le sue caratteristiche strutturali, a quanto risulta, non è sembrata essere interessata, non ravvisandovi necessità al riguardo.
L'importanza della funzione di tutor, diffusa anche nel panorama europeo (soprattutto nei paesi anglosassoni), è fuori discussione. Si tratta di una strategia didattica attraverso la quale l'insegnante "segue" e "orienta" il percorso scolastico di uno studente, i suoi sviluppi, le sue difficoltà e problemi e fa sentire la sua presenza attraverso l'individuazione e l'uso di strumenti, metodi, risorse anche esterne, utili a raggiungere traguardi condivisi. E lo fa, nelle esperienze migliori, in modo programmato sulla base di un regolare incarico e provvisto delle richieste competenze, normalmente previste dal progetto di scuola. Che quasi mai prevede un incarico di questo tipo per l'intera classe. Infatti, non solo questo snaturerebbe il rapporto interno al consiglio di classe fondato sulla necessaria collegialità, ma, sul piano della fattibilità - e quindi dell'efficacia dell'intervento -, sarebbe improponibile.
Invece nel Decreto, non solo questa funzione viene di fatto attribuita ad un solo insegnante per l'intera classe, ma la si abbina con altre funzioni tutte di grande importanza ( di coordinatore dell'attività didattica, di responsabile del rapporto con le famiglie e della gestione del portfolio delle competenze, di "orientatore"), ma difficilmente destinate al successo se date in carica al docente tutor. E' una questione di buon senso, a parte ogni considerazione, che pure in ogni caso andrebbe fatta
- sull'ambiguità di un'operazione che probabilmente mirava ad altro (all'introduzione di una nuova figura della docenza? Al ritorno al maestro unico o al maestro prevalente nella primaria?),
- sulla invasione di campo rispetto a prerogative proprie delle scuole autonome (autonomia didattica e organizzativa),
- sulla incoerenza rispetto al dettato legislativo (la legge 53 non prevede nulla del genere al riguardo).


Dov'è allora lo scandalo?

(Perché lo scandalo c’è e il nostro viaggiatore, non prevenuto, ma neanche sprovveduto, come sappiamo, non può non cogliere). Non è certo nel richiamo di funzioni che se ben esercitate potrebbero ben costituire strategie importanti per una scuola di qualità - come tante esperienze fin qui condotte hanno permesso di dimostrare - e utili ai fini di un insegnamento individualizzato (grande conquista della pedagogia progressista degli ultimi decenni); ma piuttosto nell'incapacità di delineare un progetto credibile e fattibile sui temi della qualità organizzativa fondata su una necessaria divisione funzionale di compiti (coordinamento, tutorato, cura della documentazione relativa allo sviluppo dell'allievo, valorizzazione del ruolo dei genitori, …) dentro il consiglio di classe e dentro gli Istituti che fosse nello stesso tempo rispettoso dell'autonomia delle scuole.
I rischi di un'operazione del genere sono evidenti; lungi dal rappresentare una occasione di sviluppo e accelerazione di processi che auspicano quanti hanno a cuore una cultura e una pratica organizzativa più qualificata, sviluppa ostilità, per come viene portata avanti, verso funzioni che molte nostre scuole stavano sperimentando e adattando alle proprie specificità.

Sull'area delle opzioni. Individualizzazione cercasi

Un discorso analogo va fatto per le ore opzionali aggiuntive.
Il nostro viaggiatore di ritorno dopo la lunga assenza, e - come abbiamo detto - non sprovveduto sulle cose scolastiche, a sentire parlare di insegnamenti e attività opzionali aggiuntive non troverebbe motivo alcuno di scandalo; anzi potrebbe ritenere scandaloso il fatto che se ne parli in termini negativi e con tanta animosità e allarmismo. E richiamerebbe il fatto che questa scelta pedagogico-didattica si è andata affermando nelle scuole di più forte sensibilità democratica e progressista ed era legata all’obiettivo di garantire opportunità maggiore ai ragazzi. E ciò perché veniva considerata e assunta come strategia di attenzione alle caratteristiche di ciascuno (attitudini, vocazioni, interessi, biografie), pur dentro un percorso unitario finalizzato al raggiungimento di obiettivi comuni.
Anche in questo caso, ritroverebbe il grande tema dell'insegnamento individualizzato come risposta alle questioni dello sviluppo di studenti in carne ed ossa e lo vedrebbe intrecciato con il progetto di scuola.
Ma se spiegassimo al nostro viaggiatore che le attività e gli insegnamenti opzionali
a.sono facoltative e collocate dentro uno spazio orario non obbligatorio
b. sono indicate dalle famiglie,
allora probabilmente avrebbe difficoltà a capire la scelta e il suo senso.
Capirebbe subito infatti che, in pratica, la posizione ministeriale significa che sceglie chi vuole e chi può e sa.
Nelle esperienze migliori delle nostre scuole, già a partire dalla media, l'area delle opzioni era ed è, dove resiste, quella fetta di offerta formativa articolata in insegnamenti e attività capaci di sviluppare identità, “vocazioni”, interessi, di orientare scelte successive, di arricchire. In altri termini: insegnamenti e attività offerti come percorsi individualizzati del curricolo unitario della scuola (Normalmente, come è noto, si trattava e si tratta di un'area di alcune ore settimanali con più offerte tra cui lo studente sceglie obbligatoriamente; offerte legate all'identità di scuola - tipologia, storia, risorse, bisogni formativi degli studenti e del territorio, concorso di famiglie e studenti - in cui l'unità classe " si rompe" per aggregazioni diverse in base non più a logiche di equieterogeneità, come si dice in gergo, - biografie differenti dentro la stessa classe e classi dello stesso istituto formate tutte con lo stesso criterio -, ma in base appunto a bisogni formativi dei singoli, riconosciuti dalle scuole e inserite nel loro progetto educativo - classi aperte -).

Cosa caratterizza queste pratiche di offerta opzionale-integrativa?

Certamente un'idea di scuola non come servizio a domanda ( a cui vanno ricondotte invece sia l’area opzionale-facoltativa, sia i piani di studio personalizzati della riforma Moratti), ma come luogo dove, in coerenza con traguardi formativi definiti nazionalmente e tradotti a livello di istituto, ragazzi diversi crescono assieme e sviluppano le loro "multiple" intelligenze confrontando e scambiando tra loro significati, sotto la guida aperta ed esperta dell’insegnante; e dove quindi l’apprendimento non è solo un’impresa individuale, ma anche – e, per alcuni versi, soprattutto - impresa collettiva.

Questo ci consegnano le pratiche migliori delle nostre scuole ed è questo che non ritroviamo nelle scelte del decreto e nella riforma.

Ancora una strategia importante e vitale – l’attenzione alla persona e alle storie individuali – che viene piegata a visioni individualistiche dello sviluppo culturale e sociale del ragazzo, oltre che a logiche economicistiche (meno organici, meno risorse, meno tempo scuola per tutti). Dove – inoltre - la personalizzazione dei percorsi, orientata dalle famiglie, finisce col rispecchiare e riprodurre la diversità delle condizioni sociali impedendo trasformazioni e mobilità (Nelle superiori questo si traduce nella separazione precoce dei percorsi).

Quando le risorse cambiano di segno. Ovvero famiglie e laboratori.


Nelle riflessioni precedenti è già emerso il ruolo assegnato alle famiglie in questa nuova visione della scuola secondo la riforma Moratti. E, anche in proposito - per riprendere l’immagine del viaggiatore - il nostro non troverebbe ovviamente niente di strano e scandaloso in questa nuova attenzione presente nei testi ministeriali al coinvolgimento dei genitori. In quanto sa per esperienza, che la nostra scuola farebbe bene a imparare a dialogare di più con le famiglie, a raccogliere e interpretarne ansie e attese. Eppure, l’impianto prettamente individualistico della riforma, come abbiamo visto, ne distorce il ruolo e trasforma una possibile risorse in un potenziale stravolgimento della funzione sociale della scuola.

Lo stesso discorso può essere fatto per le attività laboratoriali, Tra le altre spie in proposito, due vanno considerate in modo particolare. La prima è contenuta nella Circolare 29 del 5 marzo 2004 dove l’attività laboratoriale “viene assunta in modo particolare quale modalità operativa per la realizzazione di interventi su compiti elettivi, di compito o di livello, finalizzati al consolidamento e alla personalizzazione degli apprendimenti”; e quindi da luogo dove la cultura del pensare si coniuga con quella del fare - in una logica di ordinarietà e di operatività daproblem solving (come di fatto ancora è nei progetti e nelle esperienze più avanzate delle nostre scuole ) - a strumento per interventi compensativi solo per chi ha difficoltà nell’apprendimento di saperi teorici. Che questa sia la cultura del nostro ministero in proposito, lo si evince anche dalla seconda spia che intendo citare: la nozione di laboratorio negli orientamenti ministeriali, sempre associata al recupero e sviluppo degli apprendimenti (in sigla: LARSA). E qui penso non ci sia bisogno di commenti.

Non sarebbe da capire allora il nostro viaggiatore se decidesse, vista anche la situazione non amena in vari altri settori della vita pubblica, di riprendere il suo viaggio per almeno altri due anni?
Ma a noi tocca altro, sembra di capire. Per esempio, ripartire dalle buone pratiche proprio su quei terreni prima considerati, per svilupparne una praticabilità non pasticciata e verificarne ed estenderne la carica innovativa. E andare oltre. Che di questioni aperte ne abbiamo ancora tante altre che reclamano una riforma vera.

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