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Storie di ieri e di oggi
L'Unità - 28-06-2004
GLI ANNI DI MATTEOTTI E PIRANDELLO

Il mese di giugno 2004 é trascorso con due segnali assai significativi.
In tutta Italia si svolgono in queste settimane convegni e seminari su Enrico Berlinguer scomparso vent'anni fa e si ridiscutono le sue scelte politiche. Dieci anni fa non se ne era affatto parlato.
L'anniversario dell'assassinio di Matteotti, a sua volta, ha prodotto (accanto al libro pubblicato da questo giornale) una ricerca che ha portato una nuova prova pesante e incontrovertibile per la colpevolezza di Mussolini e del gruppo dirigente fascista nel rapimento e nella morte del leader socialista ottant'anni fa. Si tratta del libro di Giuseppe Mayda “Il pugnale di Mussolini. Storia di Amerigo Dùmini, sicario di Matteotti” (Il Mulino editore, pp.415, 22 euro).
Ma, se si esclude “la Stampa”, finora i grandi giornali non ne hanno parlato giacché si tratta di un brutto colpo per il revisionismo italiano che negli ultimi vent'anni ha puntato sui delitti attribuiti a Mussolini per metterli in dubbio, smontare le ricostruzioni contemporanee, togliere al dittatore italiano le responsabilità pesanti di omicidi politici che rendono difficile, se non impossibile, l'idea di un regime autoritario benevolo e del tutto diverso da altri regimi fascisti e dunque non aduso ad usare i metodi del nazionalsocialismo e di altre dittature fasciste europee.
Ebbene la storia di Amerigo Dùmini che Mayda ricostruisce sulle carte di archivi pubblici e privati e di pregnanti testimonianze restituisce puntualmente l'ambiente della Ceka fascista, delle minacce di Mussolini a Matteotti, dell'agguato compiuto dalla squadra di sicari di cui Dùmini fu personaggio centrale per le sue precedenti esperienze come per il suo ruolo all'interno dell'éntourage mussoliniano.
L'autore é in grado di dimostrare che Matteotti venne percepito come un pericolo da Mussolini e dal gruppo dirigente fascista per la sua azione politica decisa e assai più efficace di molta parte dell'opposizione e per la sua capacità di portare alla luce una serie di affari loschi che in quel momento erano in mano a uomini del fascismo e che avrebbero potuto portare all'opposizione anche correnti moderate e vicine o interne alla maggioranza fascista.
Mayda si rifà per questa parte alla ricostruzione fornita qualche anno fa da “Mauro Canali nel suo lavoro su “Il delitto Matteotti” (ripubblicato ora dal Mulino in un'edizione ridotta) che alla pista propriamente politica legata alle violenze elettorali e alle irregolarità dimostrate in questo campo dal deputato socialista aggiunge gli aspetti economici e finanziari che il leader riformista aveva scoperto e che rischiavano di pesare enormemente su un governo non ancora consolidato.
Dùmini riesce a farsi pagare assai bene il prezzo del silenzio mantenuto al processo di Chieti del 1926 e negli anni successivi ottenendo dal governo fascista una vasta concessione in Cirenaica che vale più di due milioni dell'epoca e riesce a ricattare Mussolini per tutto il ventennio minacciando in continuazione di rivelare le responsabilità di Mussolini e del governo nel rapimento e nell'assassinio dell'oppositore socialista.
Rispetto ai memoriali del sottosegretario Finzi e del capo dell'ufficio stampa Cesare Rossi le rivelazioni di Dùmini avevano un grado di specificità e di verità che avrebbero reso inefficaci le smentite e avrebbero ritratto Mussolini come il deus ex machina dell'affare, il protagonista assoluto e dunque il colpevole primo dell'assassinio e delle numerose menzogne dette in seguito per allontanare il delitto dal futuro dittatore.
Ora rispetto alle tesi di chi non nega responsabilità generiche di Mussolini ma afferma che si trattò di un equivoco tra lui e gli squadristi o i suoi collaboratori e che non avrebbe in nessun modo potuto esser provato il suo coinvolgimento diretto, la ricerca di Mayda dà la prova della consapevolezza piena da parte del capo del fascismo del grave pericolo costituito dalle possibili rivelazioni del sicario che fino alla caduta del regime continuò a ricattarlo (o a farlo ricattare dalla madre) ottenendo sempre una risposta positiva, almeno sul piano finanziario, da parte del dittatore.
C'é un ultimo aspetto che vale la pena ricordare di questo mese di giugno. Tra i tanti libri usciti sull'avvenimento (tra cui una ricostruzione minuziosa e attendibile del delitto che si deve a Claudio Fracassi, “Il delitto Matteotti” edizioni Mursia) vorrei segnalare ai lettori il romanzo di Marco Maugeri “Le ceneri di Matteotti” (Edizioni L'ancora del Mediterraneo), che affronta quel momento in una ottica inusuale ma, a mio avviso, assai suggestiva.
Maugeri, all'interno di un racconto, che si presenta come un prodotto di invenzione ma che é attento ai particolari realistici tramandati dalla storia, parla del delitto e contemporaneamente della scelta compiuta nel settembre 1924 da uno dei grandi intellettuali e scrittori del tempo, Luigi Pirandello, che proprio allora si dichiara fascista. La sua dichiarazione rivolta direttamente a Benito Mussolini e pubblicata dal quotidiano fascistissimo “L'Impero” é del 17 settembre, quando la crisi politica é al culmine, poco dopo che alla Quartarella vicino Roma erano stati trovati i resti martoriati di Matteotti e suona sinistra: “Sento che questo é il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita in silenzio e se l'Eccellenza vostra mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregherò come massimo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario. Con devozione intera”.
In pagine assai interessanti e tese, l'autore ricostruisce come parallele le vicende di Matteotti e Pirandello, mette in luce attraverso i successivi incontri dello scrittore siciliano con Mussolini e con il fascismo le contraddizioni che ne derivano ma insiste nello stesso tempo sul significato di quella dichiarazione e di quella scelta assai impolitica ma rivelatrice, a suo modo, di un lato oscuro della società e della cultura italiana che forse gli storici non hanno ancora interamente portato alla luce. Pirandello appariva allora come uno degli scrittori più capaci di penetrare nell'animo degli italiani e in questo senso la sua adesione al fascismo non fu forse un atto di puro e orrido conformismo. O almeno di questo ancora oggi vale la pena discutere.

Nicola Tranfaglia



CICERO PRO "LOBBY SUA"


Il «Manualetto del candidato» ovvero le «Istruzioni per vincere le elezioni»: i consigli a Cicerone del fratello nella Roma repubblicana tra clientelismo e voto di scambio

Cicero «pro lobby sua», così nacque la politica spettacolo


Sapete dove è nata la politica spettacolo? La politica come sapiente gestione dell’immagine (propria) e accorta denigrazione dell’altrui immagine? Non ad Atene, culla dell’«ostracismo», e della «demagogia» come forma di governo. E nemmeno negli States americani, dove è nato il marketing politico moderno, sulla base dei sondaggi. È nata a Roma. Nella Roma repubblicana del primo secolo avanti Cristo, quella sospesa tra potere senatorio e incipiente avvento del Principato.
Per capirlo basta leggere un aureo libretto pubblicato oggi da Manni editore, a cura di Luca Canali e con l’introduzione attualizzante di Furio Colombo. Si chiama Manualetto del candidato (pag.75, Euro 8) ma il suo titolo latino è Commentariolum petitionis, ovvero un viatico elettorale, un manuale in forma di epistola, indirizzata da Quinto Tullio Cicerone al ben più famoso fratello Marco Tullio. Che si accingeva ad affrontare le elezioni a Console nella Roma del 64 ac. Poche pagine dense, prefate e chiosate da Colombo, e dal traduttore Canali, grande latinista e optimus scriptor di romanzi. Che sono un vero e proprio breviario di politica, oltre che indirettamente un trattato sulle passioni. Quelle almeno che muovono una certa politica: elettoralistica, di scambio, e naturalmente di immagine. Cicerone è «uomo nuovo», benestante equestre di Arpino, che aspira a diventare leader della componente senatoria della Repubblica. In una società in movimento. Non più angustamente senatoria o ristretta, ma di massa. Con le legioni e i «pro capite censi» (proletari) in movimento, in una Roma non più fortezza italica, sempre più protesa verso uno stato sovranazionale. In questo quadro l’articolazione del consenso è vitale per ascendere al potere, e cucire i vari strati sociali di una metropoli composita e formicolante, già quasi cosmopolita. Quinto offre al fratello la ricetta per saldare attorno alla sua candidatura suffragi di diversa origine. E la miscela vincente allo scopo è proprio l’immagine. Ecco infatti quanto egli scrive nel’incipit del Commentariolum: «Per quanto le doti naturali abbiano grandissima importanza, sembra tuttavia che in un impegno della durata di pochi mesi, la capacità di apparire più che di essere, possa avere un maggior peso delle qualità naturali stesse». Tutto il manuale è nient’altro che una variazione sul tema. Variazione articolata in corollari organizzativi, per leggere e mettere a buon frutto il variegato panorama sociale e umano che ruota attorno a una contesa elettorale.
Al centro c’è il candidato, e la sua capacità di attrazione. Che fa leva su una risorsa cruciale. Il potenziale di seduzione e convincimento, proteso alla conquista del voto virtuale. Quel voto potrà diventare reale in misura che le lusinghe esibite all’esterno appariranno un’effettiva chance di promozione non per il candidato, bensì per i suoi eventuali supporter. La campagna elettorale diviene così viaggio immaginario nel collegio. Simulazione di un piano d’attacco ben escogitato, che include scenari diversi a seconda degli interlocutori. Ma quel che deve viaggiare per Quinto - ben più che la persona del candidato - è il suo simulacro. Il carisma ubiquo dotato di potere, che attrae e persuade perché è una sorta di moneta su cui investire. Dunque, spiega Quinto, va allestito un ufficio elettorale mobile. Animato dai «deductores», che precedano il candidato. Dai «salutatores», votanti pronti a scegliere l’uno o l’altro, e sempre in bilico «terzista», come nota Colombo. Ma decisivi, se si riesce a ingraziarseli, mostrando deferenza e considerazione del loro ruolo. Accanto al candidato viaggeranno anche i «clamatores», figure al seguito che elencano i nomi dei partecipanti agli incontri. E ovviamente non mancano i «clientes», membri della «political community», parentale o di interesse, che fanno la forza del blocco elettorale. La macchina così montata dovrà essere il più possibile «personalizzata», aiutando il candidato a conoscere vita e problemi dei singoli votanti. Allusiva e seduttiva. Capace di promesse precise, ma non impegnative. E poi anche minacciosa, mettendo in campo pubblicità comparativa tra il candidato e i suoi avversari. Facendo girare la reputazione buona contro quella cattiva. E viceversa. Come quella giocata contro il popularis Catilina, nemico storico di Cicerone e diffamato a bella posta.
S’è parlato all’inizio di Atene e degli Usa. E senz’altro si può parlare di «prima repubblica», come fa Furio Colombo nell’introduzione (impossibile non vedere certi ricorsi, validissimi anche per il presente italiano!). Nondimeno la modernità di questo Commentariolum - prova tecnica per la stessa oratoria mediatica di Cicerone - sta proprio nel suo carattere di paradigma. Non tanto e non solo di democrazia del suffragio, bilanciato da contropoteri e pluralismo (non ateniese dunque) secondo l’ottica repubblicana e «idealizzante» dei federalisti americani, Hamilton e Madison. Paradigma piuttosto di post-democrazia. Dove le fazioni e gli interessi organizzati diventano partiti personali. Enità uniche pigliatutto e trasversali, cucite dall’opinione. Che schiudono la via al dispotismo. Cesaristico, come appunto al tempo di Cicerone. Mediatico e populistico, come si direbbe oggi.

Bruno Gravagnuolo


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